In Petronio, specialmente nel cosiddetto “intermezzo” della Cena di Trimalchione, costituito dalle chiacchiere dei liberti (Satyricon 41, 9-46), su cui mi sono già soffermata in un precedente post (https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2018/02/18/il-latino-dei-liberti/), troviamo uno straordinario campionario di detti, proverbi, modi di dire che rimandano all’ambito biotico, al corpo, alle attività agricole e al mondo animale. Essi caratterizzano in modo vivace ed espressivo i parlanti secondo la loro provenienza, ma, soprattutto, sono rimasti, spesso, stranamente immutati nel tempo, o, in alcuni casi, si sono modificati in modo sorprendentemente scarso. Può essere interessante, e forse anche divertente, evidenziarne alcuni, con riferimento ai modi di dire italiani e dialettali, di Bergamo e di Premana, in Valsassina (per questo ringrazio il collega Marco Sampietro, che mi ha dato preziose indicazioni). Sicuramente, ciascuno sarà in grado di aggiungere detti e proverbi del proprio dialetto. Sono molto gradite, quindi, le segnalazioni in proposito.
-Vinus mihi in cerebrum abiit (Sat. 41, 12) = il vino mi ha dato alla testa, propr. “il vino mi è andato al cervello”. Cfr. it. “il vino / l’alcool mi dà alla testa”; dial. prem. al m’è ‘ndàa ól vìin al còo.
-Modo, modo me appellavit. Videor mihi cum illo loqui = è quello che potremmo chiamare il “paradosso di Monsieur de La Palice”; ovvero, come sempre si dice di una persona defunta all’improvviso, “Mi sembra ancora di vederlo / di parlargli; / gli ho parlato proprio ieri / cinque minuti / un’ora fa; / mi sembra di aver parlato con lui un attimo fa; / mi sembra d’averlo visto ieri”…
–Heu, eheu! Utres inflati ambulamus. Minoris quam muscae sumus. <Illae> tamen aliquam virtutem habent; nos non pluris sumus quam bullae = L’otre doveva essere un oggetto alquanto familiare. Noi diremmo “siamo come delle bolle di sapone” (cfr. le bullae evocate subito dopo nel testo). Sulle mosche, cfr. la considerazione di Gloucester in King Lear (IV, 1, 36-37): As flies to wanton boys, are we to th’Gods; / They kill us for their sport. “Noi siamo per gli dèi quel che per i monelli sono le mosche: / ci schiacciano per divertirsi” (trad. di G. Baldini).
–Tamen abiit ad plures = it. “andare fra i più / nel mondo dei più”.
–Tamen bene elatus est, vitali lecto, stragulis bonis = come sempre, la voce popolare compiange il morto, ma è quasi una consolazione che “abbia avuto un bel funerale / una bella cerimonia”. Cfr., per contrasto, il protagonista de La Roba di Giovanni Verga, Mazzarò, che valuta anche la madre secondo il costo del funerale: “Di donne non aveva avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto”.
-Sed mulier quae mulier milvinum genus = “Ma una donna che sia una donna…che razza d’avvoltoi”, espressione propria di una misoginia millenaria, come quella, ispirata al mondo animale e naturale, di Semonide di Amorgo. (cfr. anche la definizione di Fortunata, moglie di Trimalchione, come pica pulvinaris= lett. “gazza da cuscino”, ossia “chiacchierona”, donna che “non sta zitta nemmeno quando dorme / nemmeno a letto”).
-Sed antiquus amor cancer est = lett. “un amore di lunga data è un cancro”; “l’amore è una malattia inguaribile”, luogo comune duro a morire; cfr. l’uso metaforico e traslato dell’aggettivo “incancrenito”.
-Ab asse crescere (Sat. 43, 1) = “venire su dal niente” (propr. “crescere da un asse”) = dial. prem. vegnì sü dal negót.
-Virorum meminisse (Sat. 43, 1) = “pensare a vivere” (propr. “ricordarsi dei vivi”) = berg. tirà a campà.
