Tag: ancient history

  • Cesare e i suoi ritratti

    Cesare e i suoi ritratti

    Nella scultura ufficiale romana l’intento celebrativo superava il momento di astratto interesse formale. Ciò era possibile perché l’arte romana aveva trovato nell’uso pubblico il canale per veicolare messaggi celebrativi e politici a sostegno dell’ideologia al potere. In particolare, nel caso delle statue e dei ritratti a determinare l’effetto espressivo non era solo la tipologia della raffigurazione, ma anche il luogo in cui veniva collocata e l’inscrizione che l’accompagnava.

    Inizialmente era il Senato che, riconosciuto il valore di un’azione, premiava il singolo cittadino attraverso una statua. La letteratura latina offre, a questo titolo, vari aneddoti: Plinio ha dedicato al tema diversi capitoli del libro XXXIV della Naturalis Historia; Tito Livio e Valerio Massimo chiariscono come queste onorificenze potessero essere ottenute da chiunque, senza che l’estrazione sociale o il sesso fossero delle barriere. Il primo, infatti, riporta l’episodio di Clelia (II, 13 – ricordato anche da Plinio, XXXIV, 28-29, e Virgilio, Eneide VIII, 651), ragazza romana ostaggio di Porsenna, dal quale riesce a liberare sé e altre donne e a fuggire a nuoto, meritandosi così la prima statua equestre della storia romana, disposta sulla via Sacra. Valerio narra invece la vicenda del puer Emilio Lepido (III, 1), troppo giovane per arruolarsi nell’esercito, ma già meritevole della corona civica, degli spolia del comandante avversario e della collocazione sul Campidoglio di una statua con la bulla e la toga praetexta.

    A partire dalla tarda repubblica, crebbe notevolmente da parte dei singoli uomini politici la necessità di proclamare il proprio potere e lo status sociale attraverso nuove costruzioni o immagini, che divennero strumento di propaganda. Cesare si inserì in questa tradizione, sfruttando le onorificenze ricevute in seguito ai trionfi.

    Le sue statue suscitarono, e suscitano ancora, grande incertezza (Zanker le definisce “irritanti”) sulle intenzioni monarchiche di Cesare. Già nel suo Foro, pur mostrandosi nelle vesti tradizionali del generale vittorioso con una statua pedestre e una equestre, Cesare risultava sprezzante delle regole repubblicane, dal momento che entrambe le statue erano loricate, mentre nei confini del pomoerium era vietato stare armati né potevano comparire raffigurazioni in armi. Ma altre statue tentavano di presentare Cesare addirittura come un dio o un semidio, senza che sia chiaro se fossero uno strumento di propaganda anticesariana o un tentativo mal riuscito di celebrazione da parte di quella cesariana. Fra queste si ricordano una statua in avorio che sfilava insieme agli agalmata degli dèi nella processione verso il Circo Massimo; un’altra collocata nel tempio di Quirino (con l’augurio di Cicerone che Cesare diventasse ben presto “collega” del dio), accompagnata dall’inscrizione “dio invincibile”, già epiteto di Romolo; infine, una terza eretta nell’area capitolina insieme a quelle dei re, in una collocazione alquanto ambigua, perché accanto a quella di Bruto, rappresentato con una spada sguainata. Così, l’antico e il nuovo liberatore erano collocati l’uno vicino all’altro, e se da un lato Cesare era posto alla stregua di Romolo e Bruto e si vedeva concessa pari dignitas, dall’altro i suoi detrattori non persero l’occasione di sottolineare la sua aspirazione al regno.

    Con quest’ultima statua Cesare voleva dare rilievo al proprio ruolo di difensore della libertas Urbis, tema poi intensificato con l’innalzamento di una statua cinta sul capo dalla corona obsidionalis, interpretata come liberazione dello Stato dall’assedio degli avversari. A partire da quel momento le corone vennero sempre marmorizzate, diventando una caratteristica della ritrattistica romana successiva, mentre in precedenza sulle statue di chi meritava questi onori veniva posta una vera e propria corona. Anche dopo le Idi di Marzo le statue di Cesare non cessarono di creare divisione: da un lato i Cesaricidi aprirono fucine di smaltimento per fondere i metalli con cui erano state eseguite, dall’altro Ottaviano fece erigere altre rappresentazioni di Cesare divinizzato.

    Sono meno controversi i ritratti di Cesare, fra i quali si trovano due esemplari a lui contemporanei: il cosiddetto Cesare Tusculum e quello rinvenuto nel Rodano presso Arles, la colonia cesariana di Arelate. Entrambi sono molto diversi dai ritratti postumi, più conformi alle idee e alla direttive espresse dal principato di Ottaviano.

    Il viso del ritratto di Tuscolo (oggi conservato al museo archeologico di Torino) mostra una magrezza estrema ed esibisce rughe profonde sulla fronte e sulle guance. Questi elementi hanno permesso di datare il ritratto agli ultimi anni di vita del dictator, o poco dopo la sua morte. Certamente si tratta del profilo di un Cesare maturo, presentato nelle vesti di un politico accorto. Per il suo realismo il ritratto si colloca inequivocabilmente nella tradizione repubblicana, per la quale l’esigenza di differenziarsi dagli avversari politici rendeva necessaria la massima attenzione alla resa dei dettagli dei lineamenti fisici.

    (Il Cesare “Tusculum”)

    È invece controversa l’identificazione con Cesare del ritratto scoperto nel 2007 sulla riva destra del Rodano, presso l’antica Arelate. Il ritratto potrebbe essere stato scolpito nel 49 a.C., in occasione dell’assedio di Marsiglia, o nel 46 a.C., anno in cui Cesare dedusse la Colonia Iulia Paterna Arelate Sextanorum. Infatti, la deduzione della colonia può giustificare la presenza di un ritratto onorifico di Cesare, forse inserito in uno spazio pubblico durante la celebrazione per la fondazione della città, o sopra un monumento trionfale dal quale lo sguardo di Cesare incontrava il Rodano e contemplava Arelate. Ciò che colpisce immediatamente è il realismo del viso, scolpito con estrema cura, e la presenza di caratteristiche plastiche individuali. Vi è raffigurato un uomo imberbe, d’età matura, con diverse rughe profondamente incise, che simulano il cedimento della pelle e connotano il volto di un politico concentrato in grandi pensieri. Il profondo realismo estetico, privo di pietà, contraddistingue il volto e contribuisce a collocare l’opera in quel filone ritrattistico tipico della tarda repubblica, in cui un’espressività molto forte riflette il carisma e i valori della virtus e del mos maiorum.

    (Il presunto Cesare di Arles)

    L’identificazione con Cesare si fonda sulla compatibilità cronologica del pezzo con l’età cesariana e sulle caratteristiche comuni con il ritratto di Tusculum. Inoltre, l’esecuzione finissima e l’uso di un marmo pregiato indicano una committenza molto alta. In effetti, sembra poco probabile che un magistrato romano o uno dei notabili locali abbia potuto farsi rappresentare alla maniera di Cesare, anche perché l’immagine di questi non era ancora stereotipata.

    Dopo la morte di Cesare la fisionomia del Dictator si riequilibrò in visioni più armoniose e idealizzate. È il caso dei ritratti Chiaramonti e Pisa, risalenti a un originale dell’età del secondo triumvirato, o comunque riconducibili a uno stesso modello, che potrebbe anche essere lo stesso ritratto Chiaramonti. Questi due busti illustrano un Cesare divinizzato, fuori dal tempo, la cui espressione sembra risentire della chiara volontà di Ottaviano di ricordare Cesare come l’incarnazione ideale del fondatore dell’Impero Romano.

    (Il Cesare Chiaramonti)

    Il ritratto di Cesare è presente anche sul diritto dei denari autorizzati dal Senato e coniati dai quattuorviri monetales, dopo il termine del conflitto civile, quando Cesare ottenne, primo fra i cittadini romani, l’onore di apporlo con la menzione della dittatura perpetua, accompagnato sul rovescio dall’effigie di Venere.

    (Denarium effigiante Cesare)

    Riassumendo: l’atteggiamento ambiguo di Cesare verso la tradizione repubblicana si manifesta in primo luogo nei loci prescelti per apporre la sua immagine: il Campidoglio e il Foro Romano erano i luoghi pubblici più ambiti per la collocazione di statue, ma è indubbio che acconsentire ad onori come la traductio in pompa e avere una propria statua nel tempio di Quirino era un gesto audace, che suscitò reazioni negative, perché Cesare accettò, se non addirittura scelse in prima persona, due sistemazioni inusuali e contrarie alla tradizione repubblicana. Non passò inosservato nemmeno il tentativo di creare un legame con Romolo, che offriva il modello per la divinizzazione: una propaganda che si rivolse contro Cesare stesso, perché i Cesaricidi organizzarono il suo assassinio pensando proprio alla versione cruenta della morte di Romolo.

    © Niccolò Chiesa, 2019

  • Il foro di Cesare

    Il foro di Cesare

    Con il pretesto di rinnovare le strutture più antiche per adeguarle al nuovo status di Roma, divenuta centro egemone dell’area mediterranea, Cesare realizzò un’opera di “cosmesi” edilizia della città, a partire dall’area del Foro Romano, nella quale eclissò i monumenti e i luoghi repubblicani.

    Più di ogni altra iniziativa architettonica, il Forum Iulium costituì l’opus maius dell’edilizia cesariana. I lavori per costruirlo furono iniziati nel 54 a.C., dopo che Cesare aveva acquistato le aree private a nord del comitium, incaricando Cicerone e Oppio di espropriare i terreni. I costi delle operazioni furono ingenti e salirono dai sessanta milioni di sesterzi preventivati a cento milioni, forse anche a causa di una speculazione ai danni di Cesare.

    Il complesso sorse fra l’area del preesistente Foro Romano e le pendici del Campidoglio e del Quirinale, motivo per il quale furono eseguiti interventi di incisione sulle pareti tufacee dei due colli. L’audacia degli interventi è evidente fin da questa azione: intaccando il Campidoglio, non erano state tagliate le pendici di un colle qualsiasi, ma quelle del colle che ospitava l’arx e il tempio dedicato alla Triade Capitolina.

    Per di più, l’area del comitium era interessata dalla presenza di luoghi di culto sacri a Venere Cloacina, il cui sacello si trovava sopra un corso d’acqua sotterraneo, con una specifica valenza purificatrice: ciò contribuì a offrire a Cesare una solida base simbolica e religiosa per costruire il complesso, in virtù della sua (presunta, ma da lui molto celebrata) discendenza da Venere; nello stesso tempo, però, pose il problema del venire a intaccare un’altra area sacra.

    Di fatto, durante lo scavo delle fondamenta gli operai violarono un’antica necropoli, le cui tracce (un gruppo di nove fosse circolari datate fra l’età del Bronzo Finale e l’inizio dell’età del Ferro, più un pozzo circolare di epoca tardo-arcaica e una cisterna a tholos del IV secolo a.C.) sono venute alla luce durante le campagne archeologiche del 2005-2008. Il ritrovamento, in tutte le strutture, di una conchiglia sottolinea una funzione specifica di questo ornamento: la sua presenza in contesti funerari potrebbe essere motivata dall’obbligo, avvertito dai costruttori cesariani, di purificare la loro azione empia per mezzo di atti piaculatori. La conchiglia, inoltre, è legata alla sfera della simbologia acquatica e della sessualità femminile, che trova, nel mondo greco-romano, la sua massima espressione nella mitologia delle ninfe e di Venere. In ogni caso, Cesare intervenne direttamente nel rito riparatore, nella sua qualità di Pontifex Maximus.

    Il complesso fu inaugurato insieme al tempio di Venere Genitrice in occasione del trionfo del 46 a.C. sulla Gallia, l’Egitto e l’Africa, nonostante a quella data i lavori non fossero ancora completati.

    Il Foro realizzato da Cesare, esteso in direzione est-ovest, si presentava come una grande piazza rettangolare, pavimentata con lastroni di travertino, circondata su tre lati da un doppio portico su due ordini, e chiusa sul quarto lato dall’Aedes Veneris Genetricis. Dietro al portico della navata meridionale si trovava una serie di tabernae, da intendere come uffici pubblici o luoghi destinati a raccogliere gli archivi giudiziari, perché il Forum Iulium non aveva carattere commerciale, ma era lo spazio in cui i Romani discutevano gli interessi dello Stato. Escludere le attività commerciali dalla piazza fu un chiaro ed evidente segno propagandistico, volto a concentrare l’attenzione sul nuovo dominatore di Roma e sulla sua divinità protettrice.

    Alla piazza si poteva accedere solo dal lato opposto al tempio di Venere: il cittadino, entrando, si trovava così in un contesto chiuso e fortemente incentrato sul tempio, che sorgeva su un alto podio ed era il reale protagonista del Foro.

