Facendo seguito ad altri esempi di proposte traduttive partendo da testi greci presentati in latino, vorrei qui riportare un celebre racconto di Senofonte. Rievoco brevemente i fatti narrati, più ampiamente ricostruiti nell’articolo di Paolo A. Tuci che allego a fine post, derivandolo dalla pagina open source dello studioso. Siamo sul finire della guerra del Peloponneso, che da quasi trent’anni contrappone Atene e Sparta, con i rispettivi alleati. Atene è in difficoltà già da tempo, ma nel 406 a.C. riesce a sconfiggere la flotta spartana alle isole Arginuse. Si tratta di tre isolotti nei pressi della costa dell’Asia Minore, vicino a Lesbo. Il luogo non è identificato con certezza, perché oggi in quella zona sopravvivono due, non tre, isolotti. Di recente, si è pensato di identificare il terzo in una (attuale) penisola, che si sarebbe saldata col tempo alla costa. Si tratterebbe quindi della fascia di mare al largo di Dikili, in Turchia. Ma la cosa qui possiamo lasciarla ingiudicata.
Quello che interessa sono gli avvenimenti relativi alla vittoria: la flotta ateniese, al comando di otto strateghi, vince e riesce a far sì che gli Spartani tolgano il blocco che chiudeva le navi al comando dell’ateniese Conone, di stanza a Lesbo. La vittoria non fu però senza prezzo: l’inizio di una pesante tempesta impedisce di svolgere il loro compito alle triremi inviate a raccogliere i caduti in mare durante il combattimento. Al ritorno a casa, sei degli otto strateghi (due, avvertendo la mal parata, si sono messi prudenzialmente in salvo; con loro, anche lo stesso Conone) furono processati per il mancato salvataggio, e alla fine vennero condannati a morte. L’avvenimento è raccontato da Senofonte e Diodoro Siculo, fonti principali (ma non uniche), in modi leggermente differenti. Entrambi sono però d’accordo – e d’accordo è la storiografia moderna – che la decisione di mandare a morte sei dei propri migliori comandanti fu, per Atene, un simbolico suicidio, prodromo al futuro suicidio della battaglia di Egospotami (che mise fine alla guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene).
Nel racconto di Senofonte, che riporto nella traduzione latina di J.A. Ernesti, Lipsia 1763, rivista dall’anonimo curatore del volume Didot, Parigi 1878, di cui mi avvalgo, e ritoccata qua e là anche da me, non è però il verdetto in sé ad essere in causa, ma il modo in cui si arrivò al verdetto. La votazione, secondo Senofonte, si sarebbe dovuta svolgere a scrutinio segreto e nell’ambito della boulè (qui tradotto senatus), non dell’ecclesia (qui contio). La boulè è un’assemblea rappresentativa, con pieni poteri amministrativi e legislativi; l’ecclesia è l’assemblea di tutti i cittadini, aperta perciò agli umori popolari, ma non necessariamente a competenza e giustizia. Ci sono casi in cui, essendo in gioco l’interpretazione della legge, non possono essere tutti a decidere, ma deve sapersene prendere la responsabilità chi si è assunto il compito di comando. E’ questa la morale che si ricava dalle pagine di Senofonte, al di là del giudizio su colpe o meno in questo o in altri casi simili.
Segnalo, per la traduzione: di contio e senatus, termini anacronistici se riferiti all’Atene del V secolo, ho già detto (contio poteva essere tradotto anche con agorà o forum, naturalmente, ma a Ernesti doveva piacere il termine romaneggiante, laddove oggi forse preferiremmo l’idea di “piazza pubblica”); i Prytanes sono i magistrati incaricati di organizzare le assemblee. Teramene è figura del tempo, particolarmente odiosa nel giudizio di Senofonte (non così altre fonti): presente fra gli incaricati del recupero dei naufraghi, avrebbe giocato d’anticipo accusando i propri comandanti, per non essere imputabile a sua volta. Teramene era celebre per i suoi voltafaccia: oligarchico nel 411, democratico nel 409, trierarca nel 406, fu anche ambasciatore plenipotenziario nella trattativa di resa di Atene con Sparta dopo la sconfitta di Egospotami, finché, nel 404, venuto a scontrarsi con Clizia, finirà vittima dei Trenta Tiranni, dei quali pure era stato fiancheggiatore. Anche Callisseno è un demagogo ateniese: messosi in luce con il processo, fuggirà poi a Sparta quando gli Ateniesi incominciarono a pentirsi della loro sentenza e a voler rivedere le carte processuali, per rientrare in città solo grazie all’amnistia generale successiva alla cacciata dei Trenta, conservando però un ruolo del tutto marginale.
Ecco dunque il testo, piuttosto fedele al dettato di Senofonte nella prima parte, meno nella seconda (per ragioni di lunghezza), ma spero non alterato nelle idee e nello svolgimento. Ricordo che si tratta di un’ottima occasione di versione, con possibilità di discussione in classe delle idee espresse dallo storico antico … aggirando i vari siti internet che presentano tradotti tutti o quasi i testi latini a disposizione, ma non ancora quelli tradotti in latino dal greco!
Contio coacta est, in qua inter alios etiam Theramenes duces in primis accusabat, iure ab ipsis rationem exigendam dicens, quamobrem naufragos non sustulissent. Nam quod alium neminem incusassent, epistolae productae testimonio docebat, quam duces ipsi ad senatum et ad populum misissent, in qua causam nullam aliam afferrent, nisi tempestatem. Post haec duces singuli brevibus verbis se purgaverunt, et rem, ut erat gesta, commemorarunt : se adversus hostes profectos esse, naufragos autem ut tollerent triremium praefectis (hominibus ad res gerendas idoneis et imperatorio munere functis) imperasse, i.e. Therameni et aliis talibus. “Neque tamen – aiebant – propterea haec dicimus, quod hi modo nos accusant atque in hos sic culpam conferemus. Sed tempestatis magnitudo prohibuit quominus naufragi tolli potuissent”. Atque harum rerum et gubernatores et multos alios, qui expeditionis socii fuerant, testes producebant. Haec cum dicerent, populo satisfaciebant, ac multi eos libere demitti voluerunt. Verum, re deliberata, visum est senatum ad populum referre quo pacto de causa in iudicio cognoscendum esset. “Athenienses universi suffragia ferunto”, reclamavit tunc Callixenus, et indignum esse clamitat non concedi populo ut, quod ipse velit, agat. Secuta sunt Apaturia, quo festo inter se parentes et cognati conveniunt. His igitur festis diebus amici Theramenis homines complures nigris indutos vestibus submiserunt, ut ii, tanquam eorum qui periissent propinqui, ad populum accederent et duces accusarent. A plebe igitur tumultuatum est, donec magistratus illi qui Prytanes vocantur, metu perculsi, suffragium populo permissuros se dicebant, praeter unum Socratem, Sophronisci filium. Is aliud quidquam negabat se facturum quam quod esset legi consentaneum.
Ecco infine il saggio di Paolo A. Tuci, promesso all’inizio del post. Lo si può sfogliare usando le freccine nell’angolo in basso a sinistra. Buon lavoro a tutti!
paolo-tuci-arginuse© Massimo Gioseffi, 2019