-Linguam caninam comedere (Sat. 43, 3) = “non avere peli sulla lingua” (propr. “avere mangiato lingua di cane”) = dial. prem. avèch ‘ne léngue de fööch (propr. “avere una lingua di fuoco”: il che, evidentemente, impedisce di tenere di la bocca chiusa e quindi, per traslato, impone di parlare!). L’idea del cane come animale senza pudore emerge anche dalla definizione di “cinico” per Diogene, o dall’aggettivo kynopis, “faccia di cane, sfrontata”, che Elena in Omero (cfr. Iliade III, 180; IV, 145, VI, 344) riferisce a se stessa (cfr. anche Eur. Andr. 630). E anche nel racconto omerico dedicato al crimine di Clitennestra, la donna viene definita dallo spettro del defunto marito “una faccia di cane”, in quanto non si potrebbe immaginare “nulla di più terribile e di più cane”, dice Agamennone, di una donna che uccida il proprio marito: cfr. Od. XI, 422 ss. Ma, in generale, l’epiteto kynopes, e il corrispondente femminile kynopis “ritraevano probabilmente l’atteggiamento del cane che osa fissare l’uomo negli occhi anche quando, avendo combinato qualche guaio, dovrebbe vergognarsi e abbassare lo sguardo”: così Franco 2003, pp. 170-171. In particolare, nella sfrontatezza del cane, questa temerarietà dello sguardo diretto può associarsi a un’espressione di finto candore che mira a dissimulare la consapevolezza della colpa che il soggetto ha ben presente: e così, anche Agamennone, nel corso della celebre “aspra contesa” con Achille (Il. I 158 ss.) riceve da quest’ultimo le accuse di spudoratezza e di avidità, dato che gli Achei si trovano tutti a Troia solo per soddisfare i suoi desideri, e lui, “faccia di cane” (kynopa), ha per giunta il coraggio di non rispettare chi ha messo a rischio la vita solo a vantaggio suo.
-Et inter initia malam parram pilavit = lett. “e all’inizio ebbe una brutta civetta da pelare” (spellare e spiumare un volatile non è mai semplice né piacevole); it. “ebbe una brutta gatta da pelare”.
-Sed recorrexit costas illius prima vindemia = “ma la prima vendemmia gli rimise a posto le costole”, dialetto berg. “’l sé resbaldìt fò”, detto sia di miglioramenti fisici (riconquista della salute) che morali ed economici.
-Mentum tollere (Sat. 43, 4) = “rialzare la cresta” (propr. “sollevare la testa”), berg. ozzà sü la crèste, berg. lèà sö ’l cò.
-Paratus fuit quadrantem de stercore mordicus tollere = lett. “avrebbe tirato su un centesimo dallo sterco / dal letame con i denti”, espressione ancora oggi assai icastica.
-In manu illius plumbum aurum fiebat = “in mano sua il piombo diventava oro”, espressione proverbiale rimasta identica sino a oggi.
-Niger tanquam corvus = “nero come un corvo”, di persona anziana, ma non canuta, paragone ancora comprensibilissimo e usato: del resto, il colore dei capelli nero intenso con sfumature di blu è ancora oggi definito “corvino”.
-Is, quacunque ibat, terram adurebat (Sat. 44) = it. “fare terra bruciata”
-Quod nec ad caelum nec ad terram pertinet (Sat. 44) = it. “non sta né in cielo né in terra”.
-Stips, o stipes (Sat. 44), = “tronco, legno”, per indicare una persona poco brillante, dura di comprendonio, it. “zuccone”, o meglio, dial. berg. sòc, lett. “ciocco”. Poco più avanti (Sat. 75, 13), analogamente, Trimalchione dirà, della moglie, codex, non mulier.
-Piper, non homo (Sat. 44) = “pepe, non un uomo”. It. “un granellino di pepe / di sale / uomo tutto pepe”, per indicare una persona sempre attiva e vivace, che combina magari a questa qualità la piccola statura. Cfr. Catull. 53, 5 a proposito di Licinio Calvo, la cui eloquenza gli ha meritato questa voce di approvazione: Di magni, salaputium disertum!
-Sed rectus, sed certus, amicus amico, cum quo audacter posses in tenebris micare = “corretto, fidato, amico con gli amici” (il che non sembra il massimo come espressione di moralità per un politico) “uno con cui potevi tranquillamente giocare a morra al buio” (iperbole per indicare l’onestà nei confronti degli “amici”).
–In curia autem quomodo singulos pilabat = it. “li spellava / pelava vivi”, oppure “li faceva neri”.
