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  • Una rilettura (post)romantica di Catullo

    Una rilettura (post)romantica di Catullo

    La passione del compositore Carl Orff (1895-1982) per la classicità, che risale all’età scolare, si indovina facilmente anche solo scorrendo i titoli della sua produzione: Orpheus, 1925; Antigonae, 1949; Trionfo di Afrodite, 1953; Oedipus der Tyrann, 1959; Prometheus, 1968; De temporum fine comoedia, 1973. Tale passione si accompagna a quella ancora più precoce (visto che data dall’infanzia) per il teatro, campo in cui Orff ha di fatto quasi esclusivamente concentrato i suoi sforzi compositivi. Nel 1930 dalle mani del musicista trentacinquenne escono due serie di Chorsätze a cappella, in cui vengono messe in musica alcune liriche catulliane. In particolare: nella serie denominata Catulli Carmina I, vengono intonati i carmina 85, 5, 51, 41, 8, 87 e 75 (in quest’ordine); nella serie denominata Catulli Carmina II (del 1931), il 46, il 101 e il 31. In questi due cicli il compositore, oltre a rivelare la sua predilezione per il poeta veronese, per la prima volta si serve del latino come lingua per i testi da musicare (qualche precedente era reperibile solo negli esercizi scritti per la scuola, il cosiddetto Schulwerk). Il primo dei due cicli è anche l’antecedente diretto di un’opera di più ampio impegno compositivo, completata solo nel 1943 e rappresentata all’Opera di Lipsia – rimaneggiata in una nuova veste – con il nome di Ludi scaenici Catulli Carmina. Per questa composizione Orff aveva  musicato anche i carmina 58, 70, 109, 73 e 32.

    Prima di analizzare le particolarità di quest’opera, pare opportuno chiarire quale sia la natura della forma compositiva cui il compositore si riferisce con l’indicazione di ludi scaenici. Infatti, come aveva già sottolineato Werner Thomas, amico e collaboratore di Orff, questa dicitura allude al Theatrum emblematicum barocco, in cui l’argomento tende ad assumere carattere antipsicologico e il coro a rivestire funzione didattica di commento. In effetti Orff, pur non avendo mai confermato questo riferimento, aveva già fatto uso delle Imagines magicae di origine barocca nella Lukaspassion (1932) e aveva lavorato fino al 1933 alla rielaborazione della commedia gesuitica Philotea (1643) di Johannes Paullinus, opera peraltro mai rappresentata vivente l’autore e la cui partitura è andata in seguito perduta. Per parte sua, Orff – riferendosi alla scena dei Ludi – preferì sempre richiamarsi semmai alla forma della commedia madrigalesca (sui precisi caratteri della quale, bisogna dire, regna un po’ di confusione), della quale verrebbero a suo dire recuperate le figure dei ballerini e il coro che canta a cappella. Ad ogni modo, al di là del riferimento più o meno esplicito a questo o a quel modello, è fuori di dubbio che i Catulli Carmina sono un prodotto dello studio e del recupero erudito, da parte di Orff , di forme del teatro barocco.

    Nel 1953 i Carmina vennero uniti con i precedenti Carmina Burana (risalenti al 1936) e il già ricordato Trionfo di Afrodite, realizzato invece per l’occasione. Le tre cantate vennero a costituire uno spettacolo unitario, andato in scena per la prima volta – con il titolo di I Trionfi  – al Teatro alla Scala di Milano. I tre testi condividono la stessa concezione scenica; in essi l’azione o manca del tutto o, se anche è presente, è in un certo senso simbolica e ambisce a significare qualcosa di universale, perché originario, elementare, e come tale comune a tutti e sempre valido. Per raggiungere questo effetto Orff si serve del suo personalissimo stile, che definisce “fatto musicale originario” (Urgrundmusik), in cui parola, suono e gesto scenico esprimono la stessa cosa. In questo senso, però, i Catulli carmina presentano almeno un paio di particolarità rispetto al resto del trittico. La prima è la presenza di un’orchestra che, quando presente, è di sole percussioni (prima volta per Orff) e che, raccogliendo un coacervo di strumenti extraeuropei già sperimentati in ambito didattico, contribuisce a creare un forte senso di alienazione spazio-temporale nell’ascoltatore. Poi, altra eccezione, i carmina presentano una struttura di teatro nel teatro, in cui la vicenda amorosa del poeta Catullo viene offerta di exemplum a un gruppo di giovani innamorati, che assistendovi dovrebbero liberarsi della propria passione. Per questo, nella composizione Catullo viene a essere contemporaneamente poeta, visto che fornisce lui stesso i testi del ludus, e personaggio, agendo, per così dire, il suo dramma.

    Il testo della cornice narrativa (Praelusio ed Exodium), entro la quale si inserisce poi la vicenda catulliana (Actus I, II e III), è tutto di mano di Orff (latino incluso), e suggerisce una buona conoscenza della letteratura e della cultura antica, da Plauto agli elegiaci (Properzio, Ovidio, senza contare, ovviamente, Catullo), all’imperatore Adriano. Orff fa anche uso di proverbi, e addirittura perfino delle epigrafi pompeiane (CIL IV, 9123 e CIL IV, 7621), probabilmente ritrovate nelle Pompeianische Wandinschriften di Hieronymus Geist (1936), o nell’edizione ad usum scholarum di Ernst Diehl (1910). Sulla scena appaiono due cori, iuvenes e iuvenculae, che dopo essersi reciprocamente dichiarati amore eterno (eis aiona, tui sum), cominciano a indirizzarsi inviti amorosi, a tratti esplicitamente erotici, innescando un entusiastico gioco linguistico fondato su un lessico di sapore elegiaco, pieno di diminutivi e vezzeggiativi (O tua blandula, blanda blandicula, tua labella ad ludum prolectant; O tua mentula cupide saliens, peni peniculus, velut pisciculus, is qui desiderat tuam fonticulam).

    (iuvenes et iuvenculae)

    Interviene però un coro di senes, che prima deride le parole dei giovani, poi definisce ingenuo tanto entusiasmo. Con l’obiettivo di istruire i giovani sull’illusorietà del sentimento amoroso, i vecchi introducono allora la vicenda del poeta Catullo.

    (senes)

    Ecco dunque comparire sulla scena il personaggio Catullo (Actus I), che si esprime solo tramite le parole delle sue liriche. Tuttavia, come accennavo prima, davanti agli occhi degli spettatori si trovano contemporaneamente due Catullo: il personaggio, che, essendo presentato dai senes (e quindi da Orff) col preciso obiettivo di avvalorare il loro punto di vista, risulta almeno in parte rivisitato, aggiustato per il fine narrativo; e il poeta, che, oltre a fornire i testi al personaggio, offre sfumature più numerose di quest’ultimo, potenzialmente variabili con il variare della conoscenza del Liber che ogni singolo spettatore può avere. Mi sembra quindi opportuno evidenziare alcuni esempi che possano dare conto dell’operazione che Orff ha compiuto intessendo un gioco ironico, consapevole o meno, con gli spettatori, che permette ancora una volta di problematizzare il rapporto della classicità con le epoche successive.

    Il racconto inizia con un coro che declama il carme 85, il celebre Odi et amo. Seguono la presentazione del protagonista e dell’amata Lesbia, e il loro duetto d’amore (scene I, II e III).

    (Odi et amo)
    (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus)
    (Ille mi par esse deo videtur)

    Nella scena IV compare Celio, amico del poeta, al quale questi, offeso e preoccupato per aver assistito al mimo di Lesbia che danza insieme ad altri uomini, declama il carmen 58. L’identificazione di questo Celio risulta meno lineare di come è data dal compositore. Infatti, l’atteggiamento che il poeta tiene sulla scena nei suoi confronti porterebbe a riconoscervi il Caelius, flos Veronensum iuvenum del carmen 100, amico provato di Catullo, perfettamente a conoscenza delle sue sofferenze d’amore. Proprio in tal senso andrà dunque letto il Lesbia nostra del testo catulliano. Eppure, è ben nota la tendenza di parte della critica a interpretare quel nostra in senso letterale, riconoscendo in Celio il Marco Celio Rufo, oratore italico, non veronese, difeso da Cicerone nella Pro Caelio, anch’egli vittima dell’amore per Lesbia. Il riferimento ciceroniano è un’interessante prova extra-testuale, tanto più se si accetta che questo Celio sia il medesimo Rufo del carmen 77, lì definito amico ma traditore del poeta. Ancora più fitta si fa però la questione a problematizzare l’identità del Rufo del carmen 77, che certamente potrebbe essere l’oratore, ma che potrebbe anche essere tutt’altra persona. Dunque, nella migliore delle ipotesi i Celio in certo qual modo legati alle sorti di Lesbia e Catullo nel Liber sono almeno due, mentre nei Ludi scaenici Orff sembra riassumere nello stesso personaggio sia l’amico confidente, sia il traditore, che prenderà il posto di Catullo tra le braccia della donna amata nell’Actus II (scena VII). Dopotutto, è topica nel repertorio operistico e letterario la figura dell’amico presunto leale, salvo poi rivelarsi infido nel corso della vicenda. Ad ogni modo, l’operazione di Orff risulta arbitraria, e tanto basti.

    (Caeli, Lesbia nostra)

    Un’ulteriore interpretazione dei dati “biografici” contenuti nel Liber è riconoscibile procedendo oltre. Scoperto il tradimento di Lesbia e di Celio, in sogno (scena VI) e nella realtà (scena VII), il personaggio Catullo apre l’Actus III con spirito mutato. Intona nuovamente l’Odi et amo con cui si era aperto il ludus, ma questa volta alla fine del carmen, anziché presentarsi Lesbia, fanno la loro comparsa Ipsitilla (scena IX) e Ameana (scena X). Le due avventure amorose del protagonista vengono offerte agli spettatori come tentativi fallaci di consolarsi dell’abbandono della donna amata. Nella scena di Ispitilla (carmen 32) vi è ancora qualche traccia di affetto, deducibile sia dalla dinamica, che oscilla tra il piano e il pianissimo, sia dal fatto che viene inscenata la scrittura di una lettera privata indirizzata dal poeta alla donna. Questi due indizi potrebbero sottendere una relazione intima tra i due, ferma restando l’estrema fisicità che la lettera dipinge. In ben altri termini è presentata la vicenda di Ameana (carmen 41), dove non vi è nemmeno un tentativo pur fittizio di dolcezza. Piuttosto, i toni sono quelli di una pubblica duplice accusa rivolta alla donna, quella di essere puella defututa, e per di più disonesta. Ciò che mi interessa mettere in evidenza rispetto a questi episodi è però l’ordine in cui Orff sceglie di presentarli, immaginandoli entrambi successivi alla deludente esperienza con Lesbia, e consecutivi tra loro.

    (Amabo, mea dulcis Ipsitilla)
    (Ameana, puella defututa)

    Inutile segnalare che, invece, leggendo il Liber non vi è alcuna possibilità di sapere se i due episodi vadano pensati in quest’ordine, né se siano davvero successivi all’amore per Lesbia. Eppure, questa è la scelta del compositore, ed è ancora una volta una scelta squisitamente drammaturgica. Anche questa struttura narrativa, come quella dell’amico traditore, e forse anche più di quella, risulta infatti piuttosto nota. Il tentativo di vendicarsi della donna amata intrecciando relazioni di ripicca inesorabilmente fallaci è già motivo tibulliano (I, 5) e percorre tutta la letteratura occidentale, fino ai giorni nostri (nel repertorio operistico, ad esempio, si ricordi il cambio Lola/Santuzza negli affetti di Turiddu, in Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, 1890). Anche la presenza di più di una relazione amorosa, tra l’altro di tono sempre meno romantico, era già stata sondata – per esempio – da Jacques Offenbach nei suoi Les Contes d’Hoffmann (1881). Lì pure un poeta, artista e campione del romanticismo tedesco, offriva se stesso come exemplum ad alcuni giovani studenti, chiarendo come fosse stata la sequenza di tre amori, quelli per Olympia, Antonia e Giulietta, a portarlo a perdere l’anima e a scegliere, alla fine, di dedicarsi solo all’arte, preferendola anche alla tanto attesa, bellissima Stella. Le somiglianze con il Catullo orffiano sono, in questo caso, suggestive, ma non ci è dato sapere se il compositore avesse presente questo antecedente – e in fondo poco importa. Importa semmai notare che provando, come altri prima e dopo di lui, a riordinare la biografia catulliana a partire dagli indizi forniti dal Liber, indizi che egli riteneva sempre biografici, Orff abbia compiuto questa operazione seguendo uno schema tipico delle biografie sentimentali, alla formazione del quale sicuramente Catullo e gli elegiaci latini hanno contribuito e dal quale lo stesso Offenbach, e molti altri, possono più o meno involontariamente avere attinto.