    Il sistema decorativo scandiva il particolare rapporto fra Cesare, il Foro e le divinità legate al mondo acquatico. Ovidio ricorda la presenza di una serie di fontane dedicate alle ninfe in modo che il tempio fosse percepito come un ninfeo, dedicato alle ninfe e, di nuovo, a Venere. Così, la piazza era a tutti gli effetti una sorta di grande “santuario” della Gens Iulia.

    Tra l’altro, Cesare collocò al centro due statue che lo raffiguravano: una equestre, in bronzo, in origine un’opera di Lisippo raffigurante Alessandro Magno, cui Cesare sostituì la testa con la propria; l’altra loricata, nonostante le regole sacrali vietassero che all’interno del Pomerio ci fossero uomini in armi o loro rappresentazioni.

    Senza dubbio Cesare voleva edificare intorno all’area del Foro un complesso di edifici pubblici legati al suo nome e a quello della Gens Iulia, ma non riuscì a vedere la conclusione dei lavori progettati. Dopo la sua morte, fu Ottaviano a riavviare le operazioni nel 42 a.C., portando a termine il progetto cesariano, che però subì numerosi rifacimenti nei secoli successivi, fino a mutare in modo radicale il proprio aspetto.

    Quello che qui interessa evidenziare è però che, anche come urbanista, Cesare fu una figura audace e innovativa, che venne a rappresentare una sorta di spartiacque fra il vecchio e il nuovo. Fu infatti il primo a personalizzare un’area nel cuore politico di Roma, creando un luogo consacrato a lui e alla sua gens; anticipò l’evoluzione cui andava incontro Roma; indirizzò la successiva monumentalizzazione della città. Dopo di lui, Augusto, Vespasiano, Domiziano e Traiano costruirono ciascuno il proprio foro monumentale, riconoscendo nell’operazione un importante strumento di propaganda, secondo il modello offerto loro da Cesare. E questa è, appunto, la seconda osservazione che giustifica il post: Cesare fu, ben prima di Ottaviano (che però seppe perfezionare la prassi), il vero creatore di una politica indirizzata alla gloria personale. Egli riconobbe il “potere delle immagini”, per dirla con Zanker (che parla di Augusto), e ne fece un uso disinvolto e spregiudicato, volto alla celebrazione di sé attraverso la propria stirpe. Nelle intenzioni di Cesare, probabilmente, i lavori di costruzione del Foro a lui intitolato non dovevano apparire troppo diversi dalla stesura dei Commentarii. In un caso come nell’altro, si trattava di realizzare un monumento destinato a segnalare alle generazioni contemporanee l’esatta misura della propria grandezza, e a tramandare a quelle a venire il proprio nome e la propria gloria.

    (Il Foro di Cesare da Nord, con le colonne del Tempio di Venere,
    con i restauri di età traianea)
    (Planimetria del Foro di Cesare)




    (Paul Bigot, 1870-1942, plastico del Foro)



    © Niccolò Chiesa, 2019

  • Lettori in Arcadia

    Lettori in Arcadia

    Torno a occuparmi di Arcadia, prendendo spunto da una giusta osservazione presente nel commento alle Bucoliche di Virgilio curato da Andrea Cucchiarelli (Roma, 2012). Parlando di Arcadia, lo studioso osserva che dovremmo domandarci che cosa sapevano di essa i lettori di Virgilio, fermo restando che per un Romano del I sec. a.C. doveva trattarsi, probabilmente, di una terra vagamente esotica, poco turistica, nota al massimo di nome o giù di lì. Cucchiarelli stende un primo elenco di informazioni, che qui vorrei cercare di riprendere e ampliare. Mi sembra infatti che qualsiasi ragionamento intorno all’Arcadia virgiliana debba partire da una domanda di questo tipo, anche se la risposta è difficile da ricostruire, se non addirittura impossibile. Proviamoci lo stesso.

    L’Arcadia è una regione del Peloponneso centrale, prevalentemente montuosa, che oggi offre alcune rinomate località sciistiche. Molto boschiva, ricca di cipressi e querce, ha in queste il proprio simbolo totemico. Dalla sua conformazione geografica deriva l’idea di una regione conservatrice, come conservatore è, per via di Sparta, un po’ tutto il Peloponneso; ma, se possibile, ulteriormente tale, a causa del maggiore rigore morale riconosciuto di solito alla campagna rispetto alla città, alla montagna rispetto ai territori di pianura. Per i Greci la montagna è un mondo oscuro, il luogo della ferinità: gli abitanti dell’Arcadia vivono perciò nell’immaginario comune a uno stadio primitivo di civiltà. Per questo sono dediti alla pastorizia, attività resa del resto inevitabile dalla configurazione del loro territorio; per questo, sono esclusi da quel processo di civiltà che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la restante umanità, che fu nomade o seminomade all’inizio; poi sedentaria e agricola; infine, urbanizzata e in lotta feroce fra comunità e comunità (è questa l’immagine del progresso che offre un biografo tardo antico di Virgilio, Elio Donato). L’Arcadia è invece vista come il luogo dove non esiste ancora la proprietà privata, o quanto meno non è ancora predominante, non è disegnata e imposta sul terreno, oltre che sulle cose, perché le greggi hanno naturalmente sempre un padrone, ma le terre pastorali sono prive di staccionate e mantengono confini incerti. Viene in mente, come possibile parallelo, il bel film di Elia Kazan, del 1947, Il mare d’erba (The Sea of Grass, da un romanzo di Conrad Richter), che giocava proprio sul motivo del conflitto agricoltori/allevatori nel Nuovo Messico del 1880, fondando lo scontro fra le due categorie su questa contrapposizione “terre aperte al pubblico utilizzo delle mandrie/terre chiuse per la coltivazione dei raccolti”, e facendone poi occasione, come è nella tradizione cinematografica, di un melodrammone familiare. In conseguenza di quanto detto, l’Arcadia è vista dagli antichi come la terra della pace che da questa situazione deriva, perché non ci sono beni da difendere né contro il vicino né contro il forestiero; è la terra più prossima alla mitica età dell’oro, insomma, prima dell’insorgere della civiltà e dei suoi mali.

    Il conservatorismo di questa regione si segnala per un altro elemento: l’Arcadia ha divinità proprie, a cominciare dalla declinazione specifica di Zeus Liceo, che ha culti di natura segreta, che ancora Pausania, 8, 38, 6-7, due secoli più tardi di Virgilio, rifiuterà di svelare. Identico discorso si potrebbe fare per Apollo, Liceo pure lui, o per le altre divinità tipiche dell’ambito pastorale, in primis Pan, con tutto il corredo di storie che a lui si riconnetteva. È invece incerto se i lettori di Virgilio conoscessero davvero la topografia dei luoghi di culto legati a queste divinità, descritti nella Periegesi da Pausania, e confermati dagli scavi archeologici americani dell’ultimo decennio. Ancora più improbabile è che conoscessero la storia della regione, o che se ne dessero pensiero: a lungo autonoma, l’Arcadia era stata poi assorbita nell’orbita di Sparta. Aveva avuto un momento di gloria dopo la battaglia di Leuttra (371 a.C.), attraverso la fondazione di Megalopoli (370) e della Lega Arcade, appunto, o come componente importante della successiva Lega Achea (come tale ne parla Polibio). Presto rientrata nell’orbita macedone, e quindi romana, aveva dato qualche filo da torcere a Roma (lo ricorda ancora Livio), ma da tempo aveva perso ogni interesse politico. Difficilmente, poi, i lettori virgiliani si saranno resi conto che il greco d’Arcadia ha particolarità sue proprie, quelle che oggi fanno parlare di un dialetto arcado-cipriota, una variante linguistica attestata in due aree periferiche di incerta assimilazione, a conferma della sopravvivenza di antiche popolazioni non del tutto sommerse dall’invasione unificante dei Dori – ancora una volta, un lascito dell’ambiente montano e della più facile sopravvivenza di antiche forme di vita entro i confini protetti delle valli. Quanto alla geografia, il Menalo, il Liceo, il Partenio erano le sue vette più famose, benché solo la prima tocchi i 2000 metri; Mantinea la località più celebre, non tanto per la battaglia del 418 (vittoria di Sparta su Atene e Argo, nella serie infinita della guerra del Peloponneso), quanto per quella del 362 (vittoria di Tebe su Sparta e luogo di morte di Epaminonda, fatti ricordati pochi anni prima di Virgilio nella biografia del generale tebano scritta da Cornelio Nepote). Oltre a Leuttra, erano certo note Tegea, già citata in un frammento di Pacuvio, Orcomeno, la palude di Stinfalo e la selva dell’Erimanto, luoghi nobilitati dalle imprese di Ercole. Prodotto tipico dell’Arcadia erano gli asini, di una razza particolare, avvezza alla fatica, conosciuta già da Plauto (nell’Asinaria). Fra le letture diffuse dalla scuola, e già dalla scuola antica, vanno ricordate la storia di Aglao di Psofide, l’uomo più felice della terra, che secondo Valerio Massimo e altri realizzò l’ideale di vivere tutta la vita nel suo e del suo, non dovere niente a nessuno, morire circondato dall’affetto dei figli; e il brano di Erodoto, 6, 105-106, secondo cui Fidippide, o Filippide, nel 490 a.C. stava percorrendo i 200 km ca. che separano Atene da Sparta per sollecitare l’intervento dei Lacedemoni in aiuto degli alleati attici, in prossimità dell’invasione persiana, quando, lungo le pendici del Partenio, incontrò Pan, che chiese nuovi culti in proprio onore, garantendo la vittoria degli Ateniesi in contraccambio. Quale che sia il significato del racconto, esso è alla base tanto della confusione (già presente in Luciano) fra questo Fidippide e l’anonimo soldato che percorse i 40 km fra Maratona e Atene per annunciare ben altro avvenimento; quanto del culto ateniese per Pan, per il quale fu subito eretto un altare ai piedi dell’Acropoli e furono introdotti opportuni riti e gare di canto, da taluni ritenuti una possibile origine dei canti pastorali. In quest’ordine di idee si inseriscono anche l’attenzione all’Arcadia offerta da certa epigrammatica greca – una fonte che sempre più riteniamo importante per le Bucoliche virgiliane – e la notizia di Polibio relativa alla diffusione del canto fra gli Arcadi, alla quale in epoca moderna tanta importanza è stata assegnata nel celebre libro di Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1951 (ma già Hamburg, 1946). Polibio 4, 19-21, in un passo in realtà più citato che letto nella letteratura successiva a Snell, dice che gli Arcadi hanno fama di umanità e ospitalità, e di pietà verso gli dèi, messa in dubbio da un massacro di guerra da lui rievocato. Un atto di tale ferocia si spiega però, a detto dello storico antico, con l’abbandono della pratica della musica come disciplina formativa, un tempo seguita da tutti i giovani arcadi, dalla fanciullezza fino ai 30 anni circa. La musica, afferma ancora Polibio, si era del resto resa necessaria in una regione montuosa e fredda, fatta di agglomerati distanti fra loro e isolati dal mondo, in quanto unica, possibile forma di aggregazione sociale, attraverso feste e cerimonie ricche di canti e di danze.

    Dall’ottavo libro di Plinio i lettori romani successivi a Virgilio (ma le notizie erano o no circolanti anche in tarda età repubblicana? Impossibile dirlo) avrebbero appreso altre cose sull’Arcadia: i culti per il lupo, ad esempio, animale sacro, venerato e temuto, con tanto di strani riti al limite della licantropia; oppure, la presenza di sacrifici umani, di nuovo prova di una ferinità e una religiosità accesa, ma particolare. Altro ancora potevano conoscere i Romani del tempo di Virgilio: la presenza di una comunità arcade sulle pendici antiche del Palatino, fin da una preistoria che si perde nel tempo, rievocata però, oltre che da Virgilio nell’ottavo libro dell’Eneide, dall’annalistica arcaica (Gneo Gellio e, probabilmente, Cassio Emina), da Varrone, Livio, Dionigi d’Alicarnasso e altri ancora. Il legame fra l’Arcadia ed Enea, di cui sarà traccia nell’Eneide la presenza non mai ben spiegata di un Arcade nel seguito di Enea, quel Patrone che viene …ab Arcadio Tegeae sanguine gentis (Aen. 5, 298-299), aveva però anche altre origini. In Arcadia esiste un monte di nome Anchisia, che la tradizione aveva collegato, ed era facile farlo, con il personaggio mitologico di Anchise. Da qui due varianti: una, che Anchise fosse morto alle sue pendici e lì fosse stato sepolto, lasciando il proprio nome alla località; l’altra, che Anchise fosse sì passato da quelle parti, così da lasciare il proprio nome al monte, ma in un diverso momento della sua esistenza, in giovinezza. Per spiegare questa possibilità, il mito, cui anche Virgilio aderisce, parlava allora di una deviazione di Priamo e del suo seguito in direzione dell’Arcadia, in occasione delle nozze di Esione, sorella del re troiano, a Salamina, o di una successiva visita a quella: deviazione che Virgilio trasforma in occasione per far nascere l’amicizia di Anchise con Evandro, il capo della comunità arcade stanziatasi poi nel Lazio, rinsaldata dal successivo incontro di Enea con Evandro, dopo il trasferimento di questi sulle pendici del Palatino. Quanto alla comunità arcade, la sua presenza nel territorio della futura Roma è vista da tutte le fonti che vi fanno cenno come un fatto normale e acclarato, un esempio di quella commistione di popoli che Roma riconosceva alle spalle della propria fondazione. In forma diversa, ma non troppo diversa, vanno ricordati la discendenza dei Sabini da Sparta, nota a Plutarco e a Dionigi d’Alicarnasso, oppure l’arrivo della gens Tarquinia da Corinto, ricordata da Cicerone. Nell’uno come nell’altro caso si trattava sempre di località del Peloponneso, forse a sottolineare il rapporto ideale avvertito da Roma con quella terra, terra di valori e di virtù militari e religiose, nelle quali i Romani potevano in larga parte riconoscersi, e delle quali sentirsi fieri (ricordo solo che il nome dei Sabini è connesso da Plinio, nat. 3, 108, a sebesthai, «venerare gli dèi»).

