Tag: ancient history

  • Una maturità d’altri tempi

    Una maturità d’altri tempi

    Arrivano alla spicciolata gli esiti delle maturità di quest’anno. Concludiamo allora un trittico ideale dedicato quest’anno all’esame, con il ricordo della maturità di Karl Marx. Marx era nato a Treviri nel 1818; nel 1835, a diciassette anni, sostenette l’esame di fine studi liceali. Aveva frequentato il Friedrich-Wilhelm Gymnasium (diciamo, il liceo classico) della sua città; una conquista sociale, oltre che culturale, per il giovane figlio di un avvocato discendente da una famiglia di rabbini ebrei, ma che per poter continuare a esercitare la sua professione e integrarsi nella comunità cittadina aveva dovuto convertirsi al luteranesimo (il padre, intorno al 1819; Karl nel 1824: una legge prussiana del 1818 impediva ai cittadini di religione ebraica l’esercizio di una serie di occupazioni pubbliche, fra le quali, appunto, l’avvocatura). Insomma, dopo le discriminazioni legate alla nascita, la frequenza della scuola più prestigiosa cittadina era stata, per il giovane Karl, una sorta di patente sociale che lo metteva quasi alla pari con gli altri coetanei. Dal liceo Karl prenderà il volo per l’università, ufficialmente iscritto a Giurisprudenza, sulle orme paterne, di fatto frequentando soprattutto le lezioni di filosofia e letteratura, prima a Bonn, poi a Berlino e infine a Jena, dove si laurerà nel 1841, con una tesi dedicata alla filosofia epicurea.

    Non si è Marx per nulla… Gli esami di maturità del giovane, e di tutta la sua classe, sono stati fatti oggetto di una serie di accurati studi. Nel 1926 Carl Grünsberg ne diede la prima edizione, poi confluita nella grande raccolta di scritti marxiani del 1929 e anni seguenti; c’è poi chi, come Heinz Monz, nel 1973 ha ricopiato una per una tutte le prove manoscritte che i giovani maturandi (trentadue in tutto) avevano consegnato, pubblicandole tutte quante, per ricostruire non solo le tracce del pensiero di Marx, ma anche quelle dei suoi compagni di classe e individuare così il grado di originalità del giovane Karl nei confronti dei colleghi e degli insegnamenti comuni. A chi fosse interessato all’argomento segnalo, oltre alle biografie del filosofo (in Italia, ottima quella di Nicolao Merker, edita da Laterza, Roma-Bari 2010), l’articolo di Giovanni Sgrò pubblicato in “Archivio di Storia della Cultura” del 2005, ma disponibile anche in open access e che qui perciò allego:

    Sgrò – Il tema di maturità di Marx

    Nel 1815, al Congresso di Vienna, la Renania, prima appartenuta per quasi un ventennio alla Francia (1795-1814), era stata assegnata alla Prussia, che al tavolo del Congresso aveva seduto fra i vincitori. Di stampo prussiano era perciò l’impianto scolastico attivo a Treviri, ricordando che la Prussia, già dal secolo prima, era stato il primo stato europeo a dotarsi dell’obbligatorietà scolastica e di un sistema differenziato ma statale (e comunale) di scuole – un modello poi imitato dall’Austria di Maria Teresa, e in seguito dalle altre nazioni d’Europa (non tutte). La maturità ginnasiale prevedeva una serie di prove scritte: tema di tedesco, traduzione dal greco in tedesco, tema di latino e traduzione dal tedesco in latino, traduzione dal tedesco in francese, tema di religione per i soli studenti di professione luterana, prova di matematica. Come dimostrano i saggi indicati prima, tutte queste prove si sono conservate e sono state studiate. Ovviamente, l’attenzione maggiore è andata alla prova di tedesco, un tema nel senso moderno del termine, dal titolo “Considerazioni di un giovane sulla scelta di una professione” (Betrachtung eines Jünglings bei der Wahl eines Berufes): tipologia di prova e argomento della stessa hanno consentito agli studiosi del filosofo di cercare tracce del suo futuro pensiero già a questa giovane età. A me qui interessa però la prova di latino e di essa in particolare la composizione, che, secondo l’uso delle scuole di Retorica, ha per titolo An principatus Augusti merito inter feliciores reipublicae Romanae aetates numeretur. La prova è stata edita nella Historisch-Kritische Gesamtausgabe (MEGA) di Marx e Engels, dove, nell’edizione del 1929, figura alle pp. 168-170 del volume I/2; il medesimo testo è confluito poi nella Neue Ausgabe del 1975. Il testo latino, che allego qui di seguito, è disponibile in molti siti on-line. Testo originale e traduzione italiana si trovano anche nel volume di Luciano Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Milano 2002, alle pp. 154-161; della traduzione è autore Giuseppe Solaro.

    Marx – An principatus Augusti

    Marx sostiene che l’età di Augusto fu, in sostanza, un’età felice. Così del resto prevedeva la traccia, con quel merito che lascia sì ancora spazio per un possibile dissenso, ma naturalmente prevede che sia il dissenso a dover essere giustificato con più fatica. Dietro alla prova è probabile che ci siano gli insegnamenti di Johann Gerhard Scheemann (1796-1864), latinista ed erudito locale, che aveva istruito Marx e i suoi compagni nei rudimenti di lingua. Ma è probabile che molto si debba scorgere anche della persona di Vitus Loers (1792-1862), odiatissimo Preside del Gymnasium, uno studioso di Ovidio di un certo valore, ma un uomo gretto sia umanamente sia politicamente (così lo descrive, anni dopo, il suo allievo). In ogni caso, Marx svolge bene il suo tema, in buon latino. Accetta l’idea che l’età augustea sia stata un’epoca felice, e ne fornisce adeguate prove. Proprio queste vorrei fare oggetto di discussione. Marx in sostanza enuncia tre argomenti: il primo è un confronto con le età che hanno immediatamente preceduto e seguito l’età di Augusto, che poi si esplicita come un confronto con l’età repubblicana considerata in un unico blocco e l’età di Nerone, meglio documentata di quelle degli altri giulio-claudi, Quest’ultima è naturalmente considerata un’età di decadenza e dissolutezza; ma anche l’età repubblicana non esce bene dal confronto, perché ai buoni costumi accostò le lunghe lotte fra patrizi e plebei e il disprezzo per la cultura, ritenuta inutile a un cittadino di quei tempi. Secondo argomento, la testimonianza degli Antichi, siano essi scrittori romani, o – cosa ritenuta più importante – anche no, esterni pertanto al potere di Roma. Qui Marx, una volta osservato il rispetto di cui l’impero di Augusto ha goduto sul piano internazionale, non cita alla fine altri che Tacito, di cui sembra conoscere bene il capitolo 9 del primo libro degli Annales, ma male il successivo capitolo 10 (dove, con tecnica retorica, Tacito dà voce agli oppositori di Augusto e rovescia ogni giudizio favorevole su di lui espresso in precedenza). Infine: Marx sottolinea la grande abbondanza di ingegni e uomini di Lettere vissuti sotto Augusto. Non tireremo fuori la battutaccia di Orson Welles sulla Svizzera e il Rinascimento (“In Italy, for thirty years under the Borgias, they had warfare, terror, murder and bloodshed, but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love, they had five hundred years of democracy and peace – and what did that produce? The cuckoo clock”). Sarebbe ingiusto, anche verso la Svizzera.