    Per concludere, vorrei sottolineare un’altra scelta, più sottile, che mi sembra sottesa alla narrazione di Orff e che denuncia, come le altre, un certo grado di lavoro sul materiale catulliano di riferimento. Conclusi i tentativi di consolarsi tra le braccia di altre donne, e dopo aver intonato il carmen 8 (scena XI) per farsi forza nel chiudere i rapporti con Lesbia, il personaggio Catullo incontra nuovamente sulla scena la donna accompagnata da Celio, e finalmente la vicenda sembra prendere un’altra piega. Infatti, lei gli va incontro pronunciando il suo nome, mentre lui la respinge. Segue l’intonazione dei carmina 87 e 75 in un’unica soluzione, come già apparivano nel Chorsatz. In quest’ultima scena (XII), il protagonista pronuncia le dure conclusioni verso le quali lo hanno portato le estenuanti vicissitudini con la donna amata. Egli la accusa di essere venuta meno al foedus amicitiae, cui lui si sarebbe invece mantenuto irreprensibilmente fedele (così almeno dice), e pronuncia la celebre distinzione tra amare e bene velle, sostenendo che nec iam bene velle queat tibi, si optima fias, nec desistere amare, omnia si facias. Insomma, alla conclusione del ludus Orff sembra voler condividere questa distinzione catulliana, che di fatto assume i caratteri di un punto d’arrivo per il suo protagonista. Anche in questo caso, però, mi pare che l’antinomia catulliana venga adattata alle esigenze del compositore. Infatti, nel modo in cui la presenta Orff sembrano perdersi le implicazioni che i termini bene velle e amare portavano con sé sul piano socio-familiare del mondo latino, limitandosi a significare delle sfumature sentimentali e un punto di vista diverso dall’inizio per il personaggio Catullo, divenuto in un certo senso più consapevole. Del resto, questa era la posizione portata avanti dai senes, e la ragione stessa di proporre l’exemplum catulliano. D’altra parte, il riferimento culturale sembra essere sempre quello della biografia sentimentale: Catullo che respinge Lesbia, non è diverso da Hoffmann che respinge Stella alla fine dei Contes.

    Tornando a Orff, pare legittimo pensare che in questo quadro dei Trionfi il compositore, coerentemente con la concezione scenica dell’intero trittico, abbia voluto dipingere principalmente l’aspetto individuale e romantico dell’amore, con l’obiettivo di rappresentare un universale umano, pur mediato, come abbiamo visto, da un post-romanticismo narrativo in cui ancora trovava ispirazione all’altezza degli anni Quaranta. Infatti, la complessità apparentemente perduta dell’antinomia catulliana tra amare e bene velle ritorna con tutto il suo spessore, e con un esito inedito anche per il poeta latino, nel Trionfo di Afrodite, insieme con il recupero, da parte del compositore, della poesia di Saffo, di Euripide e dei carmina docta 61 e 62. Proprio l’ultimo quadro dei nostri carmina, l’exodium proposto alla fine dell’episodio di teatro nel teatro, introduce di nuovo i due cori di giovani che, dopo aver ripetuto l’eis aiona iniziale, aprono il rito nuziale inscenato nel Trionfo d’Afrodite e negli epitalami catulliani, con le parole Accendite faces.

    (Exodium)

    La passione tumultuante si è placata, il Trionfo successivo celebrerà la forza d’Amore incanalato in una relazione matrimoniale. L’amante di Lesbia deve farsi da parte…

    © Michele Genovese, 2019 (foto di Marcello Ferrario, 2009)

  • E l’assassino è…Sofocle

    E l’assassino è…Sofocle

    Che i romanzi polizieschi amino flirtare con il mondo classico è cosa nota, e mi permetto di rimandare a una pubblicazione di qualche anno fa, nata dai bellissimi incontri organizzati dal prof. Maurizio Grimaldi al Liceo “G.B. Vico” di Nocera Inferiore, in occasione del Certamen Vergilianum che da oltre vent’anni vi si tiene alla fine di Aprile. L’intervento, pubblicato negli atti del 2015, è reperibile anche sul sito “Academia.edu”, all’indirizzo https://www.academia.edu/25957587/Delitti_virgiliani.

    Se poi l’autore è Colin Dexter, 1930-2017, ideatore della fortunata serie che ha per protagonista l’ispettore Morse, la cosa è ancora più facile. Non solo perché Morse opera a Oxford, luogo della classicità per eccellenza; ma anche perché Dexter, laureato in Classics, è stato per anni insegnante di latino e greco nelle scuole superiori inglesi, prima di passare a lavori legati all’amministrazione oxoniense, a causa di una progressiva sordità e altri problemi di salute. La serie dell’Ispettore Morse, tredici romanzi in tutto, scritti fra il 1975 e il 1999 (cui si affianca una fortunata serie televisiva, realizzata anch’essa con la supervisione di Dexter), non manca perciò di far sfoggio di dottrina classica, anche perché tale dottrina è il mezzo attraverso il quale l’ispettore segnala la propria distanza dal volenteroso, ma povero di cultura, sergente che sempre l’accompagna, il mite e paziente Robert (Robbie) Lewis.

    Dal quinto romanzo della serie, The Dead of Jericho (tutti i testi sono stati tradotti in italiano, prima per Longanesi e Mondadori, ora per Sellerio; i tredici romanzi sono stati trasferiti nella serie televisiva, che conta però anche una ventina di episodi originali), ricavo la lunga citazione, in inglese, che costituisce la sostanza di questo post e ne spiega il titolo. Alcune avvertenze: Jericho è un quartiere di Oxford, realmente esistente. Il romanzo sviluppa le indagini relative al suicidio, apparentemente senza spiegazione, della bella Anne Scott, un’insegnante che dà lezioni private e ripetizioni di tedesco a casa sua, e poi quelle relative alla morte di un suo vicino, coinvolto in un tentativo di ricatto che porta alla sua violenta uccisione. E’ però la sorte di Anne quella che ci interessa. Morse è colpito subito dalla biblioteca domestica della donna, dove, accanto agli strumenti del mestiere, figura un gran numero di classici greci e latini, letti nella meravigliosa “Penguin Collection”. Nella pagina che riporto, Morse è al pub con il sergente Lewis – una scena che si ripete spesso nei romanzi: la birra e la musica di Wagner sono le passioni non tanto segrete dell’ispettore – e lì rivela le ragioni del suicidio di Anne, o almeno quelle che ritiene tali (i romanzi di Dexter non hanno mai finali banali, e le conclusioni di Morse non sono sempre confermate dai fatti; altro non dico). Della lunga citazione segnalo per ora soltanto la battuta finale, un omaggio a tutti coloro che hanno a che fare con i classici…

    ‘There are three basic views about human life,’ began Morse. ‘One of them says that everything happens by pure chance, like atoms falling through space, colliding with each other occasionally and cannoning off to start new collisions. According to this view there’s nothing in the scheme of things that has sorted us out – you and me, Lewis – to sit here in this pub, at this particular time, to drink a pint of beer together. It’s all just a pure fluke-all just a chancy set of fortuitous circumstances. Then you get those who reckon that it’s ourselves, as people, who determine what happens -at least to some extent. In other words, it’s our own characters that affect the way things turn out. Sooner or later our sins will find us out and we have to accept the consequences. And then there’s another view: the view that it doesn’t matter a bugger what particular circumstances are, or what individual people do. The future’s fixed and firm -just like the past is. Things are somehow ordained from on high-pre-ordained, that’s the word. There’s a predetermined pattern in life. What’s going to be-is going to be; and whatever you do and whatever your luck is, you just can’t avoid it. If your number’s up -your number’s up! Fate -that’s what they call it.’

    ‘What do you believe, sir?’

    ‘Me? Well, I certainly don’t go for all this “fate” lark. It’s a load of nonsense. I reckon I come somewhere in the middle of the other two. But that’s neither here nor there. What is important is what Anne Scott believed; and it’s perfectly clear to me that she was a firm believer in the fates. She even mentioned the word, I remember. And then there was that particular row of books just above the desk in her study-all those Penguin Classics, Lewis. It’s pretty clear from the look of some of those creased black spines that the works of the Greek tragedians must have made a deep impression on her, and some of those stories-well, let’s be more specific. There was one book she’d been rereading very recently and hadn’t put back on the shelf yet. It was lying on her desk, Lewis, and one of the stories in that book-‘

    ‘I think I’m getting a bit lost, sir.’

    ‘All right. Listen! Let me tell you a story. Once upon a time -a long, long time ago, in fact -a handsome young prince came to a city and quite naturally he was entertained at the palace, where he met the queen of that city. Soon these two found themselves in each other’s company quite a bit, and the prince fell in love with the beautiful and lonely queen; and she, in turn, fell in love with the young prince. And things were easy for them. The prince was a bachelor and he found out that the queen was a widow-her husband had recently been killed on a journey by road to one of the neighbouring cities. So they confessed their love-and then they got married. Had quite a few kids, too. And it would’ve been nice if they’d lived happily ever after, wouldn’t it? But I’m afraid they didn’t. In fact, the story of what happened to the pair of them after that is one of the most chilling and terrifying myths in the whole of Greek literature. You know what happened then, of course?’

    Lewis looked down at his beer and reflected sadly upon his lack of any literary education.

    ‘I’m sorry, I don’t, sir. We didn’t have any of that Greek and Latin stuff when I was at school.”

    Morse knew again at that moment exactly why he always wanted Lewis around. The man was so wholesome, somehow: honest, unpretentious, humble, almost, in his experience of philosophy and life. A lovable man; a good man. And Morse continued in a gentler, less arrogant tone.

    ‘It’s a tragic story. The prince had plenty of time on his hands and one day he decided to find out, if he could, how the queen’s former husband had died. He spent years digging out eye-witnesses of what had happened, and he finally discovered that the king hadn’t died in an accident after all: he’d been murdered. And he kept working away at the case, Lewis, and do you know what he found? He found that the murderer had been -‘ (the fingers of Morse’s left hand which had been gesticulating haphazardly in front of him, suddenly tautened and turned dramatically to point to his own chest) ‘-that the murderer had been himself. And he learned something else, too. He learned that the man he’d murdered had been-his own father. And in a blinding, terrifying flash of insight, Lewis, he realized the full enormity of what he’d done. You see, not only had he murdered his own father – but he’d married his own mother, and had a family by her! And the truth had to come out – all of it. And when it did, the queen went and hanged herself. And the prince, when he heard what she’d done, he -he blinded himself. That’s it. That’s the myth of Oedipus.’

    Morse had finished, and Lewis felt himself strangely moved by the story and the way his chief had told it. He thought that if only his own schoolteachers had been able to tell him about such top-of-the-head stuff in the way Morse had just done, he would never have felt so distanced from that intimidating crew who were listed in the index of his encyclopaedia under ‘Tragedians’.