    Stabilito ciò, resta da chiedersi che cosa i lettori di Virgilio potevano sapere dell’Arcadia attraverso Teocrito. Nell’opera del poeta greco l’Arcadia è nominata tre volte: nel secondo idillio, vv. 48-49, come zona di produzione dell’ippomane (un’erba magica); nel settimo, vv. 106-108, in relazione ai culti che vi si celebravano per Pan; nel ventiduesimo, v. 157, come terra dai ricchi pascoli – è questo, del resto, l’idillio che celebra due “eroi” peloponnesiaci per eccellenza, Castore e Polluce. Una sola volta sono citate le montagne dell’Arcadia. Si tratta dell’idillio primo, ambientato chiaramente alle pendici dell’Etna stando a quanto si dice nei vv. 65-69, ma nel quale Pan è chiamato in soccorso da Dafni morente, che lo riconosce come dio cantore per eccellenza nel mondo dei pastori, e ai vv. 123-126 lo invita perciò a venirgli in aiuto, abbandonando il Menalo e il Liceo. Anche altrove, nel corpus teocriteo, si fa menzione di questa eccellenza di Pan, che sempre avrebbe diritto, per antonomasia, al primo premio nelle gare di canto (1, 3); che regola da sovrano riconosciuto gli altri pastori, e non ama che essi cantino quando lui non vuole, perché è stanco o di ritorno dalla caccia (1,16-18); ma che è pronto ad aiutare chi lo venera (5, 58-59), ed è addirittura disposto a farsi suo complice, se necessario, nelle conquiste amorose (7, 103-105). L’Arcadia, dunque, per Teocrito non è una terra di canti o di pastori cantanti: è la terra di Pan, dio pastorale e bucolico per eccellenza; ed è semmai Pan, non gli Arcadi, che si riconnette in qualche misura a un’eccellenza nel canto. Di questo, i lettori di Virgilio dovrebbero sempre tenere conto…

    Bibliografia minima

    Sull’Arcadia:

    A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, Roma 2012, pp. 23-25;

    P. Gagliardi, Commento alla decima ecloga di Virgilio, Hildesheim-Zürich-New York 2014, pp. 44-49;

    M. Ferrando, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Vicenza 2018.

    Sul dio Pan:

    Ph. Borgeaud, Recherches sur le dieu Pan, Rome 1979;

    M.C. Cardete del Olmo, El dios Pan y los paisajes pánico. De la figura divina al paisaje religioso, Sevilla 2016.


    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Cesare alla prova

    Cesare alla prova

    Nel maggio scorso, presso il Liceo “Alessandro Volta” di Como si è svolta la decima edizione del certamen intitolato “Non omnis moriar”. Nato da un’idea di Cristina Boracchi, dirigente scolastico del Liceo “Daniele Crespi” di Busto Arsizio, il certamen è rivolto a studenti di quinta ginnasio e secondo anno del Liceo classico. Alle spalle della gara c’è un sistema di rete che include, o ha incluso nel corso del decennio, tutti i Licei classici della provincia di Varese: il “Cairoli” del capoluogo, il “Crespi” di Busto, il “Pascoli” di Gallarate, il “Legnani” di Saronno e, nelle passate edizioni, anche quei licei (come il “Sacro Monte” di Varese, lo “Stein” di Gavirate e il “Curie” di Tradate) che nel frattempo hanno soppresso le loro sezioni di classico. Capofila è il liceo di Busto, ma le altre scuole collaborano alla pari; edizione dopo edizione, hanno ospitato le prove della gara e si sono assunte, a turno, l’onere dell’organizzazione e della premiazione. Dal 2018 anche il Liceo “Volta” di Como è entrato nella rete, dopo avere partecipato per diversi anni da “esterno”, con i propri allievi. Come lui, hanno contribuito alle diverse edizioni del torneo anche alcune scuole milanesi (i licei “Beccaria”, “Berchet” e “Parini”), o addirittura extra-lombarde (i licei “Carlo Alberto” di Novara e “Parodi” di Acqui Terme). 

    Non è però il decennale, pur importante, né il fatto che il certamen sia uno dei pochi rivolti a studenti del primo biennio liceale, a giustificare questo post. La commissione, costituita da docenti in rappresentanza delle diverse scuole della rete, nell’ambito di un decennio ha selezionato altrettanti brani di Cesare, tratti indifferentemente dall’uno o dall’altro dei Commentarii, e li ha sottoposti all’esercizio degli studenti. Da sempre, il brano si accompagna a un rapido questionario, di 4/5 domande al massimo, via via perfezionatosi, ma fin da subito volto a verificare tanto la competenza grammaticale quanto il livello di comprensione del testo proposto ai giovani traduttori. Avendone la possibilità, offriamo qua, per la curiosità di tutti i lettori, il campionario dei dieci testi, sperando di fornire così uno strumento utile di orientamento, applicabile nella didattica quotidiana. Punto di orgoglio della commissione è che la decisione finale, anche quando difficile e sofferta, è stata sempre fatta dipendere dalle domande di comprensione e valutazione del testo (quelle meno strettamente grammaticali, l’ultima o al massimo le ultime due di ciascuna prova), talora perfino a dispetto di una resa apparentemente – ma, a questo punto, solo superficialmente – migliore. Nell’ottica, che da queste pagine è stata più volte propugnata, che tradurre sia solo una parte del comprendere; e comunque, comprendere sia l’operazione essenziale e più importante di tutte.

    prova 2009

    prova 2010

    prova 2011

    prova 2012

    prova 2013

    prova 2014

    prova 2015

    prova 2016

    prova 2017

    prova 2018

     

    © Massimo Martini, 2018

  • Nel nome di Augusto 2

    Nel nome di Augusto 2

    A ferragosto 2017 abbiamo celebrato la ricorrenza e il periodo festivo dando voce a un’avversaria (e vittima) di Augusto, Cleopatra – la Cleopatra di Samuel Barber = https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2017/08/14/nel-nome-di-augusto/. Oggi celebriamo l’agosto 2018, con qualche ritardo rispetto alla data originariamente pensata, dando voce a un’altra vittima, questa volta indiretta, di Augusto, ossia a Didone. Fra le molte morti / i molti lamenti di Didone che fanno parte del repertorio musicale, e non solo lirico, è parso giusto iniziare da Hector Berlioz, 1803-1869. Nell’opera Les Troyens, che risale al 1858 (ma che non fu mai rappresentata per intero finché rimase in vita l’autore), vistosamente ricavata da Virgilio, Berlioz non si limita infatti a musicare una vicenda narrata dal poeta antico; Les Troyens sono, a tutti gli effetti, un enorme, continuo commento al testo antico. Berlioz era persona dotta, con tenaci passioni letterarie: Virgilio, Shakespeare, Goethe e Byron costituirono per lui una galassia di autori sui quali tornare continuamente a ragionare e riflettere. Ma di questo vorrei parlare più diffusamente in un’altra occasione. Qui mi limito a riportare, come ho fatto l’anno scorso, l’addio alla vita di Didone: il recitativo accompagnato “Ah! Je vais mourir…” e l’aria “Adieu, fière cité”, che corrispondono a quella sorte di autoepitafio che la Didone virgiliana pronuncia ai vv. 651-662 del IV libro. Eccone il testo integrale:

    Ah! Je vais mourir…
    Dans ma douleur immense submergée…
    Et mourir non vengée!
    Mourons, pourtant!
    Oui, puisse-t-il frémir
    A la lueur lointaine de la flamme de mon bûcher.
    S’il reste dans son âme quelque chose d’humain,
    Peut-être il pleurera sur mon affreux destin!
    Lui, me pleurer!
    Enée! Enée! Oh! mon âme te suit,
    A son amour enchaînée,
    Esclave elle l’emporte en l’eternelle nuit.
    Vénus, rends-moi ton fils!
    Inutile prière
    D’un coeur qui se déchire…
    A la mort tout entière,
    Didon n’attend plus rien que de la mort.

    Adieu fière cité, qu’un généreux effort
    Si promptement éleva florissante!
    Ma tendre soeur qui me suivis, errante;
    Adieu, mon peuple, adieu!
    Adieu, rivage vénéré,
    Toi qui jadis m’accueillis suppliante;
    Adieu, beau ciel d’Afrique, astres que j’admirais
    Aux nuits d’ivresse et d’extase infinie;
    Je ne vous verrai plus, ma carrière est finie.

    L’esecuzione risale a un concerto del 4 gennaio 1966. L’orchestra è quella della radiotelevisione francese (Orchestre Philarmonique de l’ORTF) diretta da Jean-Claude Hartemann, 1929-1993. La voce è invece quella splendida, sensuale, e di bellissima dizione di Régine Crespin, 1927-2007, uno dei miti del canto lirico del XX secolo, donna di grande fascino ed intelligenza, anche se, come spesso succede, più nota all’estero che in Italia, nonostante fosse di madre italiana. Alla Scala, per dire, cantò solo nella Fedra di Ildebrando Pizzetti nel 1959 e come Sieglinde nella Walküre di Wagner, in quattro recite del 1968… Qui si ammireranno la chiarezza di elocuzione, le mezze voci espressive, la capacità di trasformare ogni nota in qualcosa di significativo (l’Ah! iniziale, ad esempio, o i due diversi Adieu al v. 4 dell’aria propriamente detta), la  dignità concessa alla regina cartaginese, che non contrasta con le intenzioni espressive di Virgilio (e di Berlioz). 

     

     

  • Tarquinio e i papaveri

    Tarquinio e i papaveri

    Lo sai che i papaveri sono alti, alti, alti…

    La locuzione italiana “alti papaveri” per dire le persone di maggior importanza non è una mera espressione idiomatica. Lo dimostra la storia di Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, dalla tradizione collocato nel periodo 534-509 a.C. Nella versione di Livio (I 53), questo re aveva cercato invano di assaltare con la forza la città di Gabii, che si trovava a Est di Roma, sulla strada verso Preneste, dopo Roma certamente il centro laziale di maggior estensione. Questa città latina aveva respinto Tarquinio dalle mura, annullando così la possibilità di un assedio. Il re allora decise di ricorrere all’inganno e all’astuzia (fraude ac dolo), “per nulla secondo lo stile romano” (minime arte Romana) aggiunge Livio (I 53, 4). Per Livio, in effetti, l’ars Romana riguarda la guerra, che nella tradizione — a partire dai re — è contraddistinta dalla disciplina militaris, giunta a una forma d’arte e regolata da una precisa serie di norme (Liv. XXV 40, 5; IX 17, 10-11). La guerra alla Romana può comprendere l’astuzia, ma solo come imboscata (Liv. I 14, 7-8, Romolo contro i Fidenati in insidiis). I non Romani, ad esempio i Sabini, al sangue freddo nell’attaccare Roma aggiungono il dolus, avvalendosi dell’aiuto di una Vestale romana corrotta per entrare proditoriamente in città (Liv. I 11, 6). Nell’ultimo re di Roma vi è dunque qualcosa di estraneo, di non romano: non è un caso che da Livio Tarquinio il Superbo sia considerato figlio di Tarquinio Prisco, di origine greco-etrusca (Liv. I 46, 4; 47, 4-5).