    Ma il pensiero di Marx stesso, a mio parere, si incrina più volte, lasciando spazio a frasi che non si capisce bene se siano solo goffe, o vogliano prendersi gioco del lettore. Augusto si impone per la sua clemenza, ma l’età augustea è, a confronto di quella repubblicana, un’età moralmente degenerata, del tutto inferiore alla precedente, nella quale l’azione del princeps fa sì che scompaiano non solo la libertà, ma anche ogni sospetto di libertà. Abilità dell’imperatore fu il sapersi appropriare di tutti i poteri, lasciando che i cittadini pensassero ancora di comandare, anzi non si accorgessero nemmeno dell’esistenza di una nuova magistratura, ritenendo quello di princeps nulla più che un vuoto nome. Sempre simulatore, Augusto fu capace di circondarsi di uomini d’eccezione, come Agrippa e Mecenate, eccellenti per virtù e per acume, senza bisogno di dovere così eccellere a sua volta. Alla fine, la mente di Augusto e la sua opera di governo risultano perfettamente adeguate ai tempi (di crisi morale) in cui Augusto visse. In un’epoca in cui regna la mollezza, il venir meno di ogni semplicitas morum, l’ingrandimento eccessivo dei confini dello Stato, il singolo regnante è un male necessario – altrimenti, sembra di capire, se ne può fare tranquillamente a meno…

    Qual è allora la morale? Intanto, scrivere in discreto latino non è garanzia di nulla. Poi, comunque siano andati a finire oggi gli esami, c’è ancora tempo per divenire Karl Marx (o chiunque si voglia divenire). Infine, all’orale Marx fu interrogato su Servio Tullio, Orazio (carm. II 20, la trasformazione in cigno) e Livio (XXXVIII 50, il processo contro Scipione l’Africano). Testi alla mano, il giovane maturando se la sarà cavata sicuramente meglio, e con più facilità!

  • Un’altra maturità

    Un’altra maturità

    Recupero l’indicazione fornita da Ignazio Roi (che ringrazio) nei commenti al post precedente, aggiungendo qualche informazione sulla maturità del cosiddetto liceo classico europeo, svoltasi in contemporanea a quella dei nostri alunni. Fornisco qualche notizia sul liceo in questione, della quale vado debitore a vari siti internet (inclusa un sito che collega la rete dei licei stessi, peraltro poco aggiornato; e una pagina di “wikipedia”, reperibile digitando la denominazione “Liceo classico europeo”). Si tratta di una forma di liceo istituita in via sperimentale nell’anno scolastico 1993/1994 e poi più volte riorganizzata. Il liceo europeo è fondamentalmente un liceo classico, con orario anche pomeridiano, in cui vengono parzialmente ridotte le ore di materie classiche, accorpate in un’unica dicitura, e sono invece aumentate quelle dedicate alle lingue moderne e alla matematica. Si aggiungono anche talune materie non presenti nei licei classici “normali”, come diritto ed economia; parte delle discipline vengono impartite in lingue moderne (prevalentemente, inglese o francese); sono in atto gemellaggi e scambi stabili con identiche realtà in altri Paesi europei. All’inizio i licei di questo tipo erano nove in tutta Italia, poi sono aumentati di numero, ma si tratta sempre di scuole a statuto speciale, chiamiamole così, con una struttura anche di base abbastanza diversa da quelle degli altri licei. Infine: la prova di maturità è diversa da quella proposta agli altri studenti, perché prevede sempre la somministrazione di due testi fra loro connessi, uno di greco e uno di latino (quest’anno un passo di Dionigi di Alicarnasso e uno di Livio relativo all’ambasceria a Delfi che vide fra i suoi partecipanti due figli di Tarquinio il Superbo e il Bruto che fu poi il primo console a Roma). I due brani vengono contestualizzati; di uno dei due si chiede la traduzione, a scelta del candidato. Sul brano tradotto si deve rispondere a una serie di domande, che puntano ad affiancare alla traduzione la comprensione del testo. Infine, un ultimo esercizio pone uno vicino all’altro i passaggi simili per contenuto dei due testi proposti, e ne chiede allo studente un commento sinottico. La prova dura sei ore, e non solo quattro.

    Riporto per maggiore chiarezza il facsimile ministeriale. Il testo può essere facilmente visionato cliccando sul link blu sottostante.

    prova europea

    Quale commento è possibile? La prova non pone la drastica divisione fra Greco e Latino come materie diverse ed estranee l’una dall’altra, in accordo alla tipologia di insegnamento praticato in questo tipo di liceo: e questo a me sembra un’ottima cosa. Le domande hanno elementi senza dubbio degni di nota, e altri forse un po’ meno. Mi piace molto il fatto che nessuna di esse fuoriesca da quello che si può e si deve ricavare dal testo; e nessuna chieda notizie che esulino dal racconto e quindi dalla comprensione del testo. La traduzione, insomma, si difende da sola e non ha bisogno di specificazioni grammaticali o altro. Al candidato si richiede invece di dimostrare di avere capito come si sviluppa il racconto. Forse, ma forse è un dubbio che deriva dalla poca pratica dell’insegnamento quotidiano, osserverei che sia nelle domande sul brano tradotto, sia nelle domande “sinottiche” non è sempre chiarissimo che cosa voglia esattamente il Ministero. Che cosa significa infatti all’atto pratico “esprimere le proprie osservazioni e valutazioni”? E nel rispondere alle domande sul testo, serve una parafrasi del testo già tradotto, o si chiede di indicare in quale punto del testo (ripetendone le parole esatte) avviene quanto detto nella domanda stessa? Diciamo che il rapporto traduzione/parafrasi/risposta esatta non è chiarissimo, ma, come dicevo, probabilmente risulta invece chiaro dalla pratica quotidiana in classe. Senza contare che, forse, si potevano trovare altri brani, un po’ meno scontati, da proporre come confronto. Il bacio alla madre Terra, intesa come via per la conquista del potere, è un aneddoto che si ritrova non solo nella biografia di Bruto, ma anche, ad esempio (con qualche variazione su cui però si poteva riflettere: il sogno della violenza sessuale alla madre) in quella di Cesare.

    Resta però una domanda. Perché l’Europa cui guarda per costituzione questo liceo dovrebbe escludere da sé l’Italia? Ossia, a parte la mescolanza delle due lingue (caratteristica propria di questo tipo di liceo, e determinata come ho segnalato all’inizio, dal bisogno di lasciare spazio ad altre materie non comunemente insegnate), non dovrebbe essere questo il modello di una buona prova? Avremmo la traduzione; avremmo il saldo della cultura antica; avremmo la possibilità di un commento mirato, e guidato, mai esulante dal testo di partenza. Non mi sembra un cattivo risultato, anche se si dovesse applicare volta per volta a una sola lingua…

  • Cani di varie razze e lingue

    Cani di varie razze e lingue

    Apriamo una serie di post sui cani nel mondo antico. Pensavo originariamente di occuparmi solo di quelli presenti nella letteratura latina, ma vorrei dedicare questa puntata al mondo greco, eccezionalmente. Mi spinge a farlo la bibliografia, che può contare sul volume di Cristiana Franco, Senza ritegno. Il cane e la donna nell’immaginario della Grecia antica, Bologna (il Mulino) 2003, di taglio antropologico; e, per la parte che più mi interessa, su un bell’articolo di Valentina Garulli, Gli epitafi greci per animali. Fra tradizione epigrafica e letteraria, apparso nel volume miscellaneo Memoria poetica e poesia della memoria. La versificazione epigrafica dall’antichità all’umanesimo, a cura di Antonio Pistellato, Venezia (Edizioni Ca’ Foscari) 2014, ma reperibile anche on-line. Per gentile concessione dell’Autrice, che ringrazio, ricavo da quello i dati che qui esporrò e la traduzione dei testi che vado a proporre.

    Dunque, in questo post mi occuperò di epitaffi per cani. Perché la stesura di un epitaffio rappresenta l’atto supremo della conservazione di una memoria: il cane è morto, viene sepolto, ma il padrone mantiene il ricordo dell’animale e della tomba, e ne tramanda notizia ai posteri. Nel suo articolo Garulli ricostruisce 13 epitaffi: 2 provenienti dall’Anthologia Palatina; 2 trasmessi dal grammatico ed enciclopedista Pollùce; 2 tramessi in forma papiracea; e 7 attestati in iscrizioni, che possono essere tuttora conservate e visibili o trasmesse da testimoni più o meno attendibili (come, ad esempio, l’umanista Ciriaco d’Ancona, che nel XV secolo realizzò la prima raccolta di iscrizioni greche).