    Nel romanzo, Anne si è sposata giovanissima a un marito morto poi in un incidente stradale, provocato da un neopatentato, ancora inesperto di guida. A quel neopatentato, forse senza saperlo, Anne ha dato ripetizioni di tedesco, in prospettiva di quello che corrisponde, più o meno, al nostro esame di maturità. Oppressa dalla vedovanza lei, dal fascino della propria insegnante lui (un classico dell’erotismo adolescenziale), è finita che i due non si sono limitati alle lezioni di tedesco, e poiché da cosa nasce cosa, giusto il giorno del proprio suicidio Anne ha appreso, dalle analisi ufficiali, di essere rimasta incinta del giovane. Non solo: in una conversazione accidentale, la sera prima Anne ha saputo che il giovane potrebbe essere suo figlio – il figlio avuto dal legittimo marito, ma che la coppia aveva affidato a un istituto di adozione, perché, sposatisi troppo giovani, non avevano i mezzi materiali per crescere il bambino. Insomma, ecco qua Edipo, Laio e Giocasta in una versione moderna, come spiega al suo assistente (e ai lettori) Morse:

    ‘You can appreciate, Lewis, how Anne Scott’s intimate knowledge of this old myth was bound to affect her attitudes and actions. Just think! As a young and beautiful undergrad here, she had met a man and married him, just as in the Oedipus myth Queen Jocasta married King Laius. Then a baby arrived. And just as Jocasta could not keep her baby because an oracle had told her that the baby would kill its father -so Anne Scott and her husband couldn’t keep their, because they had no permanent home or jobs and little chance of bringing up the boy with any decent prospects. Jocasta and Laius exposed the infant Oedipus on some hillside or other; and Anne and her husband did the modern equivalent-they found a private adoption society which took the baby off their hands immediately. I don’t know much about the rules and regulations of these societies, but I’d like to bet that in this case there was a provision that the mother was not to know who the future foster-parents were going to be, and that the foster-parents weren’t to know who the actual mother was.

    ‘When Laius, Jocasta’s husband, was killed, it had been on the road between Thebes and Corinth -a road accident, Lewis! When Anne Scott’s husband died, it had also been in a road accident, and I’m pretty sure that she knew all about it. But, in itself, that couldn’t have been a matter of great moment. It had been an accident: the inquest had found neither party predominantly to blame. If experience in driving means anything, it means that you have to expect learner drivers like Michael Murdoch [il giovane nella parte involontaria di Edipo, ndr] – to do something daft occasionally; and in this case, Anne Scott’s husband wasn’t careful enough to cope with the other fellow’s inexperience. But do you see how things are beginning to build up and develop, Lewis? Everything is beginning to assume a menacing and sinister importance. Young Michael Murdoch was visiting Anne Scott once a week for special coaching; and as they sat next to each other week after week I reckon that sheer physical proximity got a bit too much for both of them. The young lad must have become infatuated by a comparatively mature and attractive woman -a woman with a full and eminent figure; and the woman herself, who had probably only been in love once in her life, must surely have felt the attraction of a young, virile lad who worshipped whatever ground she chose to tread. Then? Well, then the trouble starts. She misses a period – and then another; and she goes off to the Jericho Clinic – where they tell her they’ll let her know as soon as they can. As the days pass, Anne Scott must have felt that the fates were conspiring against her. Michael Murdoch was the very last person in the world she was going to tell her troubles to: he’d finished his schooling, anyway, and so there was no longer any legitimate reason for them seeing each other. Perhaps they met again once or twice after that – I just don’t know. What is perfectly clear is that Anne Scott was growing increasingly depressed as the days dragged on. Life hadn’t been very kind to her, and looking back on things she saw evidence only of her failures:  her hasty adolescent marriage that had been short-lived and disastrous; other lovers, no doubt, who’d given her some physical gratification, but little else; and then Michael Murdoch …’

    ‘So,’ resumed Morse, lapping his lips into the level of his pint, ‘Anne Scott’s making a bit of a mess of her life. She’s still attractive enough to middle-aged men like you and me, Lewis; but most of those are already bespoke, like you, and the ones that are left, like me, are a load of old remaindered books – out of date and going cheap. But her real tragedy is that she’s still attractive to some of the young pupils who come along to that piddling little property of hers in Jericho. She’s got no regular income except for the fees from a succession of half-wits whose parents are rich enough and stupid enough to cough up and keep hoping. She goes out quite a bit, of course, and occasionally she meets a nice enough chap but… No! Things don’t work out, and she begins to think-she begins to believe -that they never will. She’s got a deeply pessimistic and fatalistic streak in her make-up, and in the end, as you know, she abandons all hope. But she was a pretty tough girl, I should think, and she’d have been able to cope with her problems -if it hadn’t been for that shattering revelation at the evening.

    ‘She’d been reading the Oedipus story again in the Penguin translation-probably with one of her pupils-and the ground’s all naked and ready for the seeds that were sown that fateful evening. Adoption and birthdays-they were the seeds, Lewis, and it must have been the most traumatic shock of her whole life when the terrible truth dawned on her: Michael Murdoch was her own son. And as the implications whirled round in her mind, she must have seen the whole thing in terms of the fates marking her out as another Jocasta. Everything fitted. Her husband had been killed – killed in a road accident-killed by her own son -a son with whom she’d been having sex -a son who was the father of the child she was expecting. She must have felt utterly powerless against the workings of what she saw as the pre-ordained tragedy of her own benighted life. And so she decides to do the one thing that was left open to her: to stop all the struggling and to surrender to her fate; to co-operate with the forces that were now driving her inexorably to her own death -a death she slowly determines, as she sits through that long and hopeless night, will be the death that Queen Jocasta chose. And so, my old friend, she hanged herself …

    Da qui la battuta finale:

    “The whole wretched thing’s nothing less than a ghastly re-enactment of the old myth as you can read it in Sophocles. And as I told you, if there was one man guilty of Anne Scott’s death, that man was Sophocles”.

    I classici diventano vita, perché la vita varia nelle forme, ma rimane sempre uguale nella sostanza; per questo, essi possono fornire infinite occasioni di narrazione e ri-narrazione, bisognose di essere attualizzate, ma non di essere modificate, perché sempre identica è la sostanza del vivere umano. Nello stesso tempo, i classici sono uno strumento ermeneutico della nostra esistenza, alla quale forniscono gli archetipi capaci di darle significato (tragico, nel caso di Anne; esegetico, per Morse). Tutto ciò però, pensa sconsolato Lewis, solo a patto che qualcuno abbia saputo renderceli vivi, evitando così di farli apparire come un vecchiume senza senso e intimidatorio. Un augurio per tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Medea solo per adulti

    Medea solo per adulti

    Dalle teche RAI, riversate da generosi privati su youtube, è emerso uno “sceneggiato televisivo” (così viene definito: in realtà è una serata teatrale, ripresa non negli spazi ristretti di un palcoscenico, ma in studi televisivi aperti, a Roma) dedicato a I figli di Medea, come recita il suo titolo. Siamo nel giugno del 1959, giusto sessant’anni fa; la televisione aveva iniziato le sue trasmissioni cinque anni prima.

    Lo sceneggiato nasce come una messa in scena abbastanza tradizionale (e volutamente mal realizzata: si vedano i toni pomposi assunti da Alida Valli che interpreta Medea alla maniera di una Francesca Bertini, o l’orrida recitazione della normalmente brava Rita Savagnone come Afrodite, per non dire nulla dell’irritante Eros di Elio Lo Cascio) del mito di Medea come si legge nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, per poi aprirsi a un’improvvisa attualizzazione, che vede Alida Valli e il suo antagonista, Enrico Maria Salerno, immersi non solo nell’oggi (di allora), ma anche impersonare sé stessi – per quanto, naturalmente, tutto ciò che essi dicono su sé stessi, sulla loro relazione, sul figlio comune, sia chiaramente fasullo. Da qui una serie di pungenti attualizzazioni, qua e là forse ingenue, di un pirandellismo di seconda maniera; ma a volte decisamente moderne, e ancora attuali, sullo sfruttamento mediatico dei minori e dei figli; sulle distorsioni portate alla vita civile dai mezzi di comunicazione di massa; sul valore da assegnare ai “reality” e alla “presa in diretta” televisiva; sull’uso dei media e della televisione del dolore, che ha sostituito l’emozione al ragionamento, e la reazione “di pancia” a quella “di testa” – tutti temi di assoluto interesse anche nel nostro oggi quotidiano (e con oggi, intendo proprio dire oggi…). Unica variazione è che nel 1959 i mezzi di comunicazione con cui prendersela sono ancora il teatro, la televisione, i giornali; ora sono mutate le forme, ma non i concetti di base.

    Realizzato, come usava al tempo, in diretta (si vedano alcuni errori evidenti, anche se forse voluti in nome della credibilità: il microfono a giraffa che compare all’improvviso dall’alto, l’ombra del cameraman che oscura Enrico Maria Salerno, Nicoletta Orsomando che si impappina e deve controllare sui fogli l’aggettivo giusto, oppure Ferruccio De Ceresa che inverte due complementi e si corregge in corso d’opera…), lo sceneggiato ha ingenuità e punti di forza. E’ però anche l’occasione per ricordare tre mostri sacri del nostro passato televisivo, attualmente un po’ dimenticati e rimossi, come succede a chi, con la sua bravura, costituisce impietoso termine di paragone per il presente: il regista Anton Giulio Majano, responsabile di tanti sceneggiati televisivi; e i già ricordati Alida Valli, bravissima nel fare il verso a se stessa, ed Enrico Maria Salerno, attore di straordinario fascino e modernità interpretativa. Non vanno dimenticati nemmeno i tanti caratteristi di contorno qui utilizzati, come i già ricordati De Ceresa e la Orsomando, o Tino Bianchi, nei panni accorati del Dottor Vinciguerra. Tutti sono stati fra i grandi protagonisti della stagione eroica della TV italiana. Nel 1961 la Valli sarebbe tornata a lavorare con Majano in un altro sceneggiato televisivo, Il caso Mauritius, dal romanzo di Jakob Wassermann; Salerno era già noto al grande pubblico per avere recitato in varie commedie televisive e per avere preso parte, nel ruolo dell’affascinante ma fatuo Wickham, in uno sceneggiato che Daniele D’Anza aveva tratto da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (1957).

    Il modello vistoso cui guarda la produzione è La guerra dei mondi, lo sceneggiato radiofonico realizzato da Orson Welles nel 1938 mescolando finzione e realtà e coinvolgendo il pubblico in una finzione scambiata per realtà. Alla radio si sostituisce la televisione, a un’improbabile invasione di marziani una vicenda privata, non priva di maggiori risvolti sentimentali: l’epica diviene così elegia. Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della televisione testimonia però che il gioco riuscì anche nel 1959. Pare che commissariati di polizia, il numero 696 invocato nello sceneggiato (e corrispondente al centralino di un ospedale torinese) e le sedi RAI fossero stati inondati di telefonate e di segnalazioni di avvistamenti.

    Qualche parola va aggiunta ancora a ricordare Vladimiro Cajoli, cui si deve l’idea complessiva. Nato in provincia di Arezzo nel 1911, dopo avere collaborato in modo più o meno saltuario con varie riviste letterarie e teatrali, debuttò in TV proprio con questo sceneggiato. Ne aveva mandato il copione a un concorso indetto dalla RAI (!), vincendolo e ottenendo così, come premio, la messa in onda del testo. Da allora collaborò stabilmente con la televisione italiana (morì nel 1979), realizzando fra altre cose alcuni episodi della bellissima serie dedicata dalla regista Giuliana Berlinguer a Nero Wolfe, il personaggio creato da Rex Stout (un matematico con grande interesse per il latino). Stout riteneva, a quanto si racconta, gli episodi italiani come i meglio riusciti a rendere l’anima e il senso della sua creatura letteraria. Inutile commentare che erano altri tempi e un’altra televisione.