    Contro gli eccessi della critica novecentesca (Ettore Pais) la presa di Gabii ad opera di Tarquinio oggi non è considerata sprovvista di realtà. Nel racconto liviano Sesto Tarquinio, il minore dei figli di Tarquinio il Superbo, d’accordo col genitore, si rifugia a Gabii fingendo di fuggire dalla crudeltà e dalla superbia del padre, deciso a non lasciare nessun discendente sul trono, nessun erede al trono. Con vari argomenti Sesto riesce a convincere i Gabini. Inoltre, si dichiara sempre d’accordo con gli anziani per le questioni interne, consigliando la guerra contro Roma, certo che la superbia del re (superbiam regiam) sia invisa ai cittadini romani non meno che ai figli del re. A poco a poco Sesto incita alla guerra i più importanti e ragguardevoli Gabini (primores Gabinorum), e si conquista la nomina a dux belli  grazie a piccole vittorie sui Romani, che gli fruttano la fiducia di tutti i Gabini (summi infimique), ormai convinti che Sesto sia stato loro mandato dagli dèi. Ma la sua autorità si estende anche ai soldati, che giungono ad amarlo per la sua prontezza nell’affrontare pericoli e fatiche, e per la sua generosità. Difatti Sesto è arbitro della situazione a Gabii, non meno potente del padre a Roma. I due sono in equilibrio sulla bilancia del potere. Ma questo equilibrio presto si rivela instabile, e la bilancia pende dalla parte di Tarquinio a Roma. Sesto, secondo il piano suggerito dal padre, è al punto culminante, è pronto a tutto (ad omnes conatus). A questo punto manda a Roma uno dei suoi uomini per chiedere al padre il da farsi. Ecco come prosegue Livio (I 54):

    Huic nuntio, quia, credo, dubiae fidei videbatur, nihil voce responsum est; rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse. Interrogando exspectandoque responsum nuntius fessus, ut re imperfecta, redit Gabios; quae dixerit ipse quaeque viderit refert; seu ira seu odio seu superbia insita ingenio nullam eum vocem emisisse. Sexto ubi quid vellet parens quidve praeciperet tacitis ambagibus patuit, primores civitatis criminando alios apud populum, alios sua ipsos invidia opportunos interemit. Multi palam, quidam in quibus minus speciosa criminatio erat futura clam interfecti. Patuit quibusdam volentibus fuga, aut in exsilium acti sunt, absentiumque bona iuxta atque interemptorum divisui fuere. Largitiones inde praedaeque; et dulcedine privati commodi sensus malorum publicorum adimi, donec orba consilio auxilioque Gabina res regi Romano sine ulla dimicatione in manum traditur.

    “A questo messaggero, poiché (credo) gli sembrava di dubbia fiducia, Tarquinio non rispose nulla a voce. Il re, come se meditasse una risposta, passa nel giardino del palazzo, seguito dal messaggero del figlio; qui, passeggiando in silenzio, si dice (dicitur) abbatté col bastone (baculo decussisse) le teste più alte del papaveri (summa papaverum capita), Il messaggero, stanco di porre domande e di aspettare risposte, torna a Gabii, come se l’incontro col re non avesse dato esito. Dal canto suo riferisce quel che aveva detto e quel che aveva visto: il re sia per ira, sia per odio, sia per naturale superbia del suo carattere, non aveva fatto parola. Non appena Sesto ebbe chiaro che cosa il padre volesse e che cosa gli ordinasse col suo gesto allusivo e silenzioso (tacitis ambagibus), fece uccidere i cittadini più importanti (primores) della città incriminandone alcuni presso il popolo, altri approfittando dell’invidia che si erano attirati da soli. Alla fine dopo fughe, esili, spartizioni di beni, largizioni e ruberie, la città di Gabii venne consegnata nelle mani del re di Roma senza alcun tipo di lotta” (sine ulla dimicatione, e cioè, appunto non secondo lo stile romano).

    Non c’è dubbio che il racconto di Livio su questa scena evoca una tradizione precedente, visto il “si dice” in riferimento al comportamento di Tarquinio coi papaveri. Che la fonte sia Erodoto e l’imitazione puramente letteraria, come si è a lungo sostenuto e talora si continua ancora a sostenere, è però opinione affrettata e sommaria. L’Io dello storico (credo) emerge esplicitamente quando esprime il suo parere sulla mancanza di fiducia del re nei confronti del messaggero di Sesto. È dunque all’opera uno storico finemente psicologo, che esprime la sua opinione su una “storia tradizionale”, di fonte annalistica, corrente verso la fine del I a.C. Ma l’idea che la presa di Gabii sia una mera trascrizione in latino di due episodi erodotei, cara alla critica otto-novecentesca, sembra decisamente da abbandonare (Hdt. III 154 Zopiro per Sesto; V 92, 6 Trasibulo di Mileto per Tarquinio). Il caso del “falso disertore” è comune all’orizzonte culturale dei Greci fin da Ulisse e, in Virgilio Aen. II 57-198, Sinone. Zopiro si automutila orecchie e naso, fingendosi disertore così ridotto da Dario diversamente da Sesto che non si automutila. Anche Cesare offre diversi casi di falsi disertori.

    A livello narratologico si è voluto vedere, nell’intento di Livio, l’idea di centrare tutta l’attenzione su Sesto come vero protagonista del racconto, mentre Tarquinio sarebbe relegato e liquidato in una sola frase; altri hanno giudicato Sesto e Tarquinio “di ugual peso”, il che è vero ma solo fino a un certo punto, ossia fino a quando Sesto a Gabii e Tarquinio a Roma sono alla pari. Valerio Massimo riassumerà in una frase fulminante la correlazione figlio-padre, che vede un’equa distribuzione delle parti: “Alla furberia giovanile rispose la scaltrezza del vecchio” (iuvenili calliditati senilis astutia respondit, VII 4.2). Ma in Livio Sesto rappresenta l’azione e, invece di essere il protagonista, si inserisce in una triade narrativa  fatta di Sesto, del messaggero e di Tarquinio, dove il re rappresenta la mente, Sesto il braccio e il messaggero è — in teoria — il mediatore. Il gioco è in mano a Tarquinio e, sotto questa luce, il suo ruolo diventa per Livio particolarmente importante. È un fatto che Sesto a Gabii, ormai padrone della situazione, manda il messaggero al padre per chiedergli “che cosa mai volesse che egli facesse”.

    Apparentemente il re non risponde. Passeggia nel suo giardino come se riflettesse sulla risposta da dare (deliberabundus), una risposta sicuramente non pacifica (deliberatio come riflessione in vista della guerra, I 23, 8). Ha attirato l’attenzione l’ambientazione dell’episodio nel hortus, annesso a o compreso nella casa di Taquinio, considerato come luogo di solitudine e di ritiro per il capo famiglia. Ma un giardino non è inimmaginabile nella reggia di un re; gli scavi hanno messo in luce due horti nella Regia dell’epoca di Tarquinio, sulle pendici settentrionali del Palatino, risalente all’ultimo quarto del VI a.C.

    Il messaggero segue il re e guarda la scena: Tarquinio passeggia in silenzio e col bastone abbatte “le teste più alte dei papaveri” con un colpo secco come fa il fulmine che abbatte torri e acroteri (Livio XXV 7, 8. Ovidio Fast. II 687-710 sostituisce  ai papaveri i gigli, ma conserva il verbo decussa lilia v. 707). Sia nel verbo decussit sia nella precisione di teste svettanti, che torreggiano sui gambi, si dà ai papaveri una maestosità che certamente fa pensare al Papaver somniferum di Linneo, ossia al papavero da oppio, non certo al Papaver rhoeas, il nostro “rosolaccio”. Per essere più precisi: il colpo del bastone va a segno se la capsula è matura, ma Livio non si perde in precisazioni, presupponendo la conoscenza di tale pianta nei suoi lettori.  In Erodoto Trasibulo, tiranno di Mileto (potente città ionica dell’Asia Minore), condotto l’inviato di Periandro in un campo coltivato, mentre vi passeggia, “fa reiterate domande al messaggero”, punteggiando ogni risposta col gesto di recidere e buttar giù le spighe più alte e più ricche di grani (Hdt. V 92, 6); Trasibulo spezza con le mani le spighe di grano, Tarquinio con il bastone le teste più alte dei papaveri coltivati. Trasibulo pone continuamente domande, Tarquinio tace ostinatamente. Alla fonte di Livio evidentemente apparve più consono al temperamento impassibile e superbo del re romano non chinarsi a rompere con le mani le capsule di papavero, ma maneggiare con precisione calcolata e inesorabile il bastone, così come gli si addice di più il giardino regale che il campo extraurbano coltivato a grano di Mileto.

    A questo punto subentra il messaggero, il terzo personaggio dell’evento. Alle sue reiterate domande Tarquinio oppone un muro di silenzio. Risultato: la res è imperfecta, il messaggero è un falso mediatore. Ma di fatto la missione è riuscita a metà. Nel messaggero il ruolo di mediatore fra Sesto e Tarquinio si esplica meccanicamente quando riferisce esattamente l’accaduto, ma sul silenzio di Tarquinio egli azzarda solo ipotesi: ira, o odio, o superbia innata di carattere. Ira o odio verso chi? Il figlio che ha avuto successo? Il messaggero gabino troppo insistente? Da questo profilo emergono difetti caratteriali non molto lontani da quelli che la tradizione di Cicerone attribuiva al Superbo, ossia la superbia, l’intrattabilità, l’insolenza dovuta alle ricchezze conquistate, l’incapacità di controllare i mores, per cui fu ampiamente detestato. Per la verità va notato che nella superbia insita nel carattere di Tarquinio c’è una tonalità non del tutto negativa, per esempio Virgilio, presentando tra le anime  di personaggi importanti che si parano davanti a Enea agli Inferi “i re Tarquini e l’anima superba”, dà rilievo a una connotazione caratteriale e congenita del personaggio che non sembra valutata negativamente. Anche Orazio ricorda, in un elenco encomiastico, i superbos Tarquini fasces, che probabilmente alludono a Tarquinio il Superbo. Questa superbia innata cui il messaggero — nel colloquio con Sesto — attribuisce l’ostinato silenzio di Tarquinio sembra in contrasto con la superbia regia (I 53) che, nelle parole di Sesto (memore della tradizione repubblicana di Cicerone) è invisa ai cittadini di Roma come già ai figli del re, perché ha una componente di crudeltà. Ancora e più precisamente: Sesto presso i Gabini definisce il padre superbissimus rex, di nuovo memore di Cicerone. Impossibile per il lettore non pensare al soprannome di Superbus che, secondo le parole di Livio stesso, non è che il risultato della condotta astuta e crudele di Tarquinio (cui Superbo cognomen facta indiderunt).

    Un silenzio, sia pure ostinato, è sempre un non fatto, sembrerebbe un non agire, e tuttavia il non agire è solo apparente. Con il suo gesto eloquente il re di fatto agisce: oscuramente, tortuosamente e inesorabilmente. Dopo Livio sarà Plinio il Vecchio, nat. XIX 169, a sottolineare questo aspetto:

    Tarquinius Superbus […] legatis a filio missis decutiendo papavera in horto altissima sanguinarium illud responsum hac facti ambage reddidit.

    “Tarquinio il Superbo […] ai legati mandati dal figlio, abbattendo i papaveri più alti [manca la menzione del bastone], che si trovavano nel suo giardino, diede quella famosa risposta sanguinaria con questa tortuosità del suo gesto” (hac facti ambage).

     In Livio Sesto non si ferma all’interpretazione emozionale del messaggero, ma cerca di decifrare il significato recondito del messaggio. La volontà o l’ordine del padre (quid vellet parens quidve praeciperet) gli appaiono a poco a poco chiari attraverso le silenziose tortuosità del messaggio allusivo (tacitis ambagibus). C’è evidentemente qualcosa di etrusco in Tarquinio, se si pensa che, per Livio, è l’aruspice etrusco che profetizza oscuramente per ambages, anche se le tortuosità di Tarquinio sono ancora più fuorvianti e difficili da decifrare, perché mute: un bastone che abbatte le teste più alte dei papaveri.

    Sesto finalmente capisce ed esegue: i papaveri sono i primores della città di Gabii. C’è dunque una perfetta corrispondenza fra i più alti papaveri e i primores gabini e, ancora una volta, si impone l’immagine del Papaver somniferum per dare al gesto del re, qui il vero protagonista, tutto il suo valore icastico, memorabile e sensazionale, destinato a diventare proverbiale.

    Livio non giudica negativamente il comportamento bellico di Tarquinio, ma usa una litote (I 53, 1: Nec ut iniustus in pace rex, ita dux belli pravus fuit; Livio lo dice quindi nec pravus, “non malvagio”); e la presa di Gabii non è un’impresa bellica alla Romana, bensì all’insegna di frode e inganno. Sesto agisce, ma è Tarquinio che comanda la strage dei primores di Gabii, causa della caduta della città.Tarquinio qui è realmente Superbus per la sua condotta, in armonia con la tradizione repubblicana (Cicerone). L’interpretazione del messaggero della superbia caratteriale come possibile causa di un silenzio assoluto e sprezzante, pur coeva a Livio, non è accettata come scusante. Dionigi di Alicarnasso, che tratta lungamente l’episodio (Ant. Rom. IV 56) supera il pessimismo etico di Livio e ne dà un’interpretazione politica sul filo di un’informazione dettagliata. In funzione di questo scopo portante, caro anche al suo pubblico colto, Dionigi organizza i dati dell’annalistica e dell’antiquaria, secondo la sua logica del racconto.