    Tredici testi costituiscono un piccolo corpus, che qui voglio riportare. Segnalo alcuni dati circa la provenienza: i 4 epigrammi di tradizione letteraria sono attribuiti, rispettivamente, a Simonide (ma si pensa sia errore per Simia di Rodi); alla poetessa arcade Anite (entrambi del III sec. a.C.); a Timne, un poeta anteriore a Meleagro di Gadara (I sec. a.C.); ad Antipatro di Tessalonica (d’età augustea). Sono autori che vengono da aree geografiche differenti, ma come si vede dai dati forniti, sono tutti vissuti entro il I sec. d.C. I testi su papiro fanno invece parte dal cosiddetto “Archivio di Zenone”. Si tratta di un cospicuo numero di documenti , oggi conservati in diversi musei e località, ma provenienti tutti da Filadelfia, un luogo desertico all’estremo nord-orientale del Fayum, in Egitto. Il nome ne ricorda l’appartenenza, in origine, alla casa di Zenone, amministratore di Apollonio, ministro delle finanze di Tolomeo II Filadelfo (III sec. a.C.). I due testi che ci interessano sono conservati su un unico papiro del museo del Cairo, scritti uno di seguito all’altro; si tratta del papiro noto come P.Cair. Zen. 59532. Infine, le 7 epigrafi: Garulli le data, indizialmente, fra I secolo a.C. e III secolo d.C.; quanto alla provenienza geografica, vengono da Roma, dall’Africa, dall’Asia Minore. Anche in questo caso, quindi, la dislocazione spaziale è senza apparenti limiti, quella temporale risulta più circoscritta. Curiosa è infatti la constatazione di come la produzione letteraria sembri rinsecchirsi con l’era volgare (o, almeno, noi non ne abbiamo ulteriore notizia); quella documentaria, al contrario, prosegue florida fino alla piena età imperiale.

    Ecco i tredici testi:

    Anche da morta le tue bianche ossa in questa tomba
    ancora, immagino, fanno tremare le belve, Licade cacciatrice.
    Il tuo valore conoscono il grande Pelio e il chiaro
    Ossa, e le solitarie cime del Citerone.
    (Simonide, ma in realtà probabilmente Simia di Rodi)

    Peristi un giorno anche tu accanto a un cespuglio dalle ampie radici,
    Locride, velocissima tra le cucciole chiassose;
    tale è il veleno mortale che nelle tue agili membra
    ha inoculato una vipera dal collo variopinto.
    (Anite di Tegea)

    Qui il veloce cane di Malta la pietra – dice lei –
    copre, fidissimo custode di Eumelo.
    Tauro lo chiamavano, quando c’era ancora; ora invece
    la sua
    voce l’hanno le silenziose vie della notte.
    (Timne)

    Lampone, cacciatore, cane di Mida, la sete lo ha ucciso,
    anche se dopo una lunga lotta per la vita.
    Infatti con le zampe scavava il suolo umido, ma l’acqua
    pigra dalla cieca sorgente non si affrettava a sgorgare;
    lui venne meno e si accasciò, e la sorgente cominciò a zampillare.
    Davvero,
    Ninfe, su Lampone avete riversato la collera dei cervi da lui uccisi.
    (Antipatro di Tessalonica)

    Due cani e due cagne; uno da pastore, tre cacciatori. Due muoiono per incidenti imprevisti, ed è proprio l’imprevisto a giustificare l’epitaffio; degli altri, nulla si sa. I cani sono veloci, valorosi, fidi, chiassosi, abili nel loro mestiere, destinati a lasciare lunga memoria di sé: ma in questo immaginario piuttosto ristretto si consuma ogni loro avventura terrena. Tant’è vero che la morte rocambolesca, in due casi su quattro, è appunto tutto ciò che merita di essere ricordato ed è anche ciò che costituisce il tratto più realistico della loro rappresentazione (una vipera che si crede al sicuro nell’erba, e reagisce stizzita quando non si sente più tale; un colpo di caldo, alla vana ricerca di acqua). Troppo poco, verrebbe da dire.

    Passo ora al cane di Zenone:

    Questa tomba proclama che l’indo Taurone giace
    morto, ma il suo uccisore ha visto prima l’Ade;
    simile a una fiera a vederlo di fronte, o forse ultimo discendente
    del cinghiale calidonio, nei campi fecondi di Arsinoe viveva
    indisturbato, tra i cespugli tutto irsuto sul collo e
    schiumante
    di bava intorno alle mascelle;
    si imbatté nel coraggio del cucciolo e prontamente
    gli solcò il petto, ma quello senza indugio gli mise il collo a terra;
    infatti, preso insieme alle setole il forte tendine,
    non chiuse per sempre i denti prima di consegnarlo ad Ade.
    […] Zenone nella caccia senza essere stato ancora addestrato alle fatiche,
    e si guadagnò la riconoscenza di una tomba sotto terra.

    Un cucciolo, quello che ha ricevuto gli onori funebri sotto questa tomba,
    Taurone, si è dimostrato non privo di risorse nei confronti di chi lo ha ucciso;
    quando infatti si imbattè in un cinghiale in uno scontro frontale,
    quello, gonfiando mostruosamente le mascelle
    e bianco di schiuma, gli solcò il petto;
    ma l’altro gli avvinghiò il dorso con due zampe,
    e lo ghermì irsuto in mezzo al petto
    e lo bloccò a terra; e, consegnato ad Ade
    il suo uccisore, morì come vuole l’uso indiano.
    E per aver salvato Zenone che seguiva a caccia,
    fu sepolto sotto questa lieve polvere.

    I due epigrammi si riferiscono allo stesso fatto, e sono probabilmente opera di uno stesso autore. La ragione del doppio omaggio ci sfugge: c’è della letteratura, comunque, dietro una simile scelta. Protagonista è Taurone, cane di razza india, e cioè di nuovo un cane da caccia. La caccia è quella al cinghiale; l’esito è tragico: Taurone, cucciolo e forse inesperto, viene subito assalito dal cinghiale; ma mentre quello lo solleva in alto con la zanna, ne approfitta per saltargli sul dorso, ferirlo in qualche modo al petto (i due epigrammi non sono del tutto coerenti), ucciderlo a sua volta. In questo modo, Taurone, pur morendo, vince la fiera e salva la vita al padrone. Nulla ci spinge a dubitare dell’episodio; fatta salva una piccola incertezza su quale sia la parte del cinghiale sulla quale si accanisce Taurone (ma non sarà stato facile distinguerlo!), i due racconti sono sostanzialmente concordi. A me viene in mente però che nella descrizione della battaglia di Canne che ci ha lasciato Silio Italico (Punica 9.587-598) si racconta di un elefante – anche se non ci furono elefanti a Canne, in realtà! – che aveva sollevato con la proboscide Tadio; e questi, morente, seppe approfittare della posizione elevata per colpire l’animale vicino all’occhio, uccidendolo. La situazione è diversa, naturalmente, ma il meccanismo narrativo no. Anche in questo c’è, in fondo, della letteratura.

    Ecco infine i sette testi epigrafici:

    Il cane Tiranno.
    Qui giaccio sotto terra, padrone, dopo molte fatiche.
    (da Cirene)

    Tutto ciò che resta della cagnolina Tea lo copre la tomba,
    splendore di simpatia, di tenerezza, di bellezza;
    e la ragazza, che ha nostalgia del suo dolce trastullo, piange a calde lacrime
    colei che ha cresciuto nella sua casa, e conserva un vivo ricordo del suo affetto.
    (da Roma)

    Tu che percorri questa via, se mai poni mente a questa tomba,
    no, ti prego, non ridere, se e la tomba di un cane;
    fui pianto, e le mani del mio padrone hanno radunato la polvere,
    lui che ha anche fatto incidere queste parole sulla stele.
    (da Roma)

    La cagna sotto la terra Lesbia l’ha seppellita Balbo,
    pregando che la terra sia leggera sulla cagnetta sepolta,
    lei che lo ha servito e che tanto mare con lui ha navigato. Possa tu garantire
    una sepoltura agli esseri umani, dato che questo offri agli esseri privi di senno.
    (da Mitilene)

    La cagna Partenope l’ha seppellita il suo padrone, che con lei si divertiva,
    e le ha reso cosi una ricompensa del piacere che gli ha procurato.
    E cosi, esiste un premio dell’amore anche per i cani, come appunto anche costei
    che era devota a chi la nutriva ha ottenuto questa tomba.
    Guardando a questa tomba fatti buon amico chi sappia
    amarti di cuore in vita e si curi del tuo cadavere.
    (da Mitilene)