    Nell’annunciare il programma, la Orsomando ricorda che, per il suo carattere drammatico, se ne consiglia la visione ai soli spettatori adulti. Oggi l’idea che una situazione drammatica imponga qualche cautela televisiva ci fa ridere. Eppure, sebbene in tutt’altro senso, resta vero che della trasmissione sia giusto consigliare la visione ai soli spettatori adulti, quelli cioè che abbiano ancora voglia di ragionare (per farlo, basta cliccare sull’indirizzo indicato sopra la foto di Maria Callas, Medea per Pier Paolo Pasolini).


    https://abastor.wordpress.com/2012/11/22/i-figli-di-medea/

    ©  massimo gioseffi, 2019

  • L’ultimo volo di Icaro

    L’ultimo volo di Icaro

    E’ assioma più volte verificato tra le pagine di questo sito che la musica, più di altre arti (letteratura, pittura, cinema), abbia conservato uno stretto legame con la mitologia classica e con il repertorio di sapere che da essa deriva. Le ragioni sono incerte, forse andranno cercate in un bisogno di valorizzazione e di giustificazione culturale: anni fa avevo osservato in un articolo l’impressionante quantità di riferimenti classici presenti nella letteratura poliziesca, specie quella d’annata, quando le detective stories erano ancora considerate un genere minore, di cui un po’ vergognarsi, frequentato più per ragioni economiche che come esibizione di bravura stilistica e compositiva; ed è possibile che qualcosa del genere avvenga anche con la musica cosiddetta colta, oggi un genere indubbiamente minoritario e di nicchia. Può essere, invece, che in musica, più che nelle altre discipline, sia forte il senso della tradizione, e minore quindi le possibilità – o forse anche solo la necessità – di esplorare nuovi campi e territori, maggiormente interessando la possibilità di confrontarsi con nuovi mezzi su temi del passato. E ancora: è possibile che ancorarsi a miti e storie ben conosciute sia una sorta di contrappeso al carattere astratto che, per sua natura, la musica tende ad avere. La discussione è aperta. Ma, per fare un esempio, colpisce osservare come in questa estate, abbastanza scialba di grandi avvenimenti musicali, degli otto spettacoli presentati da un Festival che è certo la quintessenza della conservazione, quello di Salisburgo, a parte tre incentrati sulle presenze di singoli divi, gli altri cinque erano tutti dedicati a un personaggio mitologico classico – in un festival che, per definizione, ha sempre rifuggito dalle scelte tematiche unitarie: Idomeneo (Mozart), Orfeo (Offenbach), Edipo (Enescu), Medea (Cherubini) e Salome (Strauss), che viene dalla classicità biblica per via di Oscar Wilde, ma sempre personaggio classico è.

    Questo post lo vorrei però dedicare a un brano eseguito in uno dei concerti “Proms” della BBC. Cosa siano i Proms (abbreviazione di Promenade) ho già avuto occasione di dirlo in un altro post: una serie di concerti promossi dalla rete nazionale inglese con le sue orchestre, ed orchestre ospiti. Occupano tutte le giornate dalla metà di luglio alla metà di settembre; si svolgono perlopiù (ma non solo) alla Royal Albert Hall; hanno una tradizione più che centenaria (dal 1895); vengono trasmessi per radio (tutti), per televisione (molti); alternano brani sinfonici (prevalenti), a opere liriche, musical, incontri di musica pop. Uno dei compiti culturali dei Proms è presentare testi inediti, o inediti quanto meno per la Gran Bretagna. E’ appunto questo il caso del brano che mi ha colpito, e che si intitola Icarus. Autrice è una compositrice russa, divenuta cittadina americana, Valerija L’vovna Auėrbach, detta Lera Auerbach (nessuna parentela, ovviamente, con Erich). La Auerbach è nata nel 1973 in una città nella regione degli Urali, ai confini con la Siberia, da una famiglia di musicisti. Ha studiato in patria, perfezionandosi poi alla Manhattan School of Music e alla Juilliard School di New York, la città dove si è trasferita nel 1991 e dove tuttora vive. Ha debuttato come compositrice con un suo brano eseguito alla Carnegie Hall da Gideon Kremer e dal suo gruppo, la “Kremerata Baltica”, nel 2002. Da allora è autrice di un vasto numero di composizioni, molte a carattere cameristico, ma anche due sinfonie, un balletto (dedicato alla Sirenetta di Andersen: il balletto, nel 2005, inaugurò dopo le ristrutturazioni l’Opera di Copenhagen), due opere liriche, un Requiem ortodosso, un oratorio, vari concerti per strumenti e orchestra.

    Icarus è un brano del 2006, che nei concerti Proms è stato eseguito per la prima volta nel Regno Unito. La prima esecuzione del brano risale invece al 2011, al bellissimo festival di Verbier, sulle montagne svizzere del Vallese. Il brano è derivato dall’ultimo movimento della sinfonia nr. 1 della Auerbach, intitolata Chimera, anch’essa datata 2006. Ha avuto varie esecuzioni, negli States (Boston e Chicago), in Canada (Winnipeg), in Ungheria (Budapest) e in Belgio (Bruxelles), forse anche altrove. Nella prima sezione viene descritta, a mio parere, la concitazione e l’eccitazione della fuga; è un brano agitato, che poi d’un tratto si placa, fino a lasciare spazio, in una sorta di seconda sezione, a un bell’assolo del violino primo: un po’ come se si descrivesse, credo, la gioia e la pace di un volo che ormai sembra assicurato e tranquillo. Questa sezione non dura a lungo: un movimento a spirale dell’orchestra dà spazio alla rapida e vorticosa caduta di Icaro. Una quarta sezione, dominata dagli ottoni, illustra il lutto per la morte del giovane; una quinta e ultima, più lenta e solenne, introdotta dal pizzicato dei violini, con ampio spazio concesso di nuovo al violino solista e all’oboe, rappresenta, a mio parere, il cordoglio ufficiale per Icaro, una sorta di funerale sul suo cadavere. I toni sono ancora molto seri, scuri, ma nello stesso tempo è come se il dolore fosse già stato distanziato e, in certa misura, elaborato, e il corteo funebre alla fine si allontanasse poco a poco, lasciando la scena vuota. Si muore sempre da soli…

    Va detto che la Auerbach fornisce della musica un’immagine leggermente diversa (il suo intervento, che corrisponde alle note di sala del concerto tenutosi a Boston nel 2016, si legge alla pagina https://blog.bostonphil.org/auerbach-icarus): “The title Icarus was given to this work after it was written. All my music is abstract, but by giving evocative titles I invite the listener to feel free to imagine, to access his own memories, associations. Icarus is what came to my mind, listening to this work at that time. Each time I hear the piece—it is different. What is important to me is that it connects to you, the listener, in the most individual and direct way, that this music disturbs you, moves you, soars with you, stays with you. You don’t need to understand how or why— just allow the music to take you wherever it takes you. It is permissible to daydream while listening or to remember your own past. It is fine not to have any images at all, but simply experience the sound”. E così, dunque, sia!

    (Auerbach, Icarus, Londra 2019)

    © Massimo Gioseffi. La partitura di Icarus è copyright delle edizioni Hans Sikorski (Schirmer per Canada e USA)

  • Nel nome di Augusto – Festina lente

    Nel nome di Augusto – Festina lente

    Come consuetudine, “Latinoamilano” celebra l’imminente Ferragosto con un omaggio musicale ispirato alla figura di Augusto o alla cultura augustea. Quest’anno abbiamo scelto una composizione di Arvo Pärt, compositore estone nato nel 1935 e tuttora in attività, che porta per titolo il motto Festina lente, che era, nella forma greca σπεῦδε βραδέως, la frase del cuore dell’imperatore a detta di Svetonio, Augusto, 25. Nel caso di Pärt, più che un richiamo all’antica figura, dietro al titolo è da vedere presumibilmente un’indicazione cronometrica per l’esecutore. Il brano è un pezzo per orchestra d’archi, e risale al 1988. Qui l’ascoltiamo in un’esecuzione particolarmente intensa, del 2011, come parte di un concerto commemorativo della strage delle Twin Towers a New York.

    (Festina lente, 1988)

    E’ questa l’occasione anche per spendere qualche parola intorno a Pärt, musicista schivo e solitario, balzato agli onori del successo e della cronaca agli inizi degli anni Duemila. Dopo gli studi a Tallin e le prime composizioni entro il sistema sovietico e la dodecafonia e l’atonalità allora imperanti, Pärt costituisce uno dei primi tentativi di liberarsi da quel credo e recuperare l’insegnamento del passato. Per questo, è amato o odiato quasi del pari… Fra le sue composizioni, punto di svolta è il bellissimo Cantus, scritto nel 1976 e dedicato alla memoria di Benjamin Britten, morto giusto quell’anno. In Britten, di cui si avverte qualche eco nella composizione, Pärt riconosceva una sorta di fratello maggiore, che, lontano dalla dodecafonia propriamente detta, aveva cercato un linguaggio moderno. Cantus è probabilmente la composizione più nota di Pärt, l’unica – ad esempio – ad essere mai stata eseguita dall’orchestra scaligera (nel 2000 e nel 2008).

    (Cantus, 1976)

    Pärt ha però un vastissimo catalogo di composizioni, fra le quali spiccano quattro sinfonie (datate rispettivamente 1963, 1966 e 1971 le prime tre, ancora nel pieno del periodo dodecafonico; 2004 la quarta, salita all’onore delle cronache perché dedicata al miliardo russo Michail Borisovič Chodorkovskij, arrestato l’anno prima per frode fiscale e poi condannato per vari reati finanziari, amnistiato nel 2013, ma considerato – da Amnesty International e altre organizzazioni – vittima di un processo politico intentatogli da Vladimir Putin); vari concerti per strumenti solistici e orchestra; diversi pezzi per pianoforte o organo; numerose composizioni per coro, a cappella o con accompagnamento orchestrale; molti componimenti di ambiente ecclesiale (Messe, oratori, cantate, un Magnificat, un Te Deum, uno Stabat Mater, un Miserere); ecc. Due elementi sono costanti nella produzione di Pärt, l’impegno anche politico della propria musica; l’interesse per il canto gregoriano e lo sfondo spesso religioso (di religione ortodossa) delle composizioni. Fra i vari titoli, ne ricordo ancora due, di particolare impegno e fortuna: Spiegel im Spiegel (“Specchio nello Specchio”), per violino, violoncello e pianoforte, del 1978, una sorta di riassunto del pensiero musicale di Pärt; e Fratres, una composizione originariamente scritta per violino e pianoforte in dialogo fra loro, ma poi continuamente riscritta e riadattata a strumenti e combinazioni sempre diverse. Caratteristica della musica di Pärt è l’utilizzo di un’armonia semplice, fondata di norma sull’accordo di tre note, e la riduzione ai minimi termini del materiale di contorno, in una ripetizione “minimalista” dell’accordo di partenza. Dalla sua ampia produzione offro qui due pezzi corali (l’accompagnamento si può fare con qualsivoglia strumento: piano, organo, chitarra – lo stesso autore ne ha curato le varie edizioni), come proposta per i molti cori attivi nelle scuole. Il primo è una ninna nanna sul facile testo Kusse, kusse, kallike, continuamente ripetuto; il secondo è la versione tedesca del Padre Nostro (Vater Unser).