    In perfetto stile liviano, un umanista romano del calibro di Lorenzo Valla (1407-1457), nel De falso credita et ementita Constantini donatione, § 80, evoca l’exemplum di Tarquinio e i papaveri in chiave negativa per bollare i papa tirannici di Roma:

    Is fuit Bonifacius nonus, octavo in fraude et nomine par, si modo Bonifacii dicendi sunt qui pessime faciunt. Et cum Romani deprehenso dolo apud se indignarentur, Bonifacius Papa, in morem Tarquinii, summa quaeque papavera virga decussit. Quod cum postea, qui ei successit, Innocentius imitari vellet, urbe fugatus est.

    “Tale fu Bonifacio IX [1389-1404], pari all’VIII per frode e per nome — se pure si possono chiamare Bonifacii quelli che fanno i peggiori mali —e quando i Romani, scoperto l’inganno, se ne sdegnarono fra loro, il buon papa, a mo’ di Tarquinio, abbatté con la verga i più alti papaveri. Quando Innocenzo VII [1404-1406], suo successore, volle imitare questo comportamento, fu costretto a fuggire dalla città”.

    Ben diversamente da Valla utilizza l’exemplum di Tarquinio Cesare Ripa (nato a Perugia nel 1560), memore forse di Machiavelli (1469-1527) nel configurare la personificazione allegorica della Ragione di stato. Infatti Ripa la rappresenta come una donna armata di elmo, corazza e scimitarra, in atto di abbattere con una bacchetta i più alti papaveri, ben caratterizzati dalla capsula ovoidale.

    Segue l’interpretazione positiva di questo gesto secondo Ripa:

    “I papaveri gettati per terra […] significano, che chi si serve della ragione di stato non lassa mai sorger persona che possa molestarlo, à somiglianza della tacita risposta data da Tarquinio al messo del suo Figliuolo. Rex velut deliberabundus… decussisse; parole di T. Livio nel primo lib. Decade prima”.

    I papaveri nel giardino di Tarquinio

    A sentire l’ipercritica novecentesca (Pais) questi papaveri sarebbero un’invenzione di Livio a partire da un episodio riguardante la vita religiosa della giovane repubblica romana, che ha per protagonista Lucio Giunio Bruto, colui che scacciò Tarquinio il Superbo e i suoi da Roma, noto soprattutto come vindice di Lucrezia violata da Sesto. Si tratta della festa dei Compitalia, di cui ci informa Macrobio nei suoi Saturnalia (I 7, 34-35):

    “[Nelle feste note col nome di Compitalia, che avevano luogo ai crocicchi della città] si celebravano giochi istituiti, come è noto, da Tarquinio il Superbo in onore dei Lari e di Mania, in seguito a un oracolo di Apollo, che aveva prescritto di fare offerte propiziatorie in favore delle teste con teste (ut pro capitibus capitibus supplicaretur). La prescrizione fu osservata per qualche tempo sì che, per la buona salute dei familiari, si sacrificavano fanciulli alla dea Mania, madre dei Lari. Il console Giunio Bruto, scacciato Tarquinio, stabilì che questo tipo di sacrificio andasse eseguito diversamente. Infatti prescrisse di fare offerte propiziatorie con teste di aglio e di papavero (capitibus alii et papaveris). Si ubbidiva così al responso di Apollo che parlava di teste, allontanando cioè il misfatto di un sacrificio funesto”.

    I Compitalia erano una festa rustica di capodanno; comprendevano un sacrificio ai Lares viales, una sorta di protettori di un determinato territorio, chiamati anche Lares compitales, venerati in edicole più o meno modeste situate in corrispondenza dei crocicchi. Qui la gente di campagna usava sacrificare alla fine dell’anno agricolo (finita agri cultura).

    La teoria riduzionistica di Pais ha avuto successo per tutto il Novecento, al massimo con l’aggiunta di identificare in qualche annalista d’età repubblica (e in particolare in Valerio Anziate) la possibile fonte dell’episodio. Va invece escluso che Tarquinio abbia imitato Giunio Bruto, così come va preservata la logica del racconto: Giunio Bruto fa sua la concezione delle teste di aglio e di papavero come surrogato di teste umane. D’altronde, s’addice al carattere rustico della festa la scelta di due prodotti dell’orto, come aglio e papavero. L’aglio era considerato quasi il simbolo degli antenati romani che, pur odorando di aglio e di cipolla, erano coraggiosi e virtuosi (Varro Men. fr. 63 Astbury, apud Nonio, p. 297 Lindsay: avi et atavi nostri, cum alium ac cepe eorum verba olerent, tamen optume animati erant). Numa, a Giove che gli ha chiesto di tagliare per lui una testa, ribatte: “Obbedirò, dovrò tagliare una cipolla del mio orto”: ma Giove precisa “Di uomo” (Ov. Fast. III 339-341). Aglio, cipolla, capsula di papavero funzionano dunque davvero come teste.

    Per quanto riguarda il papavero si pone la domanda: perché mai nel giardino di Tarquinio venivano coltivati papaveri da oppio? Una certa rusticità del particolare richiama alla mente il vecchio di Corico in Virgilio, georg. IV 131, che coltiva fra l’altro in pochi iugeri di terreno rade file di ortaggi, di verbene e, intorno, bianchi gigli e il papavero. A sentire Plinio il Vecchio i papaveri coltivati furono sempre apprezzati presso i Romani e la prova sarebbe proprio Tarquinio il Superbo e i papaveri del suo giardino. La causa di questo apprezzamento non è solo la bellezza  strepitosa del fiore di papavero da oppio, bellezza che indusse l’artista del giardino figurato della villa di Livia a Prima Porta a includere un papavero dai petali viola chiaro. Plinio menziona anche l’uso antico di mangiare semi di papavero con miele nella secunda mensa, ossia al dessert che, presso i Romani, constava di frutta fresca e secca (datteri per esempio), ma anche di miele, ed era generalmente accompagnato da grandi bevute, qualcosa di paragonabile alla deutéra tràpeza dei Greci. Di certo questo uso s’addice a Tarquinio, ma anche l’abitudine dei contadini di insaporire con semi di papavero la crosta del pane spalmata d’uovo. Orazio, ars 375, considera che a una tavola fine non s’addica la mistura di papavero con miele sardo, che era considerato amaro. Sempre in ambito culinario non va dimenticato che già Catone, agr. 84, ricordava l’uso di insaporire con semi di papavero polpette fritte di formaggio e spelta spalmate di miele e il savillum, una sorta di frittata spalmata di miele. Non vanno infine dimenticate le proprietà medicinali del papavero, vantate da Plinio nel passo cui mi sono più volte richiamata.

    Nel giardino di Tarquinio  viene dunque dato spazio a una pianta utile, visto che se ne attende la maturazione e il momento della raccolta. Una pianta di larga diffusione, interclassista, buona per il dessert della secunda mensa come per il pane, le polpette e la frittata al miele. Rispetto a Trasibulo, si nota nei papaveri una specificità romana, forse di derivazione etrusca, se si pensa che a Tarquinia sono stati trovati semi di papavero.

    © Giampiera Arrigoni, 2018

  • Giugurta

    Giugurta

    Nel momento in cui scrivo, la voce di Wikipedia dedicata a Giugurta ricorda, al capitolo “Nella cultura di massa”, la ben nota monografia di Sallustio e “un poemetto in latino, di 131 esametri, di Giovanni Pascoli (Iugurtha, 1896)”. Vorrei dedicare questo post a un altro poemetto latino, intitolato anch’esso Iugurtha, risalente al 1869. Ne è autore Arthur Rimbaud, all’epoca poco più che quindicenne (1854-1891). Prima di iniziare a poetare in francese, infatti, Rimbaud poetò in latino, ovviamente spinto a ciò dalla scuola e dall’esercizio di composizione in versi che, nella prassi ottocentesca, era la dimostrazione somma e suprema della propria competenza linguistica. Di Rimbaud poeta latino abbiamo cinque composizioni, tutte nate fra i banchi di scuola, a Charleville, e tutte risalenti al periodo 1868-1870. Nel biennio 1869-1870 Rimbaud, già dedito alle prime fughe parigine, compose in latino e contemporaneamente anche in francese. Dal 1870 e fino al 1874 le composizioni di Rimbaud saranno solo in francese. Dopo quella data, si dedicherà ad altro, abbandonando definitivamente la poesia.

    Ora, al liceo di Charleville le composizioni migliori venivano premiate ed erano poi pubblicate su un giornale edito nella vicina Douai, Le Moniteur de l’Enseignement. E’ successo così che, andati perduti gli archivi personali di Rimbaud e quelli del liceo (la zona di Charleville è stata teatro di combattimenti sia durante la I che la II guerra mondiale), si sono salvate solo le cinque composizioni premiate e ritrovate negli archivi del Moniteur. Sappiamo però, dalla corrispondenza del poeta, che in origine i testi erano più numerosi. La loro raccolta si deve a uno studioso francese, Jules Monquet, che li ha pubblicati nel 1932, con il titolo di Vers de Collège – edizione inevitabilmente scorretta, che è stata poi perfezionata una volta che i testi sono stati accolti nell’edizione Gallimard della “Bibliothèque de la Pléiade” nel 1946 (ad opera dello stesso Monquet) e, in Italia, nel volume dedicato a Rimbaud per i “Meridiani” di Mondadori (a cura di Diana Grange Fiori). In entrambe queste occasioni, all’edizione “secca” del testo si accompagnava una traduzione, peraltro non priva – almeno quella italiana – di fraintendimenti. Il lettore nostrano può però contare sull’ottimo volume dedicato da Giampietro Marconi alle Poesie latine di A. Rimbaud (così recita il titolo), Pisa-Roma 1998. Ad esso mi rifaccio ampiamente, pur con qualche occasionale dissenso, che si evince dalla traduzione che propongo e che mi riservo di motivare in altra sede, con un apposito commento.

    Prima di passare al testo in questione, ricordo che il latino di Rimbaud è generalmente corretto (con qualche licenza nella sintassi, cosa del resto comune nella lingua poetica, e una serie di costrutti “tardi”, del tipo participio + fui/fueram anziché sum/eram); corretta è anche la metrica (tutti i 286 vv. a noi noti sono esametri). Proprio la composizione che prenderò in esame, la terza del gruppo, è però la più scorretta. In una sorta di ritornello, compare infatti più volte l’aggettivo Arabius con la prima vocale lunga, come in Properzio I 14,19 (in Virgilio, Eneide VII 605 è breve). Al v. 80 His et immensa magnus tellure, sacerdos, la congiunzione et è scandita come lunga, senza nessuna ragione plausibile. Gli editori sono intervenuti emendando, pensando a una svista tipografica (l’edizione del Moniteur  è spesso discutibile), ma io ho preferito conservare il testo così come è. Infine, al v. 61 imperatoris in clausola è improponibile (imperator è un noto esempio di parola “impoetica” proprio per ragioni metriche). Rimbaud considera infatti breve la –a– centrale, che invece è lunga. Sono però piccole pecche, rispetto a un testo che a me pare notevolissimo. E’ evidente che in classe si era letto Sallustio, più volte riecheggiato. Non mancano nemmeno i rimandi virgiliani, a volte veri e propri calchi o trasposizioni di iuncturae. Però, di fronte a titolo (e tema) che invitavano a parlare di Giugurta, la scelta del quindicenne poeta è fuori dall’ordinario.