    Il mio nome è “Amante della caccia”; infatti, essendo tale,
    ho posto le mie zampe veloci all’inseguimento di terribili fiere.
    (da Pergamo)

    E’ di un cane questa tomba, di Stefano che è morto,
    e che Rodope ha pianto e ha seppellito come un essere umano.
    Sono il cane Stefano, e Rodope mi ha costruito questo tumulo.
    (da Termesso, in Pisidia)

    Quattro cani e tre cagne; tre sono sicuramente animali da compagnia, uno da caccia, di altri tre è difficile dire, anche se Tiranno è certo animale da lavoro, ma non è detto quale lavoro, e la caccia resta la scelta più probabile, mentre per gli altri due di cui nulla è detto di specifico, da quanto apprendiamo di loro è probabile che siano anch’essi animali da compagnia, non da lavoro. Sei volte su sette compaiono i padroni, che sono quattro uomini e due ragazze; queste ultime hanno un nome, come uno degli uomini. Gli altri restano innominati, indicati solo nella loro funzione (“padrone”), ma senza personalità propria. Le due ragazze si legano a cani da compagnia (un cane e una cagna, per l’esattezza); interpreto come cane da compagnia anche la cagnolina di Balbo, che lo ha seguito nei suoi viaggi per mare. Guarda caso, è l’unico padrone maschio che si qualifica per nome. Spesso le epigrafi avvertono un certo bisogno di giustificarsi, che vada al di là, mi sembra, delle solite formule di convenzione: è il caso della seconda epigrafe romana (anche se l’appello al viandante è di tradizione); di quelle che Balbo e Rodope hanno scritto per le loro cagnette; di quella del padrone di Partenope. Tanta insistenza qualcosa vorrà ben dire… Colpiscono i toni affettuosi e, questa volta sì, del tutto realistici, dei diversi ricordi. Se Tiranno si segnala solo per il suo zelo, Tea è simpatica, tenera, bella, un animale che ha sempre fatto parte della vita e della casa della sua padroncina. Nell’epitaffio si propone una sorta di equivalenza, epigrafe = pianto e pianto = ricordo di una lunga coabitazione. Solo il pianto viene evidenziato nel caso della seconda epigrafe romana, ma possiamo pensare che la serie di equivalenze sia implicita anche in quel caso e che le doti che si vogliono rievocare siano in fondo le stesse. La comitas, già evidente per Tea, si fa ancora più esplicita nel caso della cagnetta di Balbo, visto che all’attaccamento per la casa si sostituisce quello per lo specifico padrone, reso necessario dalla vita raminga di questi. Un mutuus amor, o quanto meno una mutua voluptas, è quanto emerge dall’epitaffio per Partenope, fondato sull’idea di una reciprocità che vuole la cagna onorata come un essere umano dopo che come un essere umano si è comportata con il suo padrone, ligia a un patto non scritto, “devozione in cambio di cibo”. Ma se il patto è fondato su una ragione economica, e quindi se vogliamo in parte discutibile, non più strettamente economica è la vita di divertimento e piacere che i due hanno sperimentato insieme. Infine, Stefano: che era un cane ma si è conquistato gli onori di un umano, perché da umano, evidentemente, era trattato dal suo padrone (e come un umano sembrava parte della vita di quello). Ciò lascia fuori il solo Philokynēgos,”l’amante della caccia”, un cane che a ben vedere non ha nemmeno un vero nome – il nome coincide con la sua professione; e la sua professione, ben eseguita, è tutto ciò che il padrone è ora in grado di rievocare. Ingiustizie e disparità di trattamento esistevano già nel mondo antico; e i cani da caccia ne sono stati spesso vittima…

  • Una gita per l’estate (II)

    Una gita per l’estate (II)

    Riprendiamo la valle dello Spluga (o Rheinwald), ma questa volta arrivando a metà circa della sua conca sommitale, all’altezza del paese di Splügen. La discesa non avviene quindi dal passo di San Bernardino, ma da quello dello Spluga. A farci da guida è il poeta Claudio Claudiano.

    Nell’anno 402 i Goti di Alarico erano passati in Italia, lasciando la Grecia e l’Illirico dove si erano insediati negli anni immediatamente precedenti. I loro spostamenti arrivarono a mettere a repentaglio l’incolumità della stessa Milano, allora capitale dell’impero e residenza del giovane Onorio. Salvò la situazione, almeno per poco (più tardi i Goti avrebbero ulteriormente dilagato nella penisola, arrivando a mettere a sacco la stessa Roma) il magister militum e suocero dell’imperatore, il generale Stilicone, che il 6 aprile di quell’anno sconfisse Alarico a Pollenzo, vicino a Cuneo. Il poeta panegirista di corte, Claudio Claudiano, celebrò l’avvenimento in un carme epico di 647 esametri, il De bello Gothico (o Getico, come è anche intitolato, per la facile e nel IV secolo abbastanza abituale assimilazione dei moderni Goti agli antichi Geti). Fra i problemi che Stilicone dovette affrontare, prima del combattimento, ci fu quello di radunare sufficienti truppe. Claudiano rievoca perciò il viaggio a tappe forzate compiuto dal generale per recarsi da Milano alla Retia (come già sappiamo, la regione che include oggi Svizzera tedesca, Baviera meridionale e parte dell’Austria), allo scopo di spostare verso l’Italia le milizie dislocate in quel territorio. Claudiano assegna toni epici al viaggio, avvenuto prima del disgelo (il combattimento di Pollenzo si svolse agli inizi di aprile), attraverso le Alpi rese invalicabili dai cumuli di neve. L’itinerario seguito è espresso abbastanza chiaramente:

    Protinus, umbrosa vestit qua litus oliva
    Larius et dulci mentitur Nerea fluctu,
    parva puppe lacum praetervolat; ocius inde
    scandit inaccessos brumali sidere montes
    nil hiemis caelive memor.

    Stilicone, solo fra tutti, si erge contro i nemici; novello Fabio, che si oppose ad Annibale (che aveva valicato a sua volta le Alpi, ma in altra zona), egli rassicura i Romani spaventati e promette all’imperatore la vittoria. Subito (protinus) da Milano si reca a Como; qui, su fragile barca (parva puppe), risale il lago, fino all’odierna Colico e alla piana del Fuentes. Da lì, ripercorre una valle montana, che non può essere altro che l’attuale Valle di San Giacomo, da Chiavenna al passo dello Spluga (più improbabile la via del Maloja e dello Julier). Le località sopra Chiavenna sono ricordate nella Tabula Peuntigneriana, a conferma che quella dello Spluga era una via “normale” di attraversamento delle Alpi.

    tabula

    Claudiano prosegue rievocando la destinazione di Stilicone, la Rezia, caratterizzata dalla presenza del Reno e del Danubio, che nella zona a nord del Lago di Costanza ha in effetti la sua fonte (presso l’odierna Donaueschingen):

                                     … Sublimis in Arcton
    prominet Hercyniae confinis Raetia silvae,
    quae se Danuvii iactat Rhenique parentem
    utraque Romuleo praetendens flumina regno:
    primo fonte breves, alto mox gurgite regnant
    et fluvios cogunt unda coëunte minores
    in nomen transire suum...

    Il poeta ricorda che attraversare queste regioni era, in epoca antica, difficile anche d’estate, ma pressoché impossibile d’inverno, quando freddo, slavine, vie cedevoli al passaggio di carri e di armati rendevano difficili i movimenti. Stilicone però non si lascia scoraggiare:

                                            …Per talia tendit
    frigoribus mediis Stilicho loca. Nulla Lyaei
    pocula; rara Ceres; raptos contentus in armis
    delibasse cibos madidoque oneratus amictu
    algentem pulsabat equum. Nec mollia fesso
    strata dedere torum; tenebris si caeca repressit
    nox iter, aut spelaea subit metuenda ferarum
    aut pastorali iacuit sub culmine fultus
    cervicem clipeo.

    Con un colpo di genio, Claudiano rievoca un episodio probabile, ma non testimoniato, l’incontro di Stilicone con qualche montanaro dall’uno o dall’altro lato del passo, presso il quale ha cercato ospitalità per la notte:

                         …Stat pallidus hospite magno
    pastor et ignoto praeclarum nomine vultum
    rustica sordenti genetrix ostendit alumno.