    (Ninna nanna estone – versione per archi)
    (Ninna nanna estone– versione per piano)
    (Vater Unser)
  • Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Riprendiamo il discorso intorno a Jacques Offenbach, presentando la prima delle sue operette ambientate nel mondo classico. Si tratta di Orphée aux Enfers, rappresentata al Théâtre des Bouffes-Parisiens nel 1858, il locale da lui fondato tre anni prima. Nella vicenda artistica di Offenbach, l’Orphée segna un punto di non ritorno, non solo per lo straordinario successo che arrise al testo, ma anche perché, con esso, il musicista aveva potuto superare una serie di leggi risalenti all’età napoleonica, che impedivano a teatri musicali diversi dall’Opéra di mettere in scena spettacoli complessi, di lunga durata o con più di quattro personaggi in scena – che è appunto l’organico delle prime operette offenbachiane. L’Orphée, scritto su libretto di Hector Crémieux e Ludovic Halévy (quest’ultimo nipote di un compositore famoso, e noto per la sua successiva collaborazione con Henri Meilhac, che lo porterà a firmare, nel 1875, il libretto della Carmen di Georges Bizet), prevede invece un gran numero di personaggi, due atti e quattro scene di diversa ambientazione, per una durata complessiva intorno alle due ore di musica. Colpo di genio dello spettacolo è di immaginare Orfeo ed Euridice come una coppia borghese, giunta vicina al punto di rottura del matrimonio: lei, stanca e annoiata dalle arie che si dà lui (violinista alla locale Opéra), sogna flirt e tradimenti, e si getta ben volentieri fra le braccia di Aristeo. Lui, a sua volta stanco di una moglie capricciosa e civettuola, spera solo di liberarsene per correre fra le braccia della ninfa Maquita (nome spagnolesco, da sciantosa di locale alla moda). Altra idea geniale è immaginare che Aristeo sia in realtà Plutone travestito da figura umana: in questo modo l’abbraccio di Euridice con il suo amante, quando finalmente si realizza, comporta inevitabilmente la morte dell’eroina. Inoltre, lo spettacolo prevede la partecipazione di un personaggio denominato “L’Opinione pubblica”. E’ lei che obbliga Orfeo alla grande impresa del riscatto di Euridice: se Orfeo è il cantore mitico che dice di essere, egli deve tentare l’impresa, anche se in realtà non ne avrebbe nessuna voglia. Viene così anticipato molto teatro novecentesco, specie d’ambito francese (Anhouil, Gide, Cocteau), nel quale l’insuccesso di Orfeo è iscritto nell’impresa stessa ed è un atto voluto, una libera scelta dei personaggi, e non un elemento drammatico che mette in evidenza l’impotenza dell’uomo e l’inesorabilità delle leggi divine.

    All’alzata del sipario siamo a Tebe. Un breve preludio ci introduce alla situazione, presentando una musica malinconica, che delinea prima un clima bucolico di sapore vagamente arcaico, poi uno spazio più aulico.

    (preludio)

    Euridice canta la propria gioia in un’arietta elegante e vaporosa, ricca di abbellimenti vocali, mentre, assente il marito, prepara mazzi di fiori per Aristeo, le berger joli qui loge ici (è un vicino di casa), in attesa che questi la raggiunga.

    (couplets di Euridice)

    Anziché Aristeo arriva però Orfeo, e vediamo così i due sposi litigare furiosamente. Orfeo intuisce il tradimento della moglie, e per vendicarsi promette di suonarle il suo ultimo concerto per violino, della durata di un’ora e un quarto. Euridice dapprima si dispera, poi lo deride, infine prega gli dei di liberarla da un tale marito, mentre lui elenca uno dopo l’altro tutta una serie di termini musicali.

    (duetto Orfeo/Euridice)

    Quando infine arriva Aristeo, la sua canzone è tenera e pastorale, quasi effeminata (l’interprete è un tenore di carattere, che si immagina abituato a ruoli comici), salvo svelare la propria fiera natura nel finale.

    (chanson di Aristeo)

    L’abbraccio dei due amanti porta alla morte di Euridice, espressa con una melodia delicata, che fa il verso all’opera seria. Aristeo/Plutone lascia un beffardo messaggio per Orfeo: Je quitte la maison parce que je suis morte / Aristée est Pluton et le diable m’emporte! Quando Orfeo lo trova, si dà alla pazza gioia, ringrazia Giove e tutti gli dei e proclama la sua felicità di uomo finalmente libero.

    (couplets della morte di Euridice)

    A questo punto interviene però l’opinione pubblica, che obbliga alla grande impresa. Per riuscire in essa, l’Opinione guida Orfeo verso l’Olimpo, così da chiedere aiuto a Giove. La scena si trasferisce dunque lì, dove le cose non vanno molto meglio: gli dei sono pigri, neghittosi, passano le giornate dormendo o compiendo atti contro la comune moralità. Atteone, ad esempio, è appena stato trasformato in cervo, ma non da Diana, come vuole il mito, bensì da Giove stesso, che scorgendo una certa disponibilità di Diana verso un comune mortale ha pensato bene di intervenire e rimettere a posto le cose (e la mitologia). Proprio quest’opera moralizzatrice di Giove, provoca però un’accusa nei suoi confronti: come può dedicarsi a una simile azione lui, quando è ben noto come seduttore di donne mortali? Non si è forse dato da fare, anche di recente, con la bella Euridice? Sull’Olimpo è infatti giunta notizia del rapimento della donna ad opera di un dio, e tutti naturalmente pensano a Giove, non a Plutone. Contro il padre degli dei si scatena così una rivolta delle altre divinità, che lo accusano di ipocrisia.

    (coro della rivolta)

    Quando Orfeo arriva a chiedere aiuto per recuperare la sposa, Giove si sente perciò obbligato ad assecondarlo, anche se né lui ne ha troppa voglia, né Orfeo (che pure cita, parodiandola, l’aria più famosa di Gluck, Che farò senz’Euridice) arde dal desiderio di recuperare la sposa. Incuriosito dall’audacia di Plutone, e dalla fama di bellezza di Euridice, Giove alla fine decide però di fare perfino qualcosa di più del richiesto, promettendo di aiutare in prima persona lo sposo ‘desolato’ e partendo a sua volta per gli Inferi, accompagnato dal coro inneggiante degli dei, ora riconciliatosi con il loro sovrano.

    (finale del I atto)

    Nell’Ade le cose non vanno troppo bene. Plutone si è già stancato della nuova conquista ed Euridice è annoiata dalla vita nell’oltretomba, ancora più monotona di quella terrena, con la sola compagnia di un eunuco di nome John Styx, che le fa la guardia e non la lascia civettare come vorrebbe. In breve, la donna rimpiange perfino il marito: Ah! quelle triste destinée me fait ici le dieu Pluton!

    (lamento di Euridice)

    Intanto arrivano Giove e Plutone; questi nega di avere con sé Euridice, che Giove cerca vanamente per tutto l’appartamento (la garçonnière) che il fratello gli mostra. In aiuto del padre interviene però il piccolo Cupido, che gli promette di mutare la sua forma in qualcosa di veramente capace di garantire pieno successo alla ricerca. Giove già gongola, prima di scoprire che si sta per trasformare in mosca, sia pure una mosca dalle ali d’oro. In effetti, il dio giunge così a trovare facilmente Euridice, e può sedurla con il suo charme. E’ qui che, come spesso nel teatro di Offenbach, la parola perde di significato, trasformandosi in puro suono, il fastidioso (ma seduttivo) ronzio di una mosca…

    (duetto della mosca)

    Plutone, che ha capito quanto sta succedendo, vorrebbe dare la caccia all’insetto importuno, ma ad opera di Giove e di Cupido si trova presto circondato da una ridda di altre mosche che gli volano intorno e impediscono la sua ricerca.

    (galop delle mosche)

    Piccato, Plutone offre allora un grande banchetto a tutti gli dei: l’idea è che anche Giove vi dovrà intervenire, ovviamente con la sua normale immagine, e quindi si troverà costretto ad abbandonare, almeno per poco, Euridice. Alla festa, Euridice inneggia al giovane Bacco; Plutone cerca di riuscire a trattenere con sé la donna, sottraendola alle attenzioni di Giove; questi vorrebbe invece trasformarla in baccante, per fuggire con lei. Nel pieno del festino, Plutone offre uno spettacolo di danza ai suoi ospiti: è la scena, che già conosciamo, del Galop infernale.

    (galop infernale)

    Intanto arriva Orfeo, di cui ci eravamo un po’ dimenticati, sempre accompagnato dall’Opinione pubblica. Giove, che li riconosce immediatamente e sa che cosa vogliono, pensa che questa sia una buona occasione per uscire dall’imbarazzo, e quindi concede immediatamente Euridice al marito, sia pure con il divieto di voltarsi a guardarla per tutto il tragitto di ritorno dall’Ade. Al primo rumore opportuno, però, Orfeo è ben lieto di girarsi per vedere che cosa stia succedendo, perdendo così di nuovo la moglie, e questa volta definitivamente. Per mettere ordine al caos che si è venuto a questo punto a creare, Giove prende una decisione salomonica: Euridice non sarà né sua né di Plutone, ma si trasformerà in una baccante, e come tale vivrà al seguito del giovane Bacco. La donna, in cerca di novità, accetta prontamente, e tutti i presenti inneggiano alla soluzione.

    (finale del secondo atto)
  • Offenbach 200

    Offenbach 200

    Il 20 giugno da poco passato si sono celebrati i duecento anni dalla nascita del compositore francese (anche se nato a Colonia, in Germania), Jacques Offenbach. Spiace dire che in Italia, salvo la RAI, cui va un plauso, nessuno dei maggiori teatri ha ricordato la ricorrenza. Un peccato, perché Offenbach è stato un genio (Rossini lo ribattezzò “Le petit Mozart des Champs-Elysées“), che ha inciso sulla storia della musica, ma anche sul quotidiano a lui contemporaneo, sulla nostra visione del classico, e, in minor misura, sul nostro quotidiano. Ne offro solo una prova: nel 2015 tutti ci siamo indignati e commossi per le novanta vittime dell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. In pochi ci siamo chiesti l’origine di questo strano nome. Ba-ta-clan, scritto in realtà così, è il titolo di un’operetta di Offenbach, del 1855, ambientata in Cina, e i cui personaggi hanno tutti nomi “esotici” di invenzione, fatti di singole sillabe scandite da un trattino (bataclan è però il titolo di una canzone militaresca, una parodia del più diffuso rataplan). Quando nel 1865 fu inaugurato il teatro dalla forma di pagoda cinese, venne spontaneo intitolarlo come l’operetta di Offenbach, tale era la fama del compositore. Cito ora due fenomeni musicali per i quali tutti siamo debitori di Offenbach, anche se forse senza averne coscienza. Nell’operetta Orphée aux Enfers, del 1858, Offenbach doveva rappresentare la discesa di Orfeo agli Inferi e l’incontro con le Furie. E’ un tema già discusso, partendo da Gluck, in un altro post. Gluck, come sappiamo, nella versione viennese del 1762 del suo Orfeo aveva limitato al massimo le azioni delle Furie; nel 1774, dodici anni dopo, rivedendo il testo per Parigi, aveva invece dato loro un veemente balletto, a indicare i movimenti scomposti e, appunto, furiosi, di queste divinità. Eccolo:

    Come aveva fatto una trentina abbondante di anni prima Carl Maria von Weber con un ballo tipicamente contadino e popolare, il valzer, da lui sdoganato in una festa contadina e popolare all’interno di una sua opera, e poi, grazie a quel precedente, trasformato in ballo “colto” e nobile – Offenbach, alla ricerca di un ritmo adeguato per il suo inferno, sceglie un ballo di incerta origine e dubbio valore sociale, che si danzava in oscuri locali parigini, il Can Can. Offenbach in partitura indica in realtà il brano come Galop, la stretta finale (e quindi vorticosa) della quadriglia, un ballo accettato e comunemente praticato dall’alta società. Ma la celebrità di questo Galop infernal fu tale, che da allora in poi questo divenne il Can Can per eccellenza (la cui grande stagione è più tarda, risale agli anni Novanta del XIX secolo: a quella data si collocano sia gli schemi dei passi fissati dalla ballerina Louise Weber, sia i manifesti di Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge e altri locali parigini). Attraverso la sua composizione, cioè, Offenbach ha dato non solo visibilità e forma definitiva e irrinunciabile al ballo, ma è anche divenuto il simbolo della Belle époque di fine secolo, pur essendo lui morto nel 1880. Ancora nel film del 1960 di Walter Lang, Can-Can appunto, è sulla musica di Offenbach che i protagonisti ballano la loro danza proibita. Di quel Galop offro qui una versione da concerto, in attesa di ritrovare la scena al suo proprio posto:

    L’altra composizione di Offenbach che tutti conosciamo, anche se non sempre sappiamo trattarsi di cosa sua, è la celebre Barcarolle dai Contes d’Hoffmann, l’opera postuma del nostro musicista. Nell’opera è una serenata a due voci. Ne mostro innanzitutto uno dei tanti esempi di riutilizzo: due coniugi che si erano conosciuti a teatro, a una rappresentazione dell’opera di Offenbach, ma sono stati poi drammaticamente separati dalla vita, per un momento si ritrovano uniti grazie a quella musica. Altro non credo di dover aggiungere, limitandomi a riportare il link per il video :
    https://www.youtube.com/watch?v=sRvgm9qnwKQ

    Ecco però il brano originale nella sua interezza. Siamo a Venezia, di notte, in estate, e l’andamento della barcarola vorrebbe imitare il movimento sussultorio di una gondola, evocando un’atmosfera sensuale e malinconica. A cantare è la bellissima cortigiana Giulietta (la seconda voce che si ode nel brano); al suo fianco, a dare inizio alla melodia, è il giovane Nicklausse che, come tutti gli adolescenti, è raffigurato da una voce femminile di mezzosoprano. Questo il testo cantato: Belle nuit, ô nuit d’amour / souris à nos ivresses. / Nuit plus douce que le jour / ô, belle nuit d’amour! / Le temps fuit et sans retour / emporte nos tendresses / Loin de cet heureux séjour / le temps est sans retour / Zéphyrs embrasés / versez-nous vos caresses / Zéphyrs embrasés / donnez-nous vos baisers! Ah!

