L’idea di questo intervento mi è venuta rivedendo il film di John Frankenheimer, Il treno (The Train, 1964). Il tema trattato mi ha portato a riflettere di nuovo sull’utilità di studiare latino a scuola e in questo post spero di aggiungere nuovi spunti per ragionare su una questione molto dibattuta. La trama è nota: un ufficiale nazista, colto ed esperto di storia dell’arte, vuole portare in Germania su un treno i quadri custoditi al Jeu de Paume; la direttrice del museo, consapevole che si tratta di un tesoro inestimabile per la Francia, anzi che quei quadri si identificano con la Francia stessa, chiede ai partigiani che lavorano alle ferrovie di fermarlo. All’inizio, ovviamente, la sua richiesta viene respinta dal capo della squadra partigiana, Paul Labiche, interpretato da Burt Lancaster, perché salvaguardare dei quadri appare, e forse è, meno importante di altre azioni di sabotaggio necessarie all’imminente fine del conflitto. In seguito, per vendicare la morte di un vecchio ferroviere, Labiche escogita un piano ardito, che otterrà il risultato sperato, ma al prezzo carissimo del sacrificio di molte vite umane. La domanda che mi sembra porre il regista non è banale e nemmeno estranea al nostro tempo, anzi a mio avviso è di fondamentale importanza in questo momento di grandi trasformazioni tecnologiche (si veda il post “Illusioni perdute”, anno 2017), politiche e sociali. Quanto vale l’arte, quanto valgono i libri, la letteratura, la pittura e gli stessi film? Qual è il valore che dobbiamo o vogliamo attribuire al nostro passato storico e artistico? Vale e varrà la pena salvaguardarlo ad ogni costo, a fronte di nuove scoperte scientifiche, della globalizzazione che ha aperto i confini dell’Europa e dell’Occidente, di sfide che per ora nemmeno possiamo immaginare?
Per fortuna, da tempo viviamo in pace, sebbene sotto la continua minaccia terroristica; ma ricordiamo tutti la devastazione del museo di Baghdad durante la guerra del Golfo nel ’90-’91, la distruzione dei Buddha da parte dei Talebani nel marzo 2001, lo sventramento delle Torri Gemelle o l’attentato al museo del Bardo nel 2015. L’orrore per la morte di esseri umani è senz’altro prevalente; tuttavia, anche la salvaguardia di opere create dall’ingegno umano rappresenta un atto di rispetto per l’umanità e proprio in una situazione di pace, ancorché relativa, tale salvaguardia è un nostro dovere come insegnanti e come parte dell’establishment culturale, perché siamo quelli che trasmettiamo il sapere nelle scuole e nelle università, e dobbiamo perciò porre a noi stessi e ai nostri studenti la domanda che pone Frankenheimer con il suo film.
A scuola vengono studiate materie a cui nessuno osa obiettare, perché – come già detto in un post precedente (“Considerazione inattuale XIV”, anno 2015) – sono utili. Sarebbe considerato pazzo chiunque proponesse di eliminare la matematica, le scienze, le lingue dal curriculum scolastico, e giustamente. Viene ritenuto saggio chi si iscrive a ingegneria, legge, economia o a facoltà scientifiche – anche se interessano poco o niente – perché il lavoro sembra assicurato e in ogni caso ci si dedica a studi che servono alla società civile. Non intendo sminuire l’importanza di tali facoltà, la loro utilità e persino il loro fascino (ad esempio, io rimpiango di aver dimenticato quasi tutta la matematica e la fisica imparate al liceo). Però….. però è anche vero che non a tutti interessano quelle materie, che alcuni, anzi molti ragazzi amano l’arte, la letteratura, l’architettura, la filosofia, il cinema e la storia. Molti sono proiettati verso lo studio e la ricerca per un futuro migliore e un benessere concreto, altri verso il passato con l’intenzione di conoscerlo e mantenerlo in vita. In quanto latinista, ritengo che il latino e la letteratura che questa lingua ha creato facciano parte della nostra identità come cittadini italiani, europei ed occidentali. Che dimenticare ciò significherebbe rinunciare a una parte consistente del nostro passato ed essere privati di un sapere che ci renderebbe menomati e meno efficaci nell’affrontare le sfide che il futuro ci presenterà. Credo che lo stesso valga per altre materie, come il greco, la storia dell’arte, la musica…