    Rimbaud infatti non dedica la composizione direttamente a Giugurta, ma a un suo lontano discendente ed imitatore, Abd-el-Kàder (1808-1883), emiro algerino che si era ribellato al tentativo di annessione dell’Algeria da parte della Francia nel 1830; aveva obbligato le truppe di Luigi Filippo a una pace non decisiva nel 1837; era stato infine sconfitto e fatto prigioniero (internato a Tolone, Pau e infine Amboise), nel 1847. Con la caduta di Luigi Filippo nel 1848, la Seconda Repubblica e il colpo di Stato del 1852, Abd-el-Kàder venne rimesso in libertà da Napoleone III e si ritirò quindi a Damasco, dedicandosi alla religione e alla filosofia. Ebbe un ritorno di fiamma nel 1860, quando intervenne a difesa degli Europei assaliti dai guerrieri Drusi in Siria, meritandosi così la Legione d’Onore. Rimbaud sottolinea soprattutto il parallelismo fra questo “discendente” e il Giugurta storico: come il suo “avo”, anche Abd-el-Kàder combatté, piccolo Davide, contro un gigantesco Golia; si ribellò al protettorato di una nazione più forte; rivendicò libertà e autonomia; sfruttò ampiamente la tattica della guerriglia sugli altopiani algerini; si fidò a proprio danno di un alleato marocchino; venne sconfitto dopo la nomina a governatore dell’Algeria di un generale di ferro, Thomas Robert Bugeaud (1784-1849). La sceneggiatura impressa al racconto da Rimbaud prevede che sulla culla del piccolo Abd-el-Kàder si pieghi l’ombra del Giugurta storico, che vaticina il futuro del bimbo e rievoca per allusioni la propria vicenda terrena. Nella seconda sezione, assai più breve, viene ricordata la prigionia sul suolo francese ed è invocato Napoleone come un liberatore. Nel carcere, Giugurta appare una seconda volta al suo lontano discendente, e questa volta lo esorta ad accettare la supremazia francese e ad accordarsi con quella. La terza sezione è fatta di un unico verso, a mo’ di suggello sibillino: contraddicendo, credo, quanto appena detto, Giugurta invita Abd-el-Kàder a considerarlo pur sempre il Genio della sua nazione, con un implicito consiglio a non lasciare perdere la lotta. Marconi nel suo commento insiste su due punti: la serie di giochi fonici, allitterazioni, presenze vocaliche ecc. che anticipano nel Rimbaud latino il Rimbaud francese. La lettura, per me non troppo convincente, in chiave di anticolonialismo inglese, da contrapporre a un “colonialismo dal volto buono”, che sarebbe quello francese. Ma l’Algeria era colonia francese, non inglese. E se Luigi Filippo (mai nominato, peraltro) si può contrapporre, nel testo, a Napoleone III, resta che la composizione ha senso nel possibile parallelo fra la Roma di Sallustio e la nuova Roma, alias Parigi, che della prima ricalca orme e difetti. E questa, da parte di uno studente quindicenne, non era impresa da poco.

    Lascio il testo come allegato pdf, dividendolo per sezioni, grazie alla presenza costante di un ritornello. A ogni sezione faccio seguire la sua traduzione. Buona lettura a tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    rimbaud, iugurtha, 1869

     

  • Il principe taumaturgo

    Il principe taumaturgo

    In un saggio pubblicato nel 1924, Les Rois thaumaturges, Marc Bloch (1886-1944) ricostruì la vicenda dei re taumaturghi, ossia i Cristianissimi sovrani francesi, che, fra le qualità derivanti loro dal potere regale – e che, allo stesso tempo, attestavano il loro diritto al titolo regale – vantavano la capacità di guarire le scrofole con la semplice imposizione delle mani sul viso degli ammalati. Nel volume Bloch ricostruisce, su un numero sterminato di fonti sparse (documenti d’archivio, resoconti di cronaca, memoriali, giornali di viaggio dei malati in cerca di guarigione ecc.), le origini di questa idea e la sua evoluzione, oltre a un congruo numero di casi paralleli che servivano allo stesso scopo. Il favore divino presupposto da un simile meccanismo è, nella ricostruzione di Bloch, un fenomeno tipicamente francese, favorito dal clero gallicano e ispirato alla conversione di Clodoveo: il quale fu unto re direttamente dallo Spirito Santo, e non dalla mano del Papa; il che avrebbe dato poi origine a un legame privilegiato fra divinità e regalità.

    Una meravigliosa, ma non troppo conosciuta, pagina di Tacito (hist. IV 81) offre un interessante parallelo. La riporto per intero:

    Per eos mensis quibus Vespasianus Alexandriae statos aestivis flatibus dies et certa maris opperiebatur, multa miracula evenere, quis caelestis favor et quaedam in Vespasianum inclinatio numinum ostenderetur. E plebe Alexandrina quidam oculorum tabe notus genua eius advolvitur, remedium caecitatis exposcens gemitu, monitu Serapidis dei, quem dedita superstitionibus gens ante alios colit; precabaturque principem ut genas et oculorum orbis dignaretur respergere oris excremento. Alius manum aeger eodem deo auctore ut pede ac vestigio Caesaris calcaretur orabat. Vespasianus primo inridere, aspernari; atque illis instantibus modo famam vanitatis metuere, modo obsecratione ipsorum et vocibus adulantium in spem induci: postremo aestimari a medicis iubet an talis caecitas ac debilitas ope humana superabiles forent. Medici varie disserere: huic non exesam vim luminis et redituram si pellerentur obstantia; illi elapsos in pravum artus, si salubris vis adhibeatur, posse integrari. Id fortasse cordi deis et divino ministerio principem electum; denique patrati remedii gloriam penes Caesarem, inriti ludibrium penes miseros fore. Igitur Vespasianus cuncta fortunae suae patere ratus nec quicquam ultra incredibile, laeto ipse vultu, erecta quae adstabat multitudine, iussa exequitur. Statim conversa ad usum manus, ac caeco reluxit dies. Utrumque qui interfuere nunc quoque memorant, postquam nullum mendacio pretium.

    Dunque, Vespasiano – partito da Gerusalemme alla volta di Roma – non ha troppa fretta di arrivare in Italia, dove le truppe di Antonio Primo gli hanno conquistato la porpora imperiale e il figlio Domiziano governa in suo nome, con l’appoggio di Muciano. Siamo nel 69 d.C. Ad Alessandria Vespasiano è stato proclamato imperatore il 1 di luglio; da Alessandria partirà solo alla fine dell’estate, alla volta di Rodi prima, della Grecia continentale poi, per arrivare  in Italia nella primavera dell’anno successivo. Del lungo soggiorno alessandrino Tacito mette in evidenza l’episodio che ci interessa. Appena proclamato princeps, Vespasiano ha la possibilità di confermare le sue pretese con dei miracula che poco hanno in realtà di miracoloso (i medici interpellati ne offrono infatti una spiegazione razionale), ma che si inseriscono pienamente nel colore locale, entro le credenze di una popolazione definita con un po’ di disprezzo come dedita superstitionibus e avvicinata così a una tipologia orientale. Eppure, Tacito non mette in dubbio la storicità dell’avvenimento: anche a distanza di tempo, dice, chi fu testimone lo racconta come vero, sebbene – scomparso Vespasiano nel 79, i figli Tito e Domiziano nell’81 e nel 96, i motivi per l’adulazione siano venuti ormai meno (nunc quoque dice Tacito, senza specificare a quale data si debba riferire questo nunc: le Historiae sono comunque comunemente datate intorno al 110, oltre quarant’anni dopo gli avvenimenti narrati).

    La pagina ha il sapore dell’aneddoto, un exemplum intriso di retorica. Tacito fa uso di forme della lingua poetica (gli arcaizzanti quis per quibus, forent per essent e fore per futurum esse; i molti perfetti in –ēre;  l’accusativo di relazione manum aeger; un certo gusto per la perifrasi, per cui Vespasiano, anziché attendere i venti estivi e il mare calmo, aspetta i statos aestivis flatibus dies et certa maris…). Non mancano nemmeno gli elementi più tipici di una narrazione storica: infiniti al posto degli indicativi (inridere, aspernari, metuerein spem induci); parallelismi (quidam…alius, poi ripreso da huic…illi); oggettive per lungo tratto messe in dipendenza da un’espressione di dire come medici varie disserēre ecc. Significativo è il parallelo con il Vangelo di Giovanni, 9.6-7, anche in qualche forma espressiva: pure in quel testo il Cristo, richiesto di guarigione da un cieco, tale fin dalla nascita, manifesta la sua divinità sputando per terra, facendo del fango con la saliva, spalmandolo sugli occhi del disabile e invitando poi quest’ultimo a lavarsi nella piscina di Siroe.

    A Tacito però interessa soprattutto raffigurare la corte degli adulantes che circondano il nuovo imperatore e lo spingono a cimentarsi nell’azione richiesta. Campeggia nella descrizione anche il carattere cauto e pragmatico dell’imperatore, che teme l’insuccesso, non vuole esporsi inutilmente, è tentato dalla possibilità di successo, ma si cautela contro gli imprevisti con la richiesta di un parere preventivo ai medici del suo seguito, e infine si convince alla prova solo quando gli viene fatto osservare che dall’eventuale insuccesso nessun danno deriverebbe a lui personalmente, mentre sarebbe stato facile rovesciarne la responsabilità sui questuanti. L’aneddoto si configura così  come il prodotto ben riuscito di un perfetto ufficio stampa, come lo chiaremmo noi oggi, che sa quale partito trarre dall’esito positivo dell’impresa (patrati remedii gloria penes Caesarem), ma sa anche, e soprattutto, perché questa è poi la cosa più importante, come scaricare sugli altri l’eventuale insuccesso (inriti remedii ludibrium penes miseros). Siamo, con straordinario anticipo sui tempi, alle origini della civiltà dell’immagine. E che i medici siano subito pronti, pur nel loro varie disserĕre, ad assicurare la possibilità di riuscita (visto che nessuno dei due infermi è propriamente tale: l’uno e l’altro soffrono solo di mali temporanei e facilmente rimovibili, il che fa sospettare che siano stati scelti ben ad arte), lascia non pochi dubbi sulla regia che deve avere operato alle spalle della vicenda. Certo, Tacito lo ribadisce nel finale, a quarant’anni di distanza i (si immagina, pochi) testimoni sopravvissuti ancora garantiscono della veridicità dell’episodio: ma “il trucco” di un episodio spettacolare è, come ben sappiamo, alle spalle dello spettacolo stesso, e non nello spettacolo in sé. Più cauto, o meno esperto, o forse solo più sornione, Tacito si limita a suggerire una simile idea, lasciando al lettore il piacere di arrivare a sospettarla da solo. Vespasiano, del resto, era forse il meno peggio degli imperatori di cui ci ha narrato la storia. Ma meno peggio non significa migliore, e nello specifico non significa privo di furbizia e abilità nel costruire la propria immagine. Diffidate gente, diffidate…

  • Nel nome di Augusto

    Nel nome di Augusto

    Nel giorno che la tradizione riconosce come sacro alle Feriae Augusti (una serie di giorni festivi istituiti da Ottaviano nel 18 a.C., ma fissati intorno al 15 agosto solo in età medievale), ecco un piccolo omaggio musicale ad Augusto, nel nome di quella continuità fra classici e contemporanei e dei processi – complessi e mai banali – che collegano gli antichi a noi, attraverso i secoli e le culture. Si tratta del finale dell’opera Antony and Cleopatra di Samuel Barber (1910-1981), prolifico musicista americano, noto in Italia soprattutto per il suo Adagio per archi, in realtà parte di un quartetto trasformata poi in composizione autonoma per orchestra d’archi su consiglio di Gian Carlo Menotti (1911-2007) e spesso utilizzata come colonna sonora in numerosi film – in particolare, citerei Platoon di Oliver Stone, 1986.

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    Barber scrisse il testo che ci interessa nel 1966, su commissione della Metropolitan Opera di New York. La mia scelta è volutamente polemica: Ottaviano, come tutti i componenti della dinastia giulio-claudia, è personaggio di diversi drammi musicali, già a partire dal XVII secolo; ma le composizioni più interessanti sono, a mio parere, quelle dedicate ai suoi antagonisti. Dal punto di vista del metodo, Barber ci mette invece in guardia dai facili accostamenti fra ciò che antico e ciò che è moderno, senza tenere conto degli infiniti passaggi intermedi. Nella fattispecie, il passaggio intermedio si riconosce senza problemi: l’opera ha ambientazione antica e segue, con qualche licenza, i fatti storici e le fonti che ce li narrano; ma la sua fonte prima è, ovviamente, l’omonima tragedia di William Shakespeare (1607 ca.).