    Rimettiamo però ora un po’ di ordine nelle cose. Nato, come dicevo, in Germania, Offenbach si trasferisce a quattordici anni a Parigi e vi studia il ‘violoncello. Divenuto strumentista all’Opéra-Comique, acquisisce fama di virtuoso. Passato alla direzione d’orchestra, nel 1855 affitta un teatro sugli Champs-Elysées (da qui, il suo nomignolo), che chiama Bouffes Parisiens. Inutile seguire la sua carriera manageriale. Autore di due opere – una, come s’è detto, postuma – e varie composizioni ballettistiche e strumentali, Offenbach è ricordato soprattutto per le sue circa cento operette. Si vuole anzi che la parola l’abbia coniata lui, differenziando così le proprie composizioni dalle già affermate opéra-comiques. Si tratta di testi spesso brevi – non sempre! – di carattere comico quando non apertamente satirico, che alternano brani parlati a brani musicati, con ampio spazio anche ai numeri di danza. Vittima principale delle composizioni di Offenbach è la società del secondo Impero, quello di Napoleone III, incluso lo stesso Napoleone III. Dopo la sconfitta di Sedan, la caduta dell’Impero, l’esperienza della Comune, la carriera di Offenbach proseguì fra alti e bassi, ma meno gloriosamente di un tempo, fino alla morte avvenuta, come detto, nel 1880.

    Nei testi di Offenbach si riconoscono alcuni procedimenti ripetuti (tralascio l’analisi delle strutture musicali, anch’esse in genere immediatamente riconoscibili). Uno è la trasformazione in quotidiano di ciò che sarebbe sublime: ne La belle Hélène, 1864, di cui ci occuperemo in seguito più nello specifico, Elena è una “desperate housewife” che teme di vivere una vita banalmente borghese, e Paride viene raffigurato come un seduttore di quartiere, nelle cui braccia la donna è fin troppo ansiosa di cadere.

    Un altro procedimento è la parodia di situazioni celebri: nell’operetta già citata Elena invoca sempre la fatalité come responsabile della sua caduta, ancora prima che essa avvenga, quando è solo un desiderio inappagato. Ecco, ad esempio, come si rivolge alla dea Venere, colpevole a suo dire di faire ainsi cascader la vertu:

    Queste le parole cantate: On me nomme Hélène la blonde, la blonde fille de Léda. J’ai fait quelque bruit dans le monde: Thésée, Arcas et caetera. Et pourtant ma nature est bonne, mais le moyen de résister alors que Vénus, la friponne, se complaît à vous tourmenter. Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Nous naissons toutes soucieuses de garder l’honneur de l’époux, mais des circonstances fâcheuses nous font mal tourner malgré nous! Prendez l’exemple de ma mère, quand elle vit le cygne altier, Qui, vous le savez, est mon père, pouvait-elle se méfier? Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Ah, malheureuses que nous sommes! Beauté, fatal présent des cieux! Il faut lutter contre les hommes, il faut lutter contre les Dieux. Vous le voyez tous, moi je lutte, je lutte et ça ne sert à rien, Car si l’Olympe veut ma chute? Un jour ou l’autre il faudra bien. Dis-moi Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu?

    Altre volte la parodia si concentra su un preciso testo, poetico (Hugo, ma non solo) o musicale. Ne La Perichole, 1868, nel Perù del XVIII secolo il Viceré per fare sua la protagonista, una sorta di Madame Pompadour dei poveri, l’ha fatta sposare a un marito di comodo, che viene accolto con sommo disprezzo dai nobili di corte. La situazione ricorda quella de La Favorite di Gaetano Donizetti, andata in scena a Parigi nel 1840 e rimasta da allora in repertorio. Lì il protagonista dell’opera, Fernand, ottiene dal re di Castiglia Alfonso XI la mano di Lèonor de Guzman, ignorando che sia stata l’amante ufficiale del re, che pensa così di darle una vaga onorabilità. Ad avvisare Fernand sono i cortigiani inorriditi, che lo ritengono complice della manovra. Lèonor, abbandonata all’altare, dopo il pentimento, lunga macerazione e auto-punizione, ritrova Fernand e ne ottiene il perdono giusto prima di morire fra le sue braccia. La scena dei cortigiani viene trasferita di peso ne La Perichole, ripetendone musica e, con pochissimi adattamenti, perfino le parole. In questo modo, uno stesso pubblico andava all’Opéra, quella seria, a piangere sui destini di Lèonor; passava poi ai Bouffes Parisiens per ridere della medesima situazione.

    Altro meccanismo è quello che confonde volutamente alto e basso. Ecco come si esprime il gran Augure di Venere nella già ricordata Belle Hélène, presentandosi prima in tono grave e solenne, poi, nel ritornello Je suis gai [“allegro”], soyons gai, accelerando il ritmo, ma perdendo qualcosa in dignità, fino ad arrivare a uno spiazzante jodel:

    Ancora: Offenbach lavora spesso sulla parola, puntando a una sua sistematica e scientifica demolizione a scopo comico. E’ una lezione appresa da Rossini, dal famoso finale primo de L’italiana in Algeri. Lì tutti i personaggi lamentano di avere nella testa chi un campanello che suonando fa din…din, chi un martello che fa tac…tac, o un cannone che fa bum..bum, e chi si sente una cornacchia che fa cra…cra, fino a dissolvere il tutto in un insieme di suoni che formano un irresistibile nonsense che fa andare sossopra il cervello dei personaggi e li porta vicini, alla fine, a naufragare:

    Ne La Belle Hélène l’indovino Calcante, prezzolato, propone che Menelao per espiare certi presagi dall’apparenza nefasta passi un mese a Creta, lasciando così campo libero a Paride e a Elena. Menelao alla fine accetta, perché d’accordo con Agamennone pensa invece di tornare anzi tempo, e sorprendere l’eventuale infedeltà della moglie (al momento, non ancora consumata). Ecco cosa succede dell’invito, più volte ripetuto, pars pour la Crête:

    Altro elemento essenziale dello scrivere di Offenbach è il rovesciamento improvviso delle attese. Ne La Perichole la protagonista è davvero innamorata dell’uomo cui è stata fatta sposare per scherno, e non ha nessun interesse se non economico per il Viceré. Ecco allora come si rivolge, a breve distanza nel testo originale, al suo compagno, una volta appellandolo di nigaud (“sciocco”) e arrivando a filosofeggiare Ah! que les hommes sont bêtes!; la seconda volta tracciandone uno spiazzante ritratto così formulato: Tu n’es pas beau, tu n’es pas riche, / Tu manques tout à fait d’esprit. / Tes gestes sont ceux d’un godiche / D’un saltimbanque dont on rit. / Le talent, c’est une autre affaire / Tu n’en as guère, de talent. / De ce qu’on doit avoir pour plaire / Tu n’as presque rien… et pourtant…Je t’adore, brigand / J’ai honte à l’avouer, / Je t’adore et ne puis vivre sans t’adorer.



    Da ultimo: nelle operette di Offenbach ci sono riferimenti alla contemporaneità che a noi possono sfuggire. Il Viceré del Perù è raffigurato come gran cacciatore di gonnelle (così si diceva di Napoleone III), che promuove le sue amanti a titoli nobiliari abbastanza improbabili (anche questo si diceva di Napoleone III), che usa come schermo i mariti delle donne da lui concupite e lascia fare loro, in compenso dei torti matrimoniali, affari poco chiari (pure questo si adattava, pare, a Napoleone III). In un’aria che torna più volte nell’operetta, si dice anche che tutto ciò che è spagnolo ha maggiori probabilità di fortuna e Napoleone, tramite la moglie Eugenia de Montijo, era accusato di avere fatto la fortuna del partito spagnolo a Parigi… Di questi elementi offro una profetica testimonianza attraverso un’ulteriore operetta di Offenbach, La Grand duchesse de Gérolstein (1867). Gerolstein è una cittadina tedesca, che però non è mai stata sede di granducato. Quello che Offenbach ridicolizza qui sono le pretese imperialiste della Francia di Napoleone, alla vigilia della disastrosa campagna contro la Prussia. La nostra granduchessa ha delle mire militari, ma, come dice nella sua aria, sogna un grande esercito perché Ah! Que j’aime les militaires, / Leur uniforme coquet, / Leur moustache et leur plumet! / Ah! Que j’aime les militaires! / Leur air vainqueur, leurs manières, / En eux, tout me plait! / Quand je vois là mes soldats / Prêts à partir pour la guerre, / Fixes, droits, l’oeil à quinze pas, / Vrai Dieu! Je suis toute fière! / Seront-ils vainqueurs ou défaits?… / Je n’en sais rien… ce que je sais… Non a caso, il suo capo di stato maggiore è il generale Bum Bum, un nome che è una certezza, la cui presentazione musicale non ha bisogno, credo, di vederne riportate le parole…

    © Massimo Gioseffi, 2019 (to be continued)

  • Percontationes Impossibiles, series altera II – Cicero

    Percontationes Impossibiles, series altera II – Cicero

    Percontatrix Hodie, amici, audire poterimus vocem illius viri qui linguam Latinam maxime illustravit: de Marco Tullio Cicerone dico. Vehementer commoveor. Ineamus ergo clari oratoris pulchram domum, quae in Palatino colle est, et…

    Terentia Siste gradum, mulier! Quis es? Quid vis?

    Percontatrix Ave, Terentia! Magistri discipulique qui nos legunt cupidi sunt Marci Tulli audiendi, quia Cicero nos omnes Latini sermonis elegantiam docuit….

    Terentia Sed Marco nullum tempus ad loquendum est! In oratione scribenda tempus eius absumitur!

    Percontatrix Quid dicis?

    Terentia Mulier, nescio ubi vivas. Num ignoras Catilinam coniurationem ad rem publicam capessendam machinatum esse clandestinaque consilia ad consulem necandum inisse? Cras Marcus meus in curia in eum impetum faciet eiusque animum funditus franget! Testimonia habet certissima: in perpetuum res publica Marco gratiam certe habebit.

    Percontatrix Ergo Marcum videre hodie non potero?