Ho già mostrato in un altro post (“Romantici vs Classici? Il caso Wordsworth”, anno 2016), e nell’intervento a un recente convegno triestino, il ruolo della poesia di Virgilio nella formazione della poesia romantica inglese. Ma in questo contributo non voglio occuparmi di “alta” letteratura né concentrarmi sull’influenza del latino nella storia della cultura, bensì sulla sua presenza in opere contemporanee, talora di largo consumo. Da appassionata di telefilm americani mi accorgo che le citazioni latine, anche di singole parole o espressioni giuridiche, sono frequentissime: dall’usatissimo m.o, cioè modus operandi, a res ipsa loquitur; per restare in ambito giuridico, in un episodio di The Good Wife un ricchissimo repubblicano ultraconservatore, durante una discussione, fa delle citazioni in latino e si stupisce che l’avvocatessa liberale lo abbia capito e anzi abbia risposto a tono. In una puntata di Bones una ricercatrice viene uccisa, perché un professore vuole impedirle di pubblicare il testo di un poeta latino elegiaco appena scoperto; in The Mentalist un sedicente capitano Nemo si fa chiamare così per non essere riconosciuto, ma il colto protagonista Patrick Jane capisce che di parola latina si tratta. Addirittura, nel celeberrimo Lost un gruppo di persone, una specie di eletti, si esprime in latino (anche se non sempre in maniera corretta…..). Quello che io considero il grande genio della Graphic Novel assieme a Hugo Pratt, e cioè il britannico Alan Moore, ha intitolato uno dei suoi capolavori Watchmen, pur non sapendo che il termine e più in generale il concetto di supereroe che Moore vuole esprimere provenissero da una satira di Giovenale (VI 31-32: quis custodiet ipsos custodes?, che in inglese viene tradotto Who watches the watchmen?) e lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick ha dato il titolo Ubik, che rimanda a Ubique, a uno dei suoi romanzi più intricati e più belli. Uno dei pianeti della saga di Star Wars e di un ciclo di romanzi di Isaac Asimov si chiama Coruscant, dal verbo latino. E che dire dei versi finali di una famosa nonché splendida canzone dei Led Zeppelin, Achilles Last Stand, che ricordano il mitologico Atlante che tiene il mondo sulle spalle (The mighty arms of Atlas, Hold the heavens from the earth / from the earth)? Visto che abbiamo toccato il mondo greco, ricordo un’altra Graphic Novel sulla storia della logica matematica, Logicomix (2008), che si conclude con la rappresentazione dell’Orestea di Eschilo. Infine, nel libro del fisico Carlo Rovelli dedicato al concetto di tempo (L’ordine del tempo, 2017), ogni capitolo ha in epigrafe un verso di Orazio. Si tratta di pochi esempi tra i tanti che ho raccolto. Chi vorrebbe eliminare il latino dalle nostre scuole priverebbe gli studenti di uno strumento per comprendere non solo il passato, ma anche i prodotti dell’intrattenimento contemporaneo e persino letture più impegnate.
Ed ecco infine la mia risposta alla domanda posta dal film Il treno, in questo caso relativa allo studio del latino: vale la pena perdere, non vite umane ovviamente, ma tempo e fatica per apprendere una lingua considerata morta? Io credo di sì, perché, come i quadri del Jeu de Paume, il latino e quanto espresso in questa lingua appartengono ancora alla nostra cultura, possono ancora dirci qualcosa, benché utilizzati in maniera assai disparata, e quindi sono un bene prezioso da salvaguardare e da trasmettere a quanti verranno dopo di noi. Dimenticare il proprio passato artistico e culturale, per quanto inutile possa sembrare, significa rinunciare a una parte della nostra storia e della nostra identità. Obbligo della scuola, secondo me, è anche tentare di far comprendere ai più giovani proprio questo, l’importanza dell’arte in tutte le sue forme come patrimonio inestimabile per un popolo.
© Isabella Canetta, 2018
Spero che l’argomento susciti molti dibattiti, e in ogni caso ci ritorneremo. A Natale un’amica mi ha regalato il libro di Claudio Giunta, “E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica”, Bologna 2017. Giunta, italianista, ma molto concreto e realista, mette in dubbio i valori che Isabella difende, con argomentazioni ed esempi non meno appassionati e desiderosi di dibattito. L’amica che mi ha regalato il volume me lo ha proposto, certamente, come una sfida. Fin d’ora posso dire che non del tutto approvo, ma non del tutto approvo anche nelle motivazioni della controparte (sull’uso del latino nel linguaggio giuridico e nei romanzi polizieschi avevo già scritto altrove, cfr. https://www.academia.edu/25957587/Delitti_virgiliani; in effetti, non è per quello che vale la pena di salvare il latino!).