    Naturalmente, l’impresa riesce, Stilicone raduna e porta in Italia le truppe che gli servono (il viaggio di ritorno, per certi versi ancora più difficile, visto che comportava lo spostamento di un intero esercito, non è raccontato) e, come sappiamo, sconfiggerà, sia pure per poco, Alarico e i suoi uomini. Il poeta può trarre la morale del racconto:

    Illa sub horrendis praedura cubilia silvis,
    illi sub nivibus somni curaeque laborque
    pervigil hanc requiem terris, haec otia rebus
    insperata dabant; illae tibi, Roma, salutem
    Alpinae peperere casae…

    Vengo alla parte escursionistica della proposta. La Valle di San Giacomo conserva molte tracce dell’antica via (“romana”, anche in questo caso; ma anche in questo caso si tratta in realtà della risistemazione, avvenuta nel XVIII secolo, di un antico tracciato del XV) che dal paese di Isola, poco sopra Chiavenna, porta al passo dello Spluga attraverso la gola del Cardinello.

    cardinellop

    Qualche traccia si riconosce anche sul lato elvetico, ma meno bene (la valle di là è molto aperta, ed è stata quindi utilizzata nei secoli per pascoli, malghe e nuove strade, che hanno reso più confuso il territorio; ma è stata anche vittima di una serie di alluvioni e cedimenti del terreno, che hanno reso più difficili le indagini archeologiche). È dunque possibile salire attraverso sentieri lontani dal traffico stradale (la strada statale dello Spluga fu costruita dagli Austriaci tra il 1818 e il 1822 e, qualche variante a parte, conserva l’originario tracciato), andando da Isola a Montespluga – l’ultimo paese in territorio italiano – e tornare poi a Isola con l’autocorriera. È una bellissima via, spesso gradonata nella roccia o intagliata in galleria, e sostenuta a valle, nella parete strapiombante, da muri a secco.

    via spluga

    Da Montespluga è anche possibile compiere un balzo verso la Svizzera, e scendere dal passo verso il paese di Splügen attraverso una serie di scorciatoie che rendono inutile passare per la strada cantonale e abbreviano non di poco le distanze.

    safien01

    Propongo però anche un terzo itinerario, che non coincide con il cammino di Stilicone, ma si limita ad ammirarlo dall’alto. Da Splügen, attraverso sentiero inizialmente mal segnato (che prende comunque avvio dalla prima curva della strada automobilistica che dal paese sale verso il passo; poco oltre la curva è disponibile un parcheggio gratuito – uno dei pochi rimasti in Svizzera!), oppure partendo dalla fermata dell’autobus che lungo la suddetta strada automobilistica porta l’indicazione di Surettaseen, è possibile salire, per l’appunto, ai laghi di Suretta, un meraviglioso balcone sul lato orografico destro del Rheinwald, che permette di godere dall’alto la vista su tutta la conca fino all’Adula (nella prima foto qui di seguito lo si vede a malapena in fondo alla valle, riconoscibile per il suo ghiacciaio), su tutto il vallone che dallo Spluga scende verso il paese di uguale nome e sulla’alta valle del Reno.

    suvretta verso adula

    suvretta verso passo

    suvretta verso rheinwald

    È una passeggiata facile, su sentiero ben segnato, senza difficoltà – solo la parte finale ammette una maggiore impennata. Arrivati ai laghi, una casa di legno, generalmente chiusa, offre ai visitatori una barca a remi con la quale spostarsi sui laghi (va solo riportata a fine giornata al suo posto). I più audaci possono avventurarsi in acqua, se la giornata lo permette. La vista è splendida.

    suvretta1 suvretta2

    Su tutta la conca domina, a fare da contrafforte al passo, il Pizzo Tambò, che si erge maestoso sulla valle, come si vede anche dalla foto di copertina.

    suvretta verso tambò

    In qualcuno dei ricoveri pastorali che costellano la valle sarà forse anche possibile ripetere l’esperienza di Stilicone, per quanto la sorpresa dei montanari moderni sarà, ovviamente, minore che un tempo.

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  • Il muro di Marsiglia

    Il muro di Marsiglia

    In un certamen tenutosi in provincia di Varese (Non omnis moriar, IX edizione; quest’anno organizzato dal Liceo “Daniele Crespi” di Busto Arsizio) è stato presentato ai concorrenti, che erano tutti studenti del secondo anno provenienti da una decina di licei classici della provincia  e di altre province limitrofe, il seguente testo di Cesare:

    Caesar per litteras Trebonio magnopere mandaverat, ne per vim Massiliam expugnari pateretur, ne gravius permoti milites et Massiliensium defectionis odio et contemptione sui et diutino labore omnes puberes interficerent; quod se facturos minabantur, aegreque tunc sunt retenti quin oppidum irrumperent, graviterque eam rem tulerunt, quod stetisse per Trebonium, quominus oppido potirentur, videbatur. At hostes sine fide tempus atque occasionem fraudis ac doli quaerunt interiectisque aliquot diebus nostris languentibus atque animo remissis subito, meridiano tempore, cum alius discessisset, alius ex diutino labore in ipsis operibus quieti se dedisset, arma vero omnia reposita contectaque essent, portis se foras erumpunt, secundo magnoque vento ignem operibus inferunt. Hunc sic distulit ventus, ut uno tempore agger, plutei, testudo, turris, tormenta flammam conciperent et prius haec omnia consumerentur, quam, quemadmodum accidisset, animadverti posset. Nostri repentina fortuna permoti arma, quae possunt, arripiunt; alii ex castris sese incitant. Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Illi sub murum se recipiunt ibique musculum turrimque latericiam libere incendunt. Ita multorum mensium labor hostium perfidia et vi tempestatis puncto temporis interiit.

    Si tratta di un pezzo unitario del De bello civili, che include il finale del capitolo 13 e gran parte del capitolo 14 del secondo libro dell’opera. Il brano si riferisce all’inizio dell’assedio di Marsiglia, cui anche Lucano ha dedicato tanta parte del suo poema (il libro III). Il testo è esattamente quello di Cesare, salvo l’aggiunta della precisazione iniziale dell’oppidum di cui si stava parlando, che in Cesare si ricava dalla continuità di lettura; una nota a piè pagina spiegava anche chi fosse Trebonio. In classe credo che funzionerebbe bene il confronto fra questo brano e la narrazione lucanea, che ovviamente è di tutt’altro tono. Importante mi pare soprattutto la sottolineatura dei Marsigliesi come hostes sine fide perché fanno irruzione fuori dalla città assediata nonostante i Cesariani siano ben disposti verso di loro; Lucano, al contrario, osservando che loro soli si sono opposti all’altrimenti irresistibile avanzata di Cesare, li gratificherà di unici dotati di fides nei confronti di Roma e del suo senato, eppure sarebbero una Graia urbs!: ausa est servare iuventus / non Graia levitate fidem signataque iura, III 301-302. In fondo, Cesare aveva sì raccontato in precedenza che, stretti dall’assedio e già messi in difficoltà dalle operazioni guidate da Trebonio, i Marsigliesi avevano chiesto di attendere l’arrivo di Cesare perché si decidesse la loro sorte; ma, a parte che questo lo dice Cesare, ma non sappiamo se sia vero e gli storici moderni anzi ne dubitano, è invece sicuro che i Marsigliesi avranno ignorato la “clemenza” proposta da Cesare a Trebonio; e nemmeno si capisce come avrebbero potuto essere al corrente dei sentimenti e delle discussioni interne al campo nemico. La loro mancanza di fides si manifesta, di fatto, nell’approfittare di un’occasione propizia per fare una sortita dalla città assediata, e incendiare così parte delle macchine da guerra nemiche: una cosa che, in tempi bellici, sarebbe in effetti illegittima nel caso di tregua giurata fra le parti (come vuole Cesare), ma altrimenti è del tutto ovvia. E anche nel caso di interruzione delle tregua, è comunque avvenimento abbastanza comune per non doversene scandalizzare più di tanto – i paralleli non mancano né nei racconti di Cesare né nella tradizione epica, penso ad esempio al patto giurato e poi violato dai Latini nel dodicesimo libro dell’Eneide. Piuttosto, dal brano si evince come siano i soldati di Cesare a farsi cogliere impreparati di fronte all’assalto, anche se Cesare li scusa ricordando la loro fatica precedente e celebrando la loro pronta capacità di reazione, che subito ribalta le sorti del contrasto e in seguito permetterà di rifare in tutta fretta le opere danneggiate.