    Terentia Minime! Occupatior est, quod iam tibi dixi!|

    Percontatrix Tamen, quia magnum et sapientem virum neminem comperimus fuisse sine quadam maxima uxore, possum tecum aliquantulum loqui? Hoc et mihi et lectoribus satis erit. Multos enim puto tanti oratoris vitae cognoscendae cupiditatem aliquam habere…

    Terentia Ego quoque occupata sum, mulier! Certe nescis Marcum in manibus meis omnia domestica officia semper committere; cum e curia redit, fessus fatigatusque est et nihil vult de rationibus sumptibusque domesticis audire. Immo etiam, veniam mihi da, mulier, sed abeundum nunc mihi est: Eros procurator iam diu me expectat!

    Percontatrix Em res adversas! Sed animo non deficiemus! Ecce, obvius occurrens aliquis de familia Ciceronis: Tiro, Tiro ille, est! Quam multa ab illo sciemus de Ciceronis scribendi ratione! Ave, Tiro… Quo curris?

    Tiro Ad Atticum mihi festinandum est: Ciceroni opus est Demosthenis contra Philippum orationibus.

    Percontatrix Aliquid  nobis patefacere de Ciceronis moribus attamen vis?

    Tiro Id facere vellem, mulier; sed nunc tempus mihi non est! Vale!

    Percontatrix Neque Terentia neque Tiro vacui fuerunt percontationi meae, amici! Sed animo non deficiamus! Puellam quandam video, quae multa certe de Cicerone nobis deteget; ecce, Tullia est, oratoris filia. Ave, Tullia!

    Tullia Ave, mulier! Quid facis hic? Quid quaeris?

    Percontatrix Cum patre tuo conloqui volebam, quod tamen difficillimum videtur…

    Tullia Ioco me hoc dicis, an serio? Num credis me hoc nescire? Pater meus occupatior est! Pater meus semper occupatus est! Mihi quoque occupatus est! Omnes enim sciunt nullam illi afferendam esse molestiam, dum scribit! Num id tu ignoras?

    Percontatrix Scio, sed longum iter feci ad eum videndum… Nonne de me deprecari potes?

    Tullia Id facere nullo pacto possum, nec audeo. Mihi quoque nullus accessus ad eum datur. Quapropter, non solum patri pareo auxilium tibi denegando, sed nunc mihi abeundum est, quia matronalia negotia multa et gravia sunt.

    Percontatrix Negotia…matronalia? At puella es!

    Tullia Minime: quintum et decimum annum iam ago! Hic tertius annus est ex quo nupsi. Nunc, quaeso, ignosce mihi, domum redeundum est, quia ancillae lanificae diligenter observandae sunt. Vale, mulier!

    Percontatrix Amici, operam et oleum perdidimus! Marcus Tullius occupatior est neque nobiscum locuturus videtur. Quod forsitan malum non est: saepe vero magni viri laudatores suos deceperunt. Melius fortasse erit Ciceronis opera legere quam cum illo conloqui…

    © Silvia Stucchi, 2019

    [L’immagine di copertina è la vignetta Cicero denounces Catiline di John Leech, 1817-1864, già illustratore dei romanzi di Dickens e altri, e autore, nel 1852, del volume A Comic History of Rome]

  • Una sonata iliadica

    Una sonata iliadica

    Nella serie di post dedicati alla musica contemporanea e alla cultura classica, questa volta vorrei presentare la sonata per pianoforte “Troia”, opera del compositore, pianista, arrangiatore Fazil Say. Nato ad Ankara nel 1970, Say è cresciuto in Germania, dove i suoi genitori erano emigrati. Nella sua cultura unisce perciò tradizione “occidentale” (i suoi studi si sono compiuti fra Düsseldorf e Berlino), e tradizione “orientale”, rappresentata da riprese di temi, stilemi e interessi generali per la terra d’origine. Il catalogo delle composizioni è piuttosto ampio: la sonata di cui parlo, datata 2017, è il numero 78 della lista ufficiale. Say è anche un rinomato concertista e improvvisatore. In questo inizio di 2019, ad esempio, è apparso due volte a Milano, a febbraio alla Scala, nelle vesti di accompagnatore del mezzosoprano francese Marianne Crebassa; all’orchestra Verdi a marzo, come solista al pianoforte (vi si era già esibito nel 2017). La personalità di Say è non solo poliedrica, ma anche sempre singolare. Ne offro come testimonianza due esecuzioni del Rondò finale, terzo movimento della Sonata per pianoforte numero 11 di Mozart, il cosiddetto “Rondò” (o “Marcia”) “alla turca” – un titolo che non poteva mancare nel repertorio del nostro pianista. La prima esecuzione è “regolare”, ancorché velocissima rispetto al tempo di “Allegrino” marcato da Mozart; l’altra è una rielaborazione jazzistica dello stesso Say. Tutti i brani sono derivati dal sito del musicista, dove sono offerti alla libera fruizione.

    Come compositore, Say ha al suo attivo tre sinfonie (intitolate significativamente “Istanbul”, “Mesopotamia”, “L’intero universo”); vari pezzi solistici per pianoforte e altri strumenti – inclusa la voce umana; un Requiem; numerosi concerti per solisti e orchestra: tromba, clarinetto, violino (dal titolo di “Le mille e una notte nell’Harem”), e almeno quattro se non più concerti per pianoforte (uno, per due pianoforti). A esemplificazione della sua arte, presento Kara Toprak (“Terra nera”), proposto come bis nel concerto a Milano di quest’anno; e la versione numero 2, per piano solo, e numero 3, per piano e voce solista, che si limita però a un melisma vocalico che ricorda allo stesso tempo un lamento e il canto di un muezzin, di Gezi Park (Gezi Park è la località di Istanbul dove un sit-in di protesta contro la creazione di un centro commerciale ha provocato, nel 2013, una reazione scomposta delle forze dell’ordine turco, con un bilancio complessivo di nove morti e ottomila feriti). Dalla composizione si evince un ulteriore tratto dello scrivere di Say, e cioè l’impegno nella quotidianità e nella cronaca, anche politica, della sua terra. La versione numero 1 della composizione, è un più ambizioso concerto per due pianoforti.

    (Kara Toprak)
    (Gezi Park 2)
    (Gezi Park 3)

    Veniamo alla sonata “Troia” (Troy) che è il titolo che più direttamente ci interessa. E’ in dieci movimenti (il brano si può sentire per intero, assieme ad altre opere di Say, in un recente disco, in commercio anche in Italia). Diciamo subito che la sonata ha avuto recensioni miste, alcune di grande entusiasmo, altre più fredde. Nonostante si apra nel nome di Omero, ricorda forse più il film di Wolfgang Petersen del 2004, di cui rispetta la sceneggiatura, che non davvero l’Iliade, rivelandosi così perfetto emblema di un riuso contemporaneo dei classici, che non passa necessariamente attraverso i classici, ma piuttosto attraverso la “scia” di prodotti e riferimenti che essi hanno lasciato dietro di sé. Significativo mi pare infatti che, contro il precetto oraziano, Say voglia ricostruire praticamente ab ovo la vicenda troiana, dando grande spazio alla figura di Paride e alla seduzione di Elena, così come accadeva nel film, ed esaltando, dei dieci anni di guerra, solo la figura carismatica di Achille. D’altra parte, nell’ottica già erodotea di presentare la guerra di Troia come il primo scontro epocale fra civiltà appartenenti a Storie e continenti diversi, si intuisce come nella carriera di Say non potesse mancare un omaggio a questo tema.

    Il primo movimento, grave e pensoso, delinea la figura di Omero, quasi un ripiegarsi del bardo sul passato di cui sta per raccontare le vicende. Il secondo movimento si anima grazie agli arpeggi della mano destra, che creano l’immagine dei venti che sospingono la nave di Paride dall’Asia alla Grecia. La mano sinistra, con i suoi accordi pesanti, getta però un’ombra di inquietudine sul viaggio. Il terzo movimento, rapido ma calcato, marziale, ben scandito, evoca gli eroi achei radunati a Sparta. La città lacedemone è protagonista del quarto movimento, lento e profondo, misterioso, inquietante. Con l’arrivo di Elena, quinto movimento, si apre una sorta di duetto d’amore, in pieno stile melodico.

    (Omero)
    (Venti dell’Egeo)
    (Gli eroi della Grecia)
    (Sparta)
    (Elena e Paride)

    Con il sesto movimento ci siamo spostati in Asia Minore. Il pianoforte evoca un’alba tranquilla nella città di Priamo, prima che, nel settimo movimento, faccia la sua irruzione Achille, martellante, insistente, quasi orgiastico alla fine del brano, come assorto in una specie di crudele danza della guerra. Il conflitto è al centro dell’ottavo movimento, irruente e baldanzoso. Nel nono appare il cavallo di Troia, una marcia scandita dai grandi gesti del pianista, che lascia poi spazio alla festa della presunta salvezza e al silenzio della notte fatale. Conclude l’opera un rapido epilogo.

    (Troia)
    (Achille)
    (La guerra)
    (Il cavallo)
    (Epilogo)

    © 2019

  • Percontationes Impossibiles, series altera I – Nero

    Percontationes Impossibiles, series altera I – Nero

    Inauguriamo una nuova serie di Percontationes Impossibiles. Questa volta ne è autrice Silvia Stucchi; i personaggi intervistati sono tutti personaggi storici. Per il resto, le regole sono le medesime della prima serie.

    PERCONTATRIX Ave, Nero.

    NERO Sis, mihi nomen est Lucius Domitius Aenobarbus; tamen, si vis, appella me Neronem.

    PERCONTATRIX Quo nomine Sabini qui “fortis est” indicant.

    NERO Video te, puella, optime edoctam de nomine meo! Dic ergo mihi: cur ad me venisti?

    PERCONTATRIX Percontationis causa…

    NERO Sed quis eam leget?

    PERCONTATRIX Omnes qui Latinae linguae student! Et omnes qui humaniores litteras diligunt.

    NERO Mirum! Sed prius pauca dicenda sunt ut lectorum gratiam mihi conciliem. Nam de me rerum scriptores plurima mendacia scripserunt: tantam infamiam nomini meo intulerunt ut infamia nomen meum obruerint! Sed puto omnes insimulari posse, neminem nisi nocentem revinci posse: qua re confisus, gaudeo quod mihi copia et facultas nunc optigit purgandi probandique mei, quia istae calumniae cum prima specie graves, tum ad refellendum difficiles sunt.

    PERCONTATRIX Quis harum calumniarum auctor est?

    NERO Praesertim iste Tacitus…

    PERCONTATRIX Sed Tacitus clarissimus rerum scriptor est!

    NERO Tace, puella! Inscitia imperitiaque loqueris: Tacitus, quia senator fuit, me oderat! Senatus totus me oderat! Vere alicui credibile est in gente mea neminem valuisse ac mente sana usum esse? Lege, sis, Annales ab excessu Divi Augusti! Videbis quam multa mendacia Tacitus scripserit. Sed vos ei creditis! Avunculum meum, Caligulam, omnino vesanum; Tiberium, omnium rerum simulatorem dissimulatoremque, crudelem ferumque quasi Hyrcanam tigrem; Claudium, balbum claudumque, qui gradum numquam protulit sine libertis suis, qui semper in uxorum dicione mansit…

    PERCONTATRIX Inter quas mater tua quoque fuit.

    NERO Num  de parentibus meis nunc loquendum est?

    PERCONTATRIX Aliquid de familia tua e tuo ore omnes scire volunt…

    NERO Et nos curiositati cedamus! Vobis de patre meo loquar: utinam ne me parvulum reliquisset! Vita mea certe alia fuisset!

    PERCONTATRIX Fateor; sed mater tua diligens impigraque fuit ut primas partes in Palatio ageres.

    NERO Ita. Tamen hoc dicere mihi acerbum est. Mulier pulcherrima fuit, sed impotens! Sed imperiosa! Sed vere tyrannus sub palla fuit! “Nero, huc  veni! Nero hoc fac! Nero, illum dimitte!”. Ommia ad nutum eius mihi facienda erant!