    Con pragmatismo tutto americano, il pur austriaco di nascita Rudolf Bing (1902-1997), allora General Manager del MET (come è comunemente chiamata la Metropolitan Opera), era riuscito a convincere i finanziatori del teatro della necessità di riformare l’antica costruzione del 1883, già rifatta dopo un incendio nel 1903 e modificata ulteriormente nel 1940. Anziché limitarsi a una serie di adeguamenti tecnici, questa volta si decise però di abbattere al suolo l’intero edificio sito all’altezza della 40th West di Manhattan, per costruirne uno tutto nuovo poco più a nord, all’altezza della 65th West, fra Columbus Avenue e Amsterdam Avenue, dove l’arteria di Broadway interseca trasversalmente la prima delle due. Il blocco di terreno edificabile divenne così il Lincoln Center (dal nome della vicina Lincoln Square), una serie di costruzioni dove hanno casa, ognuna indipendente dall’altra, eppure ognuna collegata all’altra, sia pure in edifici propri, la New York Philharmonic Orchestra; il New York City Ballet; fino a qualche anno fa anche la New York City Opera, ora chiusa per fallimento; vari teatri per il musical (come il Vivian Beaumont Theatre) o per eventi estemporanei (Damrosch Park); una cineteca (Elinor Bunin Monroe Film Center); una biblioteca musicale (New York Public Library for the Performing Arts); e, accostati a questi, la Fordham University e la Juilliard School, il più celebre Conservatorio del nuovo continente. Al centro di tutto sta l’Opera, costruita su disegno di Wallace Kirkman Harrison (1895-1981), abbellita dalle grandi vetrate da cui si affacciano i murales di Marc Chagall (1887-1985), ben visibili nella foto di copertina (quello rosso, a sinistra, dal titolo Il trionfo della musica; quello giallo, a destra, dal titolo Le fonti della musica). Il nuovo teatro, grandissimo (ca. 4000 posti), e multifunzionale (durante la stagione, da settembre a maggio, vanno in scena ca. 30 titoli, con sette rappresentazioni a settimana, due al sabato, riposo alla domenica), venne inaugurato nel 1966 con un’opera che si volle appositamente composta per l’evento, da un compositore americano. Si tratta, appunto, della nostra Antony and Cleopatra. Direttore della serata, prescelto da subito (anzi, si dice che sia stata sua l’idea di scegliere questo testo di Shakespeare, all’inizio si era pensato al romanzo americano per eccellenza, Moby Dick), l’allora giovanissimo Thomas Schippers (1930-1977), cioè di nuovo un direttore americano, uno dei massimi direttori americani, da tempo attivo al Met. Nei ruoli principali Leontyne Price (1927-vivente) e Justino Diaz (1940-vivente), lei una leggenda del canto e della vita sociale statunitense (cantante di colore affermatissima anche in Europa, aveva rifiutato il debutto al Met con Aida, per non interpretare una parte assegnatela, come disse spiritosamente, solo perché “già indossava il costume necessario” – Aida è un’etiope, e quindi la si immagina donna di colore); lui un giovanissimo basso-baritono portoricano, cioè nativo di quell’isola che per tutto il Novecento è stata e non è stata parte degli States (dal 1917 i cittadini di Portorico erano cittadini statunitensi, pur non facendo parte Portorico dell’Unione; nel 1967 si sarebbe tenuto un referendum ca. la definizione di Portorico – che scelse l’indipendenza, mantenuta poi fino al 2002): ed è probabile che la scelta di Diaz come interprete di Antonio abbia quindi avuto anche una sfumatura politica.

    Come regista dello spettacolo, che si voleva faraonico, fu designato Franco Zeffirelli, il quale “scrisse” pure il libretto. Le virgolette sono d’obbligo, perché in realtà Zeffirelli potò qua e là la tragedia di Shakespeare, eliminando scene e personaggi, spostando battute, togliendo parti troppo lunghe; ma ogni parola del libretto è una parola di Shakespeare, al massimo mutata di posizione. Nel brano che propongo, il grido finale (rivolto ad Antonio) My man of men!, ad esempio, viene sì dal testo originale, ma da una scena del primo atto. Inoltre, nel libretto gli atti da cinque sono ridotti a quattro; la morte di Cleopatra in Shakespeare non chiude la tragedia, il cui finale è lasciato a Ottaviano; infine, in Shakespeare Cleopatra muore a mezzo di una frase (Why should I stay…), completata poi da una delle ancelle fedeli, che si uccidono con lei (Iras, qui chiamata Iris, e Charmian: il completamento suona …in this vile world?), mentre Zeffirelli assegna tutta la battuta a Cleopatra e anzi le offre anche alcune ulteriori parole, facendola morire su una frase compiuta e pensando ad Antonio. Infine, le due ancelle nell’opera muoiono prima della loro padrona, in silenzio, così da non rubarle la scena; in Shakespeare solo Iras muore prima, e ambedue frappongono le loro parole a quelle della regina. Come si vede, tutti mutamenti che vanno nella direzione di una maggiore “teatralità operistica” della situazione.

    L’opera, di cui esiste una registrazione mai ufficialmente messa in circolazione, fu un fiasco colossale, tanto di critica quanto di pubblico. Eppure Barber era riuscito, oltre a non tradire troppo lo spirito shakespeariano, nell’impresa, non facile, di caratterizzare in modo diverso Ottaviano e i suo accoliti, dotati di una musica molto militaresca, nella quale dominano gli ottoni e le dissonanze, da Antonio e Cleopatra, con i loro modi greci e orientali, molto soffici, languidi, a tratti perfino languorosi. Forse fu proprio questo schematismo una delle cause dell’insuccesso; le critiche si appuntarono però soprattutto sullo spettacolo e sul libretto di Zeffirelli, ritenuti troppo pomposi, complicati, difficili da seguire anche nel continuo passare (molto shakespeariano anch’esso, a dire il vero) da una scena ambientata nel campo “romano” a una scena ambientata nel campo “orientale”.  Barber non si rassegnò alla scarsa riuscita. Poco meno di dieci anni dopo, riprese in mano la composizione, affidando a Menotti il compito di risistemarne il testo e la scansione drammaturgica, riducendo drasticamente i quattro atti a tre e aumentando gli spazi lirici concessi ai due amanti. La nuova edizione andò in scena nel 1975, alla Juilliard School; su un vero palcoscenico, nel 1983 a Spoleto. Di quest’ultima rappresentazione esiste una registrazione audio diffusa dalla casa inglese New World Records.

    Io qui offro la scena finale dell’opera, il monologo di Cleopatra (in realtà, alla presenza delle due ancelle che moriranno con lei), in una versione da concerto del 1985; protagonista Leontyne Price, che rimane fedele all’edizione originale. L’orchestra è quella della Juilliard School, che festeggiava così i suoi ottanta anni di fondazione. L’origine del materiale è televisiva, e si sente.

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    Questo il testo cantato (in grassetto le parole “spostate” da Zeffirelli):

    CLEOPATRA

    Give me my robe, put on my crown; I have
    Immortal longings in me: now no more
    The juice of Egypt’s grape shall moist this lip:
    Yare, yare, good Iris; quick. Methinks I hear
    Antony call; I see him rouse himself
    To praise my noble act. Husband, I come:
    Now to that name my courage prove my title!
    I am fire and air; my other elements
    I give to baser life. So; have you done?
    Come then, and take the last warmth of my lips.
    Farewell, kind Charmian; Iris, long farewell.

    Kisses them. IRIS falls and dies

    Have I the aspic in my lips? Dost fall?
    If thou and nature can so gently part,
    The stroke of death is as a lover’s pinch,
    Which hurts, and is desired.

    To an asp, which she applies to her breast

    Come, I am not worried!

    With thy sharp teeth this knot intrinsicate
    Of life at once untie…

    Peace, peace!
    Dost thou not see my baby at my breast,
    That sucks the nurse asleep?

    As sweet as balm, as soft as air, as gentle,–
    O Antony!–Nay, I will take thee too.

    Applying another asp to her arm

    Why should I stay… in this vile world?
    Now I feed myself with most delicious poison
    That I might sleep out this great gap of time.

    My man of men!

    She dies

     

    http://www.americancomposers.org/notes20030406.htm

     

  • Thermae Romae テルマエ・ロマエ

    Thermae Romae テルマエ・ロマエ


    Thermae Romae è un manga (fumetto rigorosamente in bianco e nero) di Mari Yamazaki, pubblicato in Giappone sulla rivista “Comic Beam” a partire dal febbraio 2008; in Italia è stato pubblicato dalla “Star Comics” a partire dall’ottobre 2011, quando è uscito il primo volume, e fino a gennaio 2013, data del sesto e ultimo volume. In Giappone dal 12 gennaio al 26 gennaio 2012 sono state inoltre trasmesse su Fuji TV le tre puntate dell’anime (cartone animato) tratto dal manga; è stato poi realizzato anche un film, uscito nei cinema giapponesi nell’aprile 2012 e in Italia nel 2014, e ora disponibile in DVD.

    thermae romae copertina

    L’autrice è nata a Tokyo nel 1967, ma ha studiato all’Accademia di Belle Arti a Firenze: da lì nasce il suo amore per l’Italia, dove attualmente vive con il marito italiano. Thermae Romae, il suo manga più famoso, non segue una narrazione continua, ma si divide in episodi; ognuno di questi ha una struttura di base fissa, che si articola in tre momenti. Nel primo Lucius Modestus, architetto romano che vive nel 128 d.C., si vede affidata una committenza, che riguarda sempre le terme (nuove terme, vasche private, vasche all’aperto…). Di conseguenza, Lucius viaggia nel tempo e nello spazio, grazie a dei tunnel subacquei dai quali ha scoperto di poter essere risucchiato e che lo “depositano” nel Giappone del 2008. Qui, nelle stazioni termali (onsen) e nei bagni giapponesi, scopre soluzioni tecnologicamente avanzate, usanze particolari, accorgimenti estetici che destano in lui grande stupore, ammirazione, e un po’ di vergogna per l’inferiorità di Roma. A questo punto, Lucius torna a Roma e utilizza quanto scoperto in Giappone per creare progetti innovativi, che riscuotono sempre grande successo.

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    http://mag.sky.it/lifestyle/fotogallery/2011/10/10/thermae_romae_foto.html#1

    Come ho già detto, Thermae Romae si sviluppa in sei volumi. Io prenderò in considerazione il primo. L’idea fondamentale su cui il manga si basa è quella del viaggio nel tempo e nello spazio, alla scoperta di mondi alternativi, reali o di fantasia: un tema ampiamente sfruttato dalla letteratura di tutti i tempi e tutte le lingue, ma qui declinato con alcune intenzioni particolari. Da un lato, infatti, l’espediente del viaggio fra Roma antica e il Giappone moderno serve a evidenziare le comunanze e le differenze tra i costumi del passato e del presente (l’autrice, accusata di avere dato spazio anche ad alcune usanze antiche ritenute disdicevoli se non addirittura oscene alla sensibilità moderna, si è più volte difesa invocando una continuità sotterranea fra le due culture in gioco). D’altra parte, il ritorno all’indietro del protagonista gli consente di cambiare il corso degli eventi. Ad esempio, nel primo episodio del volume uno, Lucius scopre il latte aromatizzato alla frutta, una bevanda molto popolare in Giappone; tornato a casa, lo vende subito nelle sue nuove terme, riscuotendo grande successo. Aggiungo che se il viaggio in realtà diverse è espediente vecchissimo (in età moderna, almeno dall’Utopia di Thomas More, 1516; ma non sono in fondo un “altro” dove tutto è possibile anche la graeca urbs e Crotone nel Satyricon, o la Tessaglia entro cui sprofonda Lucio nelle Metamorfosi di Apuleio?), anche nei fumetti è un espediente piuttosto diffuso, e tutti i supereroi Marvel, prima o poi, compiono il loro viaggio (Batman, Superman, Flash…); esistono poi diversi manga che sviluppano questo tema, come Dragon Ball, Inuyasha o Sailor Moon, per citare titoli noti al pubblico occidentale. Più raro è però che il viaggio nel tempo, come accade in Thermae Romae, sia il tema centrale e portante del racconto; più raro ancora, che questo tema sia utilizzato essenzialmente per riflettere su somiglianze e differenze tra popoli e società storiche, e non per permettere al protagonista di salvare il mondo o cambiare il proprio destino; raro anche, mi pare, che l’espediente serva a celebrare la superiorità del nostro mondo, piuttosto che a metterlo in crisi (anche quando, magari, il finale lo riscatti a confronto del passato o del diverso, come ad esempio avviene per l’Iter Subterraneum di Ludvig Holberg, 1741). L’idea dell’autrice è quella di offrire un raffronto tra le due popolazioni e la loro vicendevole passione per le terme. Per questo, alla fine di ogni episodio vengono inserite un paio di pagine con riflessioni e spiegazioni, anche storiche, di alcuni elementi della cultura romana. Nel primo di questi interventi l’autrice dichiara esplicitamente che “mi convinco sempre di più che per gli antichi Romani le terme rappresentassero qualcosa di molto vicino ai bagni pubblici per i Giapponesi di un tempo”. La narrazione punta così a generare un effetto comico basato sulle differenze materiali e tecnologiche tra i due popoli, mentre dal punto di vista culturale si assiste a una certa consonanza. Ad esempio, tutte le volte che Lucius scopre qualcosa di tecnologicamente avanzato nei suoi viaggi in Giappone, si sforza di riproporlo a Roma, adattando materiali e forme a ciò che concretamente si può trovare o produrre nella sua città; allo stesso tempo, però, come dice nel terzo episodio: “ogni volta che vengo in questo mondo sento un lacerante senso di sconfitta”. Si tratta di un tema molto giapponese, quello di sentirsi inadeguato al proprio compito; allo stesso tempo, le parole e l’atteggiamento di Lucius non appaiono particolarmente strani o impropri per un Romano, che non può accettare che Roma non sia veramente caput mundi, anche per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche. Lucius, inoltre, interpreta la realtà giapponese con le sue categorie mentali: quando si rende conto di trovarsi in mezzo a stranieri “dalla faccia piatta”, ad esempio, crede che si tratti di schiavi. Di contro, i Giapponesi percepiscono che Lucius è uno straniero, ma, in fondo, le sue difficoltà linguistiche e culturali lo rendono del tutto simile a un europeo contemporaneo alle prese con un onsen: la differenza temporale tra i due mondi non emerge particolarmente, perché né il protagonista né i Giapponesi che incontra ne sono consapevoli (almeno nel primo volume).