    Qui vorrei però concentrarmi su un dato, che è emerso dalla lettura delle prove dei concorrenti al certamen (una settantina circa). Fra i passaggi più difficili da interpretare è risultata la seguente frase: Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Ragione della difficoltà è stata, evidentemente, l’incapacità di molti concorrenti di capire chi siano i fugientes della situazione; chi, di conseguenza, riceva la proibizione di seguirli; di quale muro si tratti; e quale sia il rapporto di sagittis tormentisque con il resto della frase. Ora, un certamen è un certamen, e punta a individuare un podio di possibili vincitori. Una classe è invece una classe, e lì si deve puntare a traghettare al sicuro quanti più studenti possibile, auspicabilmente tutti. Cosa crea difficoltà in questa frase? A mio giudizio, tre cose, che rappresentano però anche tre tipici “errori” del nostro approccio ai testi latini. Vediamoli insieme.

    Il primo errore: l’ignoranza del lessico nelle sue specificità linguistiche. Si tende a dimenticare che ogni parola non significa pressapoco qualcosa, ma esprime un preciso concetto, non confondibile con nessun altro (salvo quando ci siano voluti giochi linguistici da parte dell’autore; ma non è il caso di Cesare). Qui si sta parlando di assedio di una città; da un lato quindi c’è una città fortificata, con le sue mura e le torri di difesa; dall’altro un accampamento provvisorio, ancorché perfettamente attrezzato, fatto in larga parte di legno, per essere facilmente costruibile e facilmente spostabile (vi si segnala infatti, come particolarità, la presenza di una torre di mattoni, turris latericia). Già questo avrebbe dovuto guidare verso l’idea che de muro si riferisca alle mura di Marsiglia e che sia da lì, quindi, che provengono sagittaetormenta (de, con tipico movimento dall’alto verso il basso). Di conseguenza, i fugientes così salvati dall’intervento di provvidenziali aiuti dall’alto devono essere i Marsigliesi, prima vincitori nella loro sortita, poi sorpresi dalla reazione dei Cesariani (già soggetto della proposizione precedente, e quindi sempre loro ad essere prohibiti dall’inseguimento).

    Il secondo errore: la difficoltà di vedere i testi nella loro interezza, limitandosi a tradurli segmento per segmento, man mano che questi si presentano allo sguardo dello studente. Agendo così, è chiaro che ci si trova davanti prima a un de muro poco perspicuo, poi a un sagittis tormentisque che non si sa bene a chi si riferisca ecc. ecc. Ma prima di tradurre ragioniamo sulla continuità del testo, ricordandoci che sì, è vero, in latino la presenza delle declinazioni consente di usare più liberamente le parole rispetto all’italiano; ma anche in latino, nonostante le declinazioni, la posizione delle parole ha pur sempre un significato. Perché allora sagittis tormentisque dovrebbe trovarsi dislocato a sinistra nelle frase, vicino a de muro, e lontano da persequi? Evidentemente, perché a de muro si riferisce, e non a persequi, con il quale non ha nessuna relazione.

    Infine, torno sulla necessità di ragionare prima di tradurre, cercando di visualizzare nella nostra mente quanto l’Autore ci ha detto e ricordando sempre che i testi sono racconti (o argomentazioni), che hanno uno sviluppo consequenziale e logico. Fatto questo, ecco che ogni cosa va subito a posto: Cesare chiede di salvare gli abitanti di Marsiglia, dando per certa la propria vittoria. Quelli, incuranti, tentano una sortita, che all’inizio sembra avere successo e consente loro di incendiare, con l’aiuto del vento, gran parte delle macchine da guerra preparate dai Cesariani. Questi ultimi sono sorpresi in ozio, e dapprima risultano incapaci di difendersi. Poi però reagiscono bene, e fit impetus in hostes, contrattaccano, mettendo in fuga quindi gli assalitori. Ma (sed), in forte opposizione a quanto appena detto, non riescono a portare a termine la loro azione (fugientes persequi prohibentur), poiché impediti, evidentemente, da sagittae e tormenta provenienti de muro. Tanto che i nemici (illi, nettamente diversificati dal precedente soggetto) arrivati sotto le mura cittadine riescono ancora a raccogliersi (se recipiunt) e a fare danni, dei quali lo stesso Cesare lamenta l’entità. Tutto appare logico.

    Non si traduce procedendo a spezzoni, dividendo il testo in sezioni prive di connessione le une con le altre: si traduce comprendendo il testo nella sua interezza e continuità, ed entrando poi nei suoi segmenti specifici. E’ quello che gli antichi chiamavano evidentia. Il Lewis-Short, strumento sempre eccellente, la glossa giustamente con “clearness, distinctness.—In rhet. lang., clearness, perspicuity; used by Cicero along with ‘perspicuitas’, as a translation of ἐνάργεια. La radice, inutile dirlo, è quella di vidēre per il latino, di un aggettivo che significa “luminoso, chiaro” per il greco. Ma io proporrei di pensare anche al greco phantasia (φαντασία) e alla sua relazione con phaino (φαίνω), “mostrare”, e phantazo (φαντάζω), “rendere visibile”. Ecco, diciamo allora così: tradurre è entrare in un testo passando dalla testa del suo Autore. Ma senza fantasia (= ‘capacità di vedere e rendere le cose visibili’), questo non è possibile. Senza fantasia, non si traduce.

     

  • Una gita per l’estate (I)

    Una gita per l’estate (I)

    La stagione che avanza invita a programmare qualche gita fuori porta. Ecco dunque una proposta d’escursionismo praticabile da inizio estate ad autunno inoltrato. Si tratta di una gita in montagna, seguendo percorsi già presenti nelle fonti latine.

    Come si sa, gli antichi non andavano per monti per puro diletto. Nell’immaginario greco la montagna è lo spazio del primitivo, del selvaggio, del ferino (o della regressione allo stato ferino). Nella letteratura latina si parla relativamente spesso di scalate e ardite imprese d’alta quota, ma sono per lo più imprese militari: Annibale che varca le Alpi in Livio, Alessandro che conquista roccaforti sulle vette dell’Himalaya in Curzio Rufo. Le montagne dominano spesso il paesaggio (maioresque cadunt altis de montibus umbrae), sono luogo adatto per la caccia e la pastorizia, si prestano al transito commerciale o militare. Appunto in quest’ultima funzione compare per ben due volte la valle dello Spluga, o Splügen Tal (o Rheinwald, propriamente “bosco del Reno”), ossia la valle dei Grigioni, in Svizzera, che dal passo di San Bernardino scende fino a Coira (la valle che noi in Italia chiamiamo “dello Spluga”, e cioè quella che da Chiavenna si reca al passo dello Spluga, propriamente avrebbe nome di “valle di San Giacomo”). Nei due itinerari previsti dalle nostre fonti è compreso sempre l’attraversamento delle Alpi, e quindi si fa riferimento implicito anche al versante meridionale dei valichi che immettono nella suddetta valle: ossia la val Mesolcina, nei Grigioni italiani, da Bellinzona al passo di San Bernardino; e la già ricordata valle di San Giacomo, da Chiavenna allo Spluga.

    In questo post mi occuperò del primo itinerario, partendo da questa pagina di Ammiano Marcellino (XV 4):

    Re hoc modo finitaLentiensibus, Alamannicis pagis, indictum est bellum, conlimitia saepe Romana latius inrumpentibus, ad quem procinctum imperator egressus in Raetias camposque venit Caninos, et digestis diu consiliis id visum est honestum et utile, ut eo cum militis parte Arbetio magister equitum, cum validiore exercitus manu relegens margines lacus Brigantiae pergeret protinus barbaris congressurus. Cuius loci figuram breviter, quantum ratio patitur, designabo.