-Nec schemas loquebatur sed directum = it. “non usava giri di parole “ (si usa la parola greca schema, che forse più correttamente potrebbe essere usata al plurale nella forma schemata, per indicare l’apparato della retorica, inteso in senso deteriore) “andava al sodo / andava al dunque / andava dritto al cuore della questione”.
–Itaque illo tempore annona pro luto erat = espressione chiaramente proverbiale (possiamo renderla, attenuandola con “la roba da mangiare veniva via per niente / costava niente”), che si ritrova nella novella del vetro infrangibile: Sat. 51, 6, si scitum esset, aurum pro luto haberemus, “se si fosse venuto a sapere, l’oro varrebbe come lo sterco”.
–Nemo curat quid annona mordet (Mordet per mordeat, ma del resto, quanti fanno ancora oggi l’interrogativa indiretta con il congiuntivo?). E’ un modo di dire comune: quante volte abbiamo letto frasi come “La crisi morde / la crisi morde ancora”?
-Nam isti maiores maxillae semper Saturnalia agunt = it. “mascelloni, mangioni, ganascioni”. Ricordiamo che la satira del Ventennio, in particolare a Livorno, aveva affibbiato a Costanzo Ciano, padre di Galeazzo Ciano e consuocero di Mussolini, il poco onorevole nomignolo di “Ganascia”, data la sua abitudine a mangiare ai quattro palmenti, e non solo a tavola. Cfr. ancora l’espressione popolare, relativa ai politicanti avidi e disonesti: “Per loro è sempre festa / è sempre Natale”. Oppure, pensiamo all’espressione, ancora più popolare, “è tutto un magna magna”. Sull’idea di “sperperare” i soldi e i beni, propri o pubblici, cfr. l’espressione dialettale bergamasca maià fo / maià sö (cfr. Zappettini 2003, p. 298: Mangiàs teutt ol sò, “dar fondo a tutto il suo”).
-Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli = it. “Ahimè, ogni giorno peggio! (identico al latino). Questa colonia cresce all’indietro come la coda del vitello”, espressione evidentemente proverbiale riferita al mondo animale, come nell’espressione asinus in tegulis (63, 2, “l’asino sul tetto”, cfr. Livio XXXVI, 37, che narra di un prodigio affine, relativo a due mucche, poi sacrificate come piaculum).
-Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum = lett. “Ma poiché noi abbiamo un edile che vale tre fichi di Cauno“; it. “non vale un fico secco”.
-Sed si nos coleos haberemus = it. “Se noi avessimo i c…”. Cfr. come analoga espressione sia sempre nella novella del vetro infrangibile in Sat. 51, 5, putabat se coleum Iovis tenere, “pensava di tenere…la situazione in pugno” (= “di avere gli attributi di Giove”).
-Itaque statim urceatim plovebat = lett. “pioveva a scrosci come da orci rovesciati”; it. “pioveva a catinelle”; dial. berg. piöf a sidèi” (“piovere a secchiate”). L’orcio non è più un oggetto familiare, ma il secchio sì.
-Antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris = Nel pensiero popolare la raffinatezza del vestire femminile va di pari passo con la decadenza morale, e la semplicità e sobrietà negli ornamenti, di converso, è indice di purezza d’animo e onestà: cfr. Dante, Pd. XV, 100-114, là dove Cacciaguida ricorda l’abbigliamento semplice degli abitanti della prisca Firenze (che stava “in pace, sobria e pudica”, v. 99), la cintura d’osso di Bellincion Berti, e la modestia delle donne fiorentine del buon tempo antico, prive di ornamenti troppo costosi e ricercati.
–Litterae thesaurus est, et artificium numquam moritur (Sat. 44) = lett. “l’educazione / la cultura è un tesoro, e un mestiere non muore mai”. Sta parlando un padre, a proposito della formazione del figlio; cfr. la nota espressione “nell’educazione un tesoro”, e il detto “impara l’arte e mettila da parte”, oppure la voce popolare per cui “è sempre importante avere un pezzo di carta”.
-Vervex (Sat. 57) = “caprone”, cfr. berg. besòt, crapa de besot.
-Et habebam in domo qui mihi pedem opponerent hac illac; tamen – genio illius gratiam – enatavi: (Sat. 57) = it. “fare lo sgambetto a qualcuno”; “uscirne fuori”, lett. “uscirne fuori a nuoto”, berg. “rampà fò” (che esprime non l’idea di “nuotare fuori”, ma quella di “uscire arrampicandosi con le unghie da una buca”).