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    Leggere Thermae Romae, per un latinista, è un’esperienza particolare, e in qualche modo opposta a quanto l’autrice si proponeva: il pubblico di riferimento, per la Yamazaki, è giapponese, e deve trovare strano Lucius e assolutamente normale l’onsen; per un latinista (ma più in generale, per un italiano mediamente colto), è vero l’opposto. Nessun problema con lo strigile, presumibilmente, ma qualche perplessità di fronte al cappello per lo shampoo… In ogni caso, la storia funziona: gli elementi comici si colgono piacevolmente, la lettura è scorrevole, gli spunti di riflessione sono tanti. Unica cosa un po’ disorientante: il manga, nella sua versione italiana (così come anche in quelle inglese e francese, alle quali l’italiana sembra rifarsi; ne offro due esempi qui sotto, ricordando ai lettori che i manga si leggono dall’ultima alla prima pagina, con la rilegatura a destra, e le vignette vanno lette da destra a sinistra, prima la fascia alta poi quella bassa), presenta tutte i pensieri di Lucius e le sue battute con gli altri Romani in italiano, così come le battute dei Giapponesi fra di loro o con Lucius; quando Lucius pronuncia frasi in Giappone, sono invece in latino (con traduzione italiana tra parentesi). Il che, peraltro, rende il fumetto particolarmente interessante come approccio ludico alla lingua di Roma…

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     © Chiara Formenti, 2017

    Su Thermae Romae segnaliamo anche l’articolo di Giuseppe Galeani, La fortuna di Roma antica nel manga contemporaneo: spunti di riflessione, in “ClassicoContemporaneo” 3 (2017), scaricabile gratuitamente, previa iscrizione al sito, all’indirizzo http://www.classicocontemporaneo.eu

  • Socrate in musica

    Socrate in musica

    Non so se i post dedicati alla musica che riprende temi classici suscitino o no interesse nei lettori di questo sito, se lettori ci sono. Credo però che, al di là della passione personale per la musica, che mi ha accompagnato e guidato per tutta la vita, insistere sull’argomento sia un modo importante per far conoscere la vitalità del mondo antico anche ai nostri allievi, destinatari ultimi, ancorché spesso mediati, del materiale che qui si cerca di organizzare. il fatto che oggi il mondo antico sia oggetto di ripensamento continuo soprattutto da parte dei musicisti, più che dei pittori e degli scrittori, prevalenti o comunque altrettanto presenti nel mondo di ieri, è un dato incontrovertibile. Su questo vorrei tornare in un altro post, chiedendomi (e chiedendo ai lettori) perché proprio i musicisti continuino a trarre ispirazioni da miti e personaggi dell’antichità. Per il momento mi accontento di dedicare qualche parola a Socrate, protagonista di un oratorio laico del 2013. Sottolineo la data: il personaggio Socrate aveva già conosciuto gli onori del palcoscenico musicale nel Settecento, con Telemann (Der geduldige Socrates, 1721, in realtà traduzione/rifacimento di un precedente libretto italiano di ugual titolo, La pazienza di Socrate, opera di Nicolò Minato, intonata fra gli altri da Antonio Caldara) e con Paisiello (Il Socrate immaginario, 1775: come indica il titolo, non si tratta del vero Socrate, ma di un suo moderno imitatore); a inizio Novecento, aveva scritto un dramma musicale su Socrate anche Erik Satie (1918-1920: ci torneremo sopra). Per ora ho preferito un testo più recente, per sottolineare la vitalità del tema anche nel contemporaneo, il vero contemporaneo (troppo spesso confuso, nelle scuole e nell’accademia, con un Novecento storico).

    Autore della musica è il compositore australiano (1961-) Brett Dean, in questi giorni agli onori della cronaca perché al Festival di Glyndebourne è in scena la sua ultima opera, Hamlet. Nel 2010 Dean, già autore di una serie piuttosto cospicua di composizioni, per il teatro, le compagini sinfoniche, gruppi da camera o singoli strumenti (Dean è, nella vita, anche direttore d’orchestra e solista di viola), aveva pensato di scrivere una nuova opera; poi, l’opera si è ridotta a un poema sinfonico con coro, della durata di circa mezz’ora. Alla fine è uscito The Last Days of Socrates, composizione per orchestra, coro e basso-baritono, come recita la partitura (in realtà c’è un ruolo secondario anche per un tenore solista). La composizione, della durata di un’ora circa, è un vero proprio oratorio laico in tre parti, intitolate rispettivamente La dea Atena (Goddess Athena); Il processo (The Trial); La cicuta (The Hemlock Cup). L’ispirazione viene ovviamente da Platone, ma il testo è di un poeta australiano, Graeme William Ellis (1944-), autore di un paio di raccolte poetiche (Words fall like rain, 2009; Ned Kelly Verse, 2011), che a dire il vero, stante il sito della World Catalogue Library, non sembrano avere avuto molta diffusione fuori dal continente oceanico. Purtroppo, per questioni di diritti editoriali, non lo posso riprodurre in questo sito; la casa editrice consente di prendere visione solo delle prime pagine della partitura di Dean, per chi fosse interessato alla sua scrittura. L’oratorio è stato eseguito nel 2013 a Berlino, sotto la direzione di Simon Rattle, e poi a Melbourne e Los Angeles (direttori Simone Young e Gustavo Dudamel). Nella parte di Socrate si sono esibiti John Tomlinson, che a detta del compositore ha anche aiutato nella realizzazione della scrittura vocale del ruolo, e Peter Coleman-Wright. Qui l’orchestra è diretta da John Storgårds; solisti, il grande John Tomlinson (voce sonora e pronuncia impeccabile, anche se affetto da un fastidioso vibrato che ne compromette più volte l’intonazione) e Robert Johnston. L’ho divisa nelle sue tre parti, la seconda e la terza dividendole a loro volta in due. Dean è autore tardo novecentesco, che ama mescolare la musica elettronica alle sue composizioni; capace di sprazzi lirici, per il suo oratorio prevede un organico fatto di fiati, archi, ottoni, percussioni, arpa, celesta, ma anche di piano, chitarra elettrica e fisarmonica, oltre a pezzi di terracotta e metallo sbattuti gli uni contro gli altri, a imitare il suono degli ostraka che votano la condanna di Socrate. Il basso baritono protagonista dà voce al filosofo; il coro interpreta gli Ateniesi, le voci maschili dando corpo agli accusatori di Socrate, le femminili alla parte compassionevole del popolo. Il tenore assolve, di volta in volta, il ruolo di un giudice (II parte) e del carnefice che prepara la cicuta (III parte). La prima parte ha carattere introduttivo; la seconda trae il suo testo dall’Apologia di Platone; la terza dal Fedone. Dean in molte interviste ha paragonato Socrate a importanti figure controcorrente del nostro tempo, alle quali in certo modo la composizione sarebbe dedicata: l’artista cinese Ai Weiwei, noto dissidente politico; oppure Edward Snowden e Julian Assange.

     

    Parte I – La dea Atena

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    La musica inizia dolcemente (la qualità sonora non è impeccabile), quasi impercettibile, attraverso strumenti  fuori scena. Il coro invoca a gran voce, e più volte, “So-kra-tes”: prevalgono le voci maschili, ostili, dure, mentre l’orchestra si trasforma in un uragano sonoro. Dal minuto 2’40” la furia si placa: nel coro ora si sentono le voci femminili, fuori scena (al Barbican erano su una piattaforma elevata). In questo quadro idilliaco inizia, ca. al minuto 4’25”, l’invocazione alla dea Atena (“Goddess Athena”), che prima assume il carattere di litania, poi pian piano prende forza (7’23” ca.), e dopo un paio abbondante di minuti torna a farsi più dolce, finché la celesta pone fine all’invocazione.

     

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    Parte II – Il processo

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    Una lunga introduzione nella quale svetta il corno solista prelude a una climax sonora, sulla quale irrompe il coro, senza pronunciare parola fino al minuto 3’33”. Tenori e bassi danno poi sostanza alle accuse contro Socrate, che inizia a sua volta una breve rhesis concitata (4’33”), alla quale il coro risponde ribadendo le accuse, su una melodia sempre più saltellante (5’30”). Al minuto 7’50” il coro, dato sfogo a tutta la rabbia di gruppo che vede messe in pericolo le proprie certezze, erompe più volte nel suo “Enough! Enough! Sokratès”, che Dean riconosce in molte interviste come il momento cruciale della situazione (l’opinione comune non accoglie chi la obbliga a dubitare di sé). Socrate inizia un lungo discorso, 8’40”, lento e pacato, ribadendo alle accuse con le parole dell’Apologia. “What difence is this?” si chiede il coro (12’45”). Socrate ribadisce il suo credo (“I believe”, 13’57”) e introduce l’immagine del cigno, che canta profetico al momento della morte.

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    “Therefore, I don’t regard my end as a misfortune” conclude sereno Socrate, ma tanta sicurezza irrita ulteriormente il popolo ateniese contro di lui: sotto la spinta martellante del pianoforte (2’09”) si forma la parola “Danger!” a riconoscere la pericolosità di chi vive coerente con se stesso. Socrate ribadisce la sua calma (4’20”): “All that I know is that I know nothing… It is your fear that which speaks”, mentre la sicumera del coro è “imitation of wisdom, not real wisdom”.  Nell’imbarazzato silenzio che segue, il corifeo invita alla votazione, riconoscendo che le parole di Socrate hanno valore finale (5’14”): su un ritmo quasi jazzistico, ognuno getta il suo voto nel vaso che contiene gli ostraka (si sentono uno di seguito all’altro i colpi di metallo che corrispondono ai voti fatti cadere nel recipiente), mentre il coro si divide fra tenori e bassi, che ripetono minacciosi la loro ostilità al protagonista, e le voci femminili, alla fine prevalenti, nel loro lamento per l’imminente condanna, anticipata dai colpi delle percussioni (6’20”). Alla fine restano solo le donne a piangere (7’25”).

     

    Parte III – La cicuta

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    Il brano si apre con una lunga introduzione per violoncello solo, omaggio di Dean a Jan Diesselhorst, celebre violoncellista dei Berliner Philharmoniker (compagine orchestrale nella quale anche Dean ha suonato per una dozzina d’anni), già ricordato in un’altra composizione dell’autore, Epitaphs, 2010, un quintetto cameristico di cui un movimento rievoca l’amico e collega. Al minuto 2’04”  inizia il lamento del coro femminile, fuori scena. Siamo così immessi a poco a poco nella stanza dove Socrate attende la morte, in un’atmosfera cupa, tenebrosa, amplificata da un suono funereo di tromba e dalle percussioni. Un inserviente presenta a Socrate la coppa della cicuta, riconoscendo nello stesso tempo in lui il più grande degli uomini (5’08”). Socrate prende la parola rievocando ancora il cigno (“The swan!… The swan!…”, 6’40”), accompagnato dalla celesta che – un po’ come in Death in Venice di Britten, dove dava visibilità a Tadzo e al suo ruolo di involontario psicopompo – sembra progressivamente rafforzare il pensiero della morte imminente.

     

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    Quando il lamento si fa troppo forte, Socrate interviene a rassicurare gli amici (0’59” “Calm yourself, and be brave!”). Le donne appaiono più rassegnate, mentre torna a farsi sentire il violoncello (2’59”). Socrate può così riappropriarsi della metafora del cigno: è lui, naturalmente, l’animale che muore, ma muore cantando e – come aveva detto al processo – nessuno canta se sta soffrendo, nemmeno l’usignolo. Come il cigno, Socrate vede ora dunque la propria morte, ma vede anche chiaramente che è solo il nostro terrore dell’ignoto che ci spinge a temerla. Dopo un attimo di meditazione, il coro riprende e fa sua l’idea (“The swan, the swan sings”, 5’39”) e accompagna Socrate nell’ultima celebrazione di sé e della propria coerenza interiore. Le parole si fanno sempre più lente, cadenzate: “The swan sings” ripete infine ancora una volta anche Socrate, con il ritmo di chi è ormai preda della paralisi e della morte. Alle donne il compito di dare l’ultima risonanza al lutto.