    Protagonista del brano è Giuliano: è lui l’imperator citato da Ammiano, Augusto al fianco del più anziano Costanzo. La situazione delineata (prima si era parlato della crudeltà di Costanzo nei confronti degli amici del suo collega) è quella della lunga lotta contro gli Alamanni, qui rappresentati dalla tribù dei Lentienses, accusati di invadere spesso i territori romani. Si decide perciò di intervenire militarmente contro di loro. Luogo dello scontro, che si rivelerà non facile, è il Lago che oggi chiamiamo di Costanza, un’ampia fossa al confine tra Svizzera e Germania, arricchita dalle acque del Reno. Prima di narrare la battaglia, Ammiano indugia però a descrivere il Reno orientale e la sua valle, cioè l’attuale Splügen Tal cui facevo riferimento prima: lì scorre infatti un ramo del Reno, l’Hinterrhein o Reno Posteriore, proveniente dal ghiacciaio dell’Adula (un altro ramo oggi considerato preminente, il Vorderrhein o Reno Interiore, deriva invece dalla collaterale valle dell’Oberalp, e si unisce al primo poco distante da Coira). Come si legge nel brano che ho riportato, Giuliano, partito da Milano (egressus), all’epoca una delle capitali imperiali, si reca in Rezia – la regione che includeva Svizzera centro-orientale, Austria Meridionale e Baviera – e alla località di Campi Canini. Da lì decide di mandare avanti, verso il Lago di Costanza, il magister di cavalleria Arbezione. Ora, Campi Canini è la località comunemente identificata con l’attuale Bellinzona. Per recarsi da Bellinzona al lago di Costanza anche al moderno viaggiatore si aprono, in linea teorica, tre strade: quella del San Gottardo, improbabile, perché difficile e troppo spostata a occidente; la valle del Lucomagno (il nome latineggiante ne indica la natura di lunghissimo anfratto boscoso); oppure, il passo del San Bernardino, per riallacciarsi poi, sull’altro versante, alla strada che scendeva diretta dal passo dello Spluga.

    Se accettiamo l’identificazione di Campi Canini con Bellinzona – comunemente ammessa, ma non accolta da tutti, va precisato – sembra conseguenza obbligata pensare all’attraversamento delle Alpi attraverso la Mesolcina prima, la Splügen Tal poi. In effetti, la presenza dei Romani nella Mesolcina è accertata da una serie di ritrovamenti archeologici (piccoli manufatti), ma nel complesso risulta piuttosto scarsa. Il passo di San Bernardino, ca. 2065 m s/m, Mons Avium nella sua antica denominazione, non compare né sulla Tabula Peuntigneriana né nei principali itinerari antichi. Nell’attuale territorio di San Bernardino rimangono però due elementi a ricordare l’esistenza di antichi passaggi delle Alpi lungo quella direttrice (a parte la sempre significativa onomastica). Il primo è il cosiddetto “ponte romano” – in realtà, un ponte ad arco d’età medievale, costruito sul modello dei ponti romani – che scavalca la Moesa fra Pian San Giacomo e San Bernardino. Ci si può arrivare solo a piedi o in mountain bike. Per farlo, si consiglia di giungere in automobile o in autocorriera fino a San Bernardino (1600 m ca.); di rimontare il lago artificiale posto sotto il paese, fino alla diga che lo chiude verso valle; di scendere poi per un chilometro ca. (una mezz’ora a piedi) lungo la strada forestale, impedita al traffico automobilistico, che scende dall’estremità orografica destra della diga, in direzione appunto di Pian San Giacomo. Una deviazione segnalata indica la vicinanza dell’altrimenti poco visibile ponte.

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    Il lago di San Bernardino (o lago d’Isola) – veduta dalla diga verso il paese e il Pizzo Uccello, m 2717, che fa da testata al Passo di San Bernardino

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    Il ponte romano visto da sud

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    Il ponte romano visto da nord                        (foto di Jacopo Mascheroni)

    La seconda traccia è invece la cosiddetta “strada romana” che consente di salire a piedi al Passo, partendo dalla fine dell’abitato di San Bernardino, dalla frazione che ha nome Albarella, di fronte al grande albergo che domina il luogo (come succede spesso in Svizzera, l’attacco del sentiero è mal segnato; poi, man mano ci si inoltra, le indicazioni si fanno ottimali). Anche in questo caso si tratta, in realtà, di una via d’età medievale, che reca poche e non sicure tracce del periodo romano. Ma è comunque una via lastricata alla maniera antica, che prima – sotto forma di sentiero – attraversa alcuni pascoli; poi si alza a tornanti fra i baranci; infine si inoltra verso il cosiddetto Sass de la Golp, 1980 m ca., segnalato da un cartello turistico; da lì il sentiero prosegue quasi in piano lungo il grande vallone che immette verso il Passo propriamente detto – sempre correndo a fianco, ma su diversa traiettoria, dell’attuale strada cantonale, di cui si può tranquillamente ignorare l’esistenza (la strada cantonale, costruita fra il 1818 e il 1821, fu voluta e in parte finanziata dal Regno di Sardegna, perché attraverso Bellinzona e Locarno consentiva di superare le Alpi aggirando i territori controllati dall’Austria e non pagando quindi dazi alle gabelle viennesi; ma raggiunge, indicandolo come Passo, una diversa infossatura dell’altopiano sommitale della valle). Tornando alla gita a piedi, lungo la parte alta del percorso, dopo il Sass de la Golp abbondano le pietre lastricate alla maniera romana, e poco importa stabilire se siano davvero romane – come si dice di alcune di esse – o solo medievali. Questo è un bellissimo percorso che permette di isolarsi per un’ora circa dal resto del mondo (il dislivello è di soli 400 m e la salita non è mai veramente faticosa), entrando in una dimensione antica, per una strada non difficile da compiere, ma che permette di ammirare, appunto, il sistema di lastricatura antico.

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    Giunti al Passo è possibile tornare a San Bernardino per la stessa via; scendere dall’altra parte, verso l’abitato di Hinterrhein (ma è strada assai meno suggestiva); tornare a San Bernardino attraverso la cantonale, a piedi (con molte scorciatoie) o utilizzando il mitico postale svizzero (il servizio di autocorriere). I più audaci possono portarsi a piedi al piccolo laghetto vicino all’ospizio che abbellisce il Passo moderno, rimontandolo fino all’estremità che si affaccia su San Bernardino. Qui parte un bellissimo sentiero in quota (segnalato), che con diversi saliscendi consente di tornare verso il paese passando per la località alpestre di Confin Basso (la stazione di arrivo degli impianti di risalita per gli sport invernali). Da lì, un rapido ma agevole sentiero a tornanti riporta poi in poco tempo a San Bernardino. Attraverso questa via, non difficile ma lunga, si gode in compenso della visione dall’alto di tutta la conca di San Bernardino, come da un poggiolo sospeso nel nulla.

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    Attenzione, nel mese di luglio l’esercito svizzero spesso usa questa area per le sue esercitazioni di tiro! Meglio informarsi prima della partenza, a scanso di spiacevoli sorprese…

  • Cesare e la provincia d’Asia

    Cesare e la provincia d’Asia

    Facendo seguito al post dedicato a Valerio Massimo (A modest proposal) e ad alcuni esercizi di analisi presenti nella pagina “Scuola” (relativi a passi di Livio, Tacito e Plinio), proponiamo un’analisi che possa servire come spunto di riflessione didattica, a partire da un capitolo di Cesare. Si tratta del capitolo III 32 del De Bello civili. Il lavoro immaginato è da svolgere parte in classe, parte in modo autonomo dagli studenti. Quanto scriviamo mette a frutto un’esperienza maturata presso l’Università degli Studi di Milano (con gli studenti non specialistici, del ciclo triennale) e presso il liceo “Ettore Majorana” di Desio. Incominciamo dal testo:

    Interim acerbissime imperatae pecuniae tota provincia exigebantur. Multa praeterea generatim ad avaritiam excogitabantur. In capita singula servorum ac liberorum tributum imponebatur; columnaria, ostiaria, frumentum, milites, arma, remiges, tormenta, vecturae imperabantur; cuius modo rei nomen reperiri poterat, hoc satis esse ad cogendas pecunias videbatur. Non solum urbibus, sed paene vicis castellisque singulis cum imperio praeficiebantur. Qui horum quid acerbissime crudelissimeque fecerat, is et vir et civis optimus habebatur. Erat plena lictorum et imperiorum provincia, differta praefectis atque exactoribus: qui praeter imperatas pecunias suo etiam privato compendio serviebant; dictitabant enim se domo patriaque expulsos omnibus necessariis egere rebus, ut honesta praescriptione rem turpissimam tegerent. Accedebant ad haec gravissimae usurae, quod in bello plerumque accidere consuevit universis imperatis pecuniis; quibus in rebus prolationem diei donationem esse dicebant. Itaque aes alienum provinciae eo biennio multiplicatum est.