-Qui non valet lotium suum = espressione volgare rinforzata dal successivo periodo ipotetico Ad summam, si circumminxero illum, nesciet qua fugiat; cfr. it. l’espressione scurrile, per indicare sommo disprezzo: “ci p…. sopra”.
-Homo inter homines fuit = it. “Sono un essere umano fra gli esseri umani”; cfr. quanto afferma Trimalchione della moglie Fortunata, che ha riscattato, poco avanti hominem inter homines feci (Sat. 75, 13). Sempre a proposito della moglie, ormai troppo superba, Trimalchione dice “at inflat se tamquam rana”, “si gonfia come una rana” (ricordiamo la favola esopica della rana che si gonfia sino a scoppiare), e la apostrofa, come abbiamo già visto sopra, codex (“ceppo”, berg. sòc).
-Capite aperto ambulo = lett. “cammino a testa scoperta” (senza il copricapo che contraddistingueva gli schiavi liberati), it. “cammino a testa alta”.
–Nec mu nec ma argutas = cfr. it. “non dire né ai né bai”, e simili.
–In alio peduclum vides, in te ricinum non vides = lett. “Vedi il pidocchio altrui / su un altro e non la zecca su di te”; cfr. l’evangelico “Vedi la pagliuzza nell’occhio del vicino e non vedi la trave nel tuo occhio”, diventato poi luogo comune. Peduclus, ossia pediculus, compare fra gli errori sanzionati dall’Appendix Probi.
-Sed in molle carne vermes nascuntur, “nella carne molle nascono i vermi” = it. “il medico pietoso fa la piaga cancerosa”, e simili sempre con l’idea della putrefazione come metafora della corruzione.
-Vasus fictilis = “vaso di coccio”. Manzoni, per indicare la debolezza caratteriale e sociale di don Abbondio, “vaso di coccio tra vasi di ferro” (cap.1, “s’era dunque accorto … d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”); ma Don Abbondio stesso, una volta guarito dalla peste, per indicare la sua permanente fragilità, dirà a Renzo: “Sono una conca fessa” (cap. 38, “Guardatemi: sono una conca fessa; sono stato anch’io, più di là che di qua”…).
–Immo lorus in aqua, lentior, non melior = lett “cuoio nell’acqua, allentato, putre, non migliore”, allusione proverbiale all’impotenza, cfr. Mart. VII, 58, 3. Come sempre, nelle liti e nelle sfuriate, l’insulto va a toccare il campo sessuale.
Soffermarsi un poco su questi detti e proverbi (sul che, rimando a Duneton 2003, che svolge la storia delle espressioni idiomatiche francesi, e non solo, a partire dal latino) è utile, perché fa capire la vicinanza antropologica al di là della lontananza temporale. Non dimentichiamo mai che la nostra lontananza dal latino non è spaziale, ma temporale, ed è pertanto una lontananza avvertita dagli studenti come più grave, spesso terrorizzante e addirittura respingente, ovvero come una discrasia fortissima (un’eccezione, questa, rispetto al principio, solitamente valido, della loro equipollenza spazio-temporale).
Bibliografia essenziale
F. Abbott, The Use of Language as a Mean of Characterization in Petronius, “CPh” 2, 1907, pp. 43-50;
B. Boyce, The Language of the Freedmen in Petronius’ “Cena Trimalchionis”, Leiden 1991;
V.Ciaffi, Intermezzo nella “Cena” petroniana (XLI, 10 – LVI, 8), “RFIC” NS 33, 1955, pp. 113-145;
C. Duneton, La puce à l’oreille: les espressions imagées et leur histoire, Paris 2003;
C. Franco, Senza ritegno. Il cane e la donna nell’immaginario della Grecia antica, Antropologia del mondo antico, Bologna 2003;
A. Perutelli, Le chiacchiere dei liberti. Dialogo e commedia in Petronio XLI – LXVII, “Maia” NS 37, 1985, pp. 103-120;
S. Stucchi, Autobiografia immaginaria, riscrittura, reinvenzione: tre sentieri per la ricezione di Petronio, “Aufidus” 75, 2016, pp. 735-756;
S. Zappettini, Vocabolario bergamasco-italiano per ogni classe di persone e specialmente per la gioventù, Bergamo 1859, rist. anast. Bergamo 1990.
© Silvia Stucchi, 2018