Occorre rifletterci sopra, con il contributo, mi auguro, di tutti
Leggerò il libro di Giunta, che senz’altro offrirà spunti di riflessione. Al di là del latino, senza sapere il quale si può vivere benissimo, io rimango convinta che la conoscenza e quindi il mantenimento in vita di quanto è stato prodotto dall’ingegno umano (e ci metto dentro anche opere di ingegneria, architettura, tecnologia anche se non incontrano la mia sensibilità) sia di fondamentale importanza per tutti. E che debba continuare ad esserci chi è in grado di condurci attraverso le difficoltà della conoscenza di ciò che non potremmo capire da soli. L’educazione estetica, filosofica e letteraria sono, a mio avviso, percorsi imprescindibili per la nostra crescita emotiva, sentimentale e psicologica. A me è sempre piaciuto un aforisma del filosofo Vladimir Jankelevitch: “Si può vivere senza musica, senza gioia, senza amore e senza filosofia. Ma mica tanto bene”. Credo che possa valere anche per altre arti.
Va bene, ma ora è stato spostato l’argomento in discussione. Anch’io naturalmente penso che le arti abbiano impreziosito la mia vita… Non ho mai nascosto che sono contento di aver vissuto, non fosse altro per aver incontrato Mahler e Shostakovich (nessuno dei quali, ovviamente, ho mai visto di persona), e con loro Virgilio. Ma intanto penso che se qualcuno invece ha trovato lo stesso piacere che trovo io a immergermi in “Urlicht” o nella “Leningrado” dall’incontro, che so, con Roberto Baggio o Paolo Maldini (scelgo volutamente da un passato remoto), embè, pazienza. Magari lo guarderò con un po’ di sufficienza, o potrò lamentare con gli amici che in Italia sia più noto Baggio di Bernstein – per restare alla “b” – ma fine lì: e non escludo affatto che entrambi si sia vissuti bene, io con ciò che andava bene a me, altri con ciò che andava bene a loro.
Dopo di che, credo che il latino debba sopravvivere (il che però non significa essere obbligatorio), perché in latino si sono scritte decine di cose che sono belle e che hanno dato origine a cose belle, che al mondo latino si sono ispirate e che senza il latino non si possono davvero capire (incluse, immagino, le serie televisive citate da Isabella). Questa è, per me, l’unica ragione valida, l’unica che può valere il sacrificio in termini umani previsto dal film di Frankenheimer. E come ho portato decine di amici e allievi a sentire Mahler, sperando di farglielo amare, e continuerò a farlo, così spero di avere portato decine di amici e allievi a sentire Virgilio, sperando di farglielo amare, e continuerò a farlo. Poi, liberi loro di decidere di andarci anche per conto loro, oppure no (nessuna libertà agli esami, però! e qui ci vorrebbe un emoticon ammiccante…)
Io ritengo le arti e le cosiddette discipline umanistiche fondamentali non solo dal punto di vista culturale, ma anche (ed è un aspetto sempre più trascurato nella società globalizzata di cui si parlava poc’anzi) umano: con ciò intendo dire che tali materie oltre ad arricchire il nostro bagaglio di conoscenze servono ad incrementare la nostra sensibilità, la nostra non-indifferenza di fronte a una produzione estetica (qualunque essa sia), tale per cui quando vediamo un estraneo approcciarsi a un testo di letteratura (una canzone o un film) che noi amiamo ci sembra impossibile che non riesca a coglierne tutte quelle sfumature che noi invece vi abbiamo trovato. Un arricchimento conoscitivo e ontologico dunque. Ma mi verrebbe da porre una spinosa domanda: è lo studiare queste “materie” che ci più rende sensibili o è il fatto stesso di essere sensibili che ci indirizza verso un determinato percorso di studi? Probabilmente la verità sta nel mezzo: per restare in tema, io credo che sia importante trasmettere la passione per i grandi della letteratura classica e non solo, perché è grazie a questa stessa passione che una lingua come il latino continuerà a vivere. E se il mondo globalizzato di oggi ci vorrà sempre più anglofoni (oramai le leggi in materia di lavoro in Italia si chiamano Jobs Act) ci adatteremo, senza pur perdere quella passione, che viene riattivata ogni volta che in un film o in una serie tv o in un articolo noi sentiremo un’eco che ci pare famigliare: e allora forse sì, con atteggiamento (in)consapevole di superiorità ci sentiremo più ricchi rispetto a chi ci circonda.