    Prima operazione è stata la sua lettura, compiuta prima dal docente, poi dagli studenti, dopo aver predisposto per loro il capitolo secondo le indicazioni suggerite alla pagina “Scuola”, nel file “Proposte di lettura”. Dopo vario esercizio compiuto autonomamente dagli studenti, e completato in classe ascoltando e discutendo assieme le diverse registrazioni da loro effettuate (o una scelta di esse), ecco la registrazione giudicata migliore. La voce è di Mari Catricalà.

     

    Dopo la lettura c’è stata, ovviamente, la contestualizzazione del brano. In breve: la guerra civile si è spostata verso la parte orientale dell’imperium romano. I due eserciti stanno per scontrarsi a Farsalo. Cesare presenta rapidamente gli avvenimenti ed enumera le provincie schierate dalla parte di Pompeo, cercando di mostrare la loro cattiva amministrazione e l’illegalità del dominio dei Pompeiani. Nel caso specifico, è descritta la provincia d’Asia, provincia particolarmente legata alla figura di Pompeo, che l’aveva annessa all’impero di Roma, e attualmente governata da Publio Cornelio Scipione (che Cesare però non nomina mai), oligarca di antica famiglia e suocero di Pompeo. Cesare accusa gli avversari per l’eccessiva tassazione (necessità imposta, a loro dire, dai tempi militari e dalla loro situazione, in quanto lontani dall’Italia e dall’erario di Stato), l’eccessiva densità di magistrature nella provincia, la crudeltà e il comportamento ingeneroso nell’esazione delle tasse. Nel corso del capitolo, in più occasioni, Cesare lascia anche intendere che le ragioni addotte dai Pompeiani sono pretestuose e fasulle, un ritornello propagandistico svuotato di senso reale, mentre i nemici, in realtà, esercitano le loro vessazioni per puro tornaconto personale. Il suo è quindi un attacco diretto, che però non vuole troppo apparire tale.

    A livello sintattico, si riconosce una prima parte, semplice, lineare, fortemente scandita e ritmata, marcata dalla presenza del verbo principale in fine di frase (la paratassi è nettamente prevalente sulla ipotassi) e dalla successione di desinenze di imperfetto passivo o impersonale, alla terza persona, singolare o plurale (-bantur / -batur). Segue una seconda parte, che inizia con Erat provincia: il verbo è qui quasi sempre in prima posizione, e la costruzione sintattica tende a farsi più complessa. Dal punto di vista del pensiero la divisione è però ternaria: la prima frase, introdotta dal connettivo interim, sottolinea la simultaneità cronologica con quanto narrato in precedenza ed enuncia il thema (= l’argomento) del capitolo; poi, aperta da Multa praeterea e fino a donationem esse dicebant, segue una serie di exempla, che dovrebbero dare forza all’idea espressa dall’autore (gli esempi proposti restano però generici e non assumono mai la forma di casi specifici). Infine, introdotte da itaque, arrivano le conclusioni dell’autore, che presentano le conseguenze dell’azione dei Pompeiani.

    Nel lessico del capitolo si riconoscono alcuni termini tecnici del linguaggio giuridico/amministrativo, potenzialmente neutri ed asettici, mescolati però in callidae iuncturae (e spesso in endiadi) con parole, al contrario, fortemente connotative, portatrici del giudizio dell’autore. In particolare vanno segnalati il passaggio, nel definire la tassazione, da imperatae pecuniae (termine neutro, ma ossessivamente ripetuto in più forme) a tributum; la successione servorum ac liberorum [capita], che fa precedere gli schiavi ai liberi cittadini; l’endiadi acerbissime crudelissimeque facere (in cui il primo avverbio riprende e specifica l’acerbissime iniziale, allora lasciato senza commenti); espressioni fortemente connotate come avaritia [“avidità”], domo patriaque expulsi [dove “expulsi” sottintende la rapidità della loro fuga dall’Italia e l’efficacia dell’azione cesariana, che di quella fuga era stato artefice], privato compendio servire [dove “compendium” è il tornaconto personale, il guadagno privato, qui rafforzato da due aggettivi, suum e privatum che ribadiscono l’idea e da un verbo, servire = “essere schiavi” di assai forte significato espressivo]; il gioco di parole sulla provincia plena e referta (che implica la metafora non sviluppata di un convitato saturo); l’accumulo di termini simili (le otto forme di tassazioni elencate all’inizio; le quattro tipologie di magistrati ricordate a metà capitolo); la costruzione a zoom di talune frasi (ad esempio nel nesso non solum urbibus, sed paene vicis castellisque, con progressivo, ma significativo, restringimento dell’obiettivo); l’accurata disposizione dei termini (acerbissime, all’inizio, unito apò koinoù sia a imperatae che a exigebantur), oppure la loro insistenza (ad es. la ricorrenza di singula: tali sono i capita delle vittime; ma tali sono anche i villaggi saccheggiati, a delineare una rete dalla quale nessuno si salva). Alle figure dell’accumulo e dell’endiadi si aggiungono poi l’evidente ricerca di omoteleuti in contesti di particolare sgradevolezza (servorum ac liberorum, per dirne uno; oppure prolationem/donationem); l’enfasi pomposa, facilmente riconoscibile, di et vir et civis optimus, che svuota di senso le parole dei Pompeiani; l’uso del frequentativo dictitabant, che abbassa a livello di slogan le giustificazioni addotte dagli uomini di Pompeo… Infine, l’omoteleuto a rima prolationem/donationem – quest’ultimo facilmente sostituibile con il più semplice e comune donum – riduce a vacua filastrocca la concessione che i Pompeiani sono disposti a fare alle loro vittime (più uno scherno che una vera concessione), e toglie verità alla precedente concessione fatta da Cesare, quod in bello plerumque accidere consuevit: espressione in apparenza magnanima ed elegante, smentita però dalla descrizione dei comportamenti dei Pompeiani, tutt’altro che giustificati dalle circostanze esterne. Sarà anche una consuetudine dei tempi di guerra quella che viene descritta, ma il lettore abbia bene in mente che con i Pompeiani questa consuetudine assume forme di vera crudeltà (acerbissime crudelissimeque facere) e risponde in realtà a puro tornaconto personale (suo privato compendio serviebant).

    Nella pratica della classe queste indicazioni sono state ricavate dopo la lettura e prima della traduzione sistematica del brano, sollecitando gli interventi degli studenti attraverso una serie appropriata di domande, di modo che loro percepissero come proprie acquisizioni i vari elementi che via via venivano sottolineati. Ovviamente, le domande erano già strutturate in modo tale da suggerire osservazioni ed interpretazioni alle quali, suppongo, gli studenti non sarebbero arrivati da soli (o sulle quali  non si sarebbero probabilmente soffermati). Alla fine del dibattito, durato ca. un’ora, si è passati alla traduzione, divenuta così il termine di un lento processo di avvicinamento al testo, e non l’operazione sulla quale buttarsi a capofitto fin dal principio, senza avere prima ragionato sulle dinamiche e le parole del capitolo.

    Da ultimo, è stata assegnata agli studenti la prova di verifica, che ha preso la forma di una serie di domande strutturate nelle tre parti evidenziate durante l’analisi: struttura del brano, lessico in uso, contenuto complessivo. Allego in due pdf il testo della verifica e un esempio di risposta. Ne è autore lo studente Massimo De Marchi.

    matrice

    esempio di svolgimento