    PERCONTATRIX Sed fatendum est te numquam sine Agrippina principem futurum fuisse…

    NERO Verum est. Sed mater mea maiora spectavit. Pace eius fateor eam ambitiosiorem laudisque cupidiorem fuisse. Qua re patruo suo nupsit!

    PERCONTATRIX Qualis ille tibi visus est?

    NERO Quid dicam de Claudio? Homo litteratus fuit, Tuscoque sermone loquebatur, multa antiquiora noverat. In manibus eius semper stilus tabulaque erant….sed quid aliud facere poterat, miselle? Pila ludere, equitari, curru vehi numquam potuit! Formae dignitatem certe non habuit! Puto eum multos per annos stultum esse simulavisse.

    PERCONTATRIX Omnia intellego. Ad matrem redeamus.

    NERO Bene fecisti. Quid de Agrippina etiamnunc dicendum est? Ecce: me puerum educandum tradidit cuidam philosopho.

    PERCONTATRIX Cui philosopho?

    NERO Scio te eum bene novisse: ne simulaveris te non intellegere! De Lucio Annaeo Seneca dico. Quam multos annos mihi perferendus fuit! Quin etiam: primo eum dilexi! Tamen puer non philosophiae tantum studui, sed etiam tibia canere, psallere, ad symphoniam saltare didici: sciendum enim est etiam quendam optimum saltatorem inter magistros fuisse. Sed praecipue ab ineunte aetate equorum studio flagravi plurimusque mihi sermo, quamquam vetabar, de circensibus erat.

    PERCONTATRIX Nonne ipse aurigare voluisti?

    NERO Ita, et etiam spectari volui, et me in Circo Maximo universorum oculis praebui. Scilicet neque mater neque Seneca studia mea intellegere potuerunt. De Agrippina forsitan tacendum sit: mater semper mater est….sed de Seneca! Sane dixerit  se sapientem numquam fuisse satisque sibi aliquid cotidie e vitiis dempsisse! At aliter locutus est, aliter vixit! Et multos per annos mihi defendendus purgandusque fuit ante omnium oculos: quod molestius fuit.

    PERCONTATRIX Sed, quid de eius praeceptis meministi?

    NERO Molestiam taediumque! Dum ille loquitur, mihi solacium praebebam, cogitans: Alexandrum quoque sectabatur eiusque lateri semper adhaerebat Aristoteles, patris Philippi iussu…

    PERCONTATRIX Nonne postremo vindicavisti te tibi?

    NERO Certe: anno sexto postquam principatum inivi, vincula in quibus tam longe fueram perfregi: Senecam primum dimisi….

    PERCONTATRIX Burrum quoque.

    NERO Burrus me matris iussu custodiebat sicut canis catenarius! Ius mihi erat eligendi praefectum praetorio quem mallem!

    PERCONTATRIX De matre tua autem radicitus exsolvisti…

    NERO Verbis tempera, puella! Puta semper te cum principe sermonem habere! Tamen, tibi fatebor me ea nocte, qua mortua est, vix matrem meam dimisisse, multumque me osculatum esse cum eam amplexus sim! Attamen hoc tibi sciendum est: regnandi cupiditate eo usque pervenit Agrippina ut saepius se mihi offerret, incesto paratam. Quid aliud facerem?

    PERCONTATRIX Sermonem alio transferamus: melius erit. Quid de incendio urbis dicas?

    NERO Necesse erat ut fieret.

    PERCONTATRIX Sed Christianos accusavisti…

    NERO Ulcus tetigisti, puella! Sed quid facerem? Incendium formidulosum fuit, universaque Urbs in rabiem versa: malos auctores in hac re habui.

    PERCONTATRIX Facile dictu, nunc…

    NERO Facile dictu tibi, puella! Num meditata es de principis adulescentis incommodis?! Octavum decimum annum agens princeps factus sum: omnes mihi invidebant sperabantque me praecipitem ruiturum.

    PERCONTATRIX Sed post incendium, Domum quae “Aurea” appellata est, aedificavisti…

    NERO Scisne? Cum de domo mea cogitem, etiamnunc vehementer commoveor: mira fuit, vere omnibus somniis pulchrior.

    PERCONTATRIX Verum est aliqua loca eius domus populo patuisse?

    NERO Certe. Vides quam rerum novarum amator fuerim? Quam multa, quae temporibus tuis communia erunt, ante tempus ego fecerim? Rem publicam ludum scaenicum  esse intellegi.

    PERCONTATRIX Maximas tibi gratias agimus ob percontationem istam. Multa nos docuisti. Postremo, quo modo te describas?

    NERO Piget me Taciti verbis uti, attamen tibi dicam: “Incredibilium cupitor”.

    © Silvia Stucchi, 2019

  • Senofonte e le Arginuse

    Senofonte e le Arginuse

    Facendo seguito ad altri esempi di proposte traduttive partendo da testi greci presentati in latino, vorrei qui riportare un celebre racconto di Senofonte. Rievoco brevemente i fatti narrati, più ampiamente ricostruiti nell’articolo di Paolo A. Tuci che allego a fine post, derivandolo dalla pagina open source dello studioso. Siamo sul finire della guerra del Peloponneso, che da quasi trent’anni contrappone Atene e Sparta, con i rispettivi alleati. Atene è in difficoltà già da tempo, ma nel 406 a.C. riesce a sconfiggere la flotta spartana alle isole Arginuse. Si tratta di tre isolotti nei pressi della costa dell’Asia Minore, vicino a Lesbo. Il luogo non è identificato con certezza, perché oggi in quella zona sopravvivono due, non tre, isolotti. Di recente, si è pensato di identificare il terzo in una (attuale) penisola, che si sarebbe saldata col tempo alla costa. Si tratterebbe quindi della fascia di mare al largo di Dikili, in Turchia. Ma la cosa qui possiamo lasciarla ingiudicata.

    Quello che interessa sono gli avvenimenti relativi alla vittoria: la flotta ateniese, al comando di otto strateghi, vince e riesce a far sì che gli Spartani tolgano il blocco che chiudeva le navi al comando dell’ateniese Conone, di stanza a Lesbo. La vittoria non fu però senza prezzo: l’inizio di una pesante tempesta impedisce di svolgere il loro compito alle triremi inviate a raccogliere i caduti in mare durante il combattimento. Al ritorno a casa, sei degli otto strateghi (due, avvertendo la mal parata, si sono messi prudenzialmente in salvo; con loro, anche lo stesso Conone) furono processati per il mancato salvataggio, e alla fine vennero condannati a morte. L’avvenimento è raccontato da Senofonte e Diodoro Siculo, fonti principali (ma non uniche), in modi leggermente differenti. Entrambi sono però d’accordo – e d’accordo è la storiografia moderna – che la decisione di mandare a morte sei dei propri migliori comandanti fu, per Atene, un simbolico suicidio, prodromo al futuro suicidio della battaglia di Egospotami (che mise fine alla guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene).

    Nel racconto di Senofonte, che riporto nella traduzione latina di J.A. Ernesti, Lipsia 1763, rivista dall’anonimo curatore del volume Didot, Parigi 1878, di cui mi avvalgo, e ritoccata qua e là anche da me, non è però il verdetto in sé ad essere in causa, ma il modo in cui si arrivò al verdetto. La votazione, secondo Senofonte, si sarebbe dovuta svolgere a scrutinio segreto e nell’ambito della boulè (qui tradotto senatus), non dell’ecclesia (qui contio). La boulè è un’assemblea rappresentativa, con pieni poteri amministrativi e legislativi; l’ecclesia è l’assemblea di tutti i cittadini, aperta perciò agli umori popolari, ma non necessariamente a competenza e giustizia. Ci sono casi in cui, essendo in gioco l’interpretazione della legge, non possono essere tutti a decidere, ma deve sapersene prendere la responsabilità chi si è assunto il compito di comando. E’ questa la morale che si ricava dalle pagine di Senofonte, al di là del giudizio su colpe o meno in questo o in altri casi simili.

    Segnalo, per la traduzione: di contio e senatus, termini anacronistici se riferiti all’Atene del V secolo, ho già detto (contio poteva essere tradotto anche con agorà o forum, naturalmente, ma a Ernesti doveva piacere il termine romaneggiante, laddove oggi forse preferiremmo l’idea di “piazza pubblica”); i Prytanes sono i magistrati incaricati di organizzare le assemblee. Teramene è figura del tempo, particolarmente odiosa nel giudizio di Senofonte (non così altre fonti): presente fra gli incaricati del recupero dei naufraghi, avrebbe giocato d’anticipo accusando i propri comandanti, per non essere imputabile a sua volta. Teramene era celebre per i suoi voltafaccia: oligarchico nel 411, democratico nel 409, trierarca nel 406, fu anche ambasciatore plenipotenziario nella trattativa di resa di Atene con Sparta dopo la sconfitta di Egospotami, finché, nel 404, venuto a scontrarsi con Clizia, finirà vittima dei Trenta Tiranni, dei quali pure era stato fiancheggiatore. Anche Callisseno è un demagogo ateniese: messosi in luce con il processo, fuggirà poi a Sparta quando gli Ateniesi incominciarono a pentirsi della loro sentenza e a voler rivedere le carte processuali, per rientrare in città solo grazie all’amnistia generale successiva alla cacciata dei Trenta, conservando però un ruolo del tutto marginale.

    Ecco dunque il testo, piuttosto fedele al dettato di Senofonte nella prima parte, meno nella seconda (per ragioni di lunghezza), ma spero non alterato nelle idee e nello svolgimento. Ricordo che si tratta di un’ottima occasione di versione, con possibilità di discussione in classe delle idee espresse dallo storico antico … aggirando i vari siti internet che presentano tradotti tutti o quasi i testi latini a disposizione, ma non ancora quelli tradotti in latino dal greco!

    Contio coacta est, in qua inter alios etiam Theramenes duces in primis accusabat, iure ab ipsis rationem exigendam dicens, quamobrem naufragos non sustulissent. Nam quod alium neminem incusassent, epistolae productae testimonio docebat, quam duces ipsi ad senatum et ad populum misissent, in qua causam nullam aliam afferrent, nisi tempestatem. Post haec duces singuli brevibus verbis se purgaverunt, et rem, ut erat gesta, commemorarunt : se adversus hostes profectos esse, naufragos autem ut tollerent triremium praefectis (hominibus ad res gerendas idoneis et imperatorio munere functis) imperasse, i.e. Therameni et aliis talibus. “Neque tamen – aiebant – propterea haec dicimus, quod hi modo nos accusant atque in hos sic culpam conferemus. Sed tempestatis magnitudo prohibuit quominus naufragi tolli potuissent”. Atque harum rerum et gubernatores et multos alios, qui expeditionis socii fuerant, testes producebant.  Haec cum dicerent, populo satisfaciebant, ac multi eos libere demitti voluerunt. Verum, re deliberata, visum est senatum ad populum referre quo pacto de causa in iudicio cognoscendum esset. “Athenienses universi suffragia ferunto”, reclamavit tunc Callixenus, et indignum esse clamitat non concedi populo ut, quod ipse velit, agat. Secuta sunt Apaturia, quo festo inter se parentes et cognati conveniunt. His igitur festis diebus amici Theramenis homines complures nigris indutos vestibus submiserunt, ut ii, tanquam eorum qui periissent propinqui, ad populum accederent et duces accusarent. A plebe igitur tumultuatum est, donec magistratus illi qui Prytanes vocantur, metu perculsi, suffragium populo permissuros se dicebant, praeter unum Socratem, Sophronisci filium. Is aliud quidquam negabat se facturum quam quod esset legi consentaneum.

    Ecco infine il saggio di Paolo A. Tuci, promesso all’inizio del post. Lo si può sfogliare usando le freccine nell’angolo in basso a sinistra. Buon lavoro a tutti!

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    © Massimo Gioseffi, 2019