The Italian language è il titolo di un video su youtube, reperibile entro il canale “Langfocus”, nel quale un giovanotto di poco più di trent’anni, bella presenza e irreprensibile inglese, dà lezione di lingue agli utenti del canale stesso. A partire dal 1 novembre scorso il giovanotto, di nome Paul Jorgensen, che si dichiara canadese ma vive in Giappone ed è desideroso, dice, di condividere con il mondo intero la propria passione per le lingue moderne, offre una lezione di italiano, o almeno segnala in un video alcune caratteristiche specifiche della lingua italiana. Due anni fa, Paul aveva dedicato un altro video ai dialetti della nostra penisola, e prima ancora dei video alle somiglianze fra italiano e francese e italiano e spagnolo; ma, nello spirito di internet e di youtube, Paul non sembra davvero interessato a realizzare un corso di lingua, quanto piuttosto a saltabeccare di linguaggio in linguaggio, alla ricerca di sempre nuovi spettatori, senza soffermarsi su nulla. Perché allora dedicare spazio a questa esperienza? Perché vi trovo qualcosa di interessante, al di là degli esiti (e di qualche imprecisione, che tutti facilmente riconosceremo). Ecco allora, per iniziare, il rimando al video:
Al momento in cui scrivo, il video gode di 180.000 visualizzazioni (in poco più di una settimana), 9.500 segnali espliciti di favore, 115 di dis-favore (chissà se riferiti a Paul e a quanto dice, o all’italiano come lingua), 3.250 commenti, nessuno dei quali, a dire il vero, meritava di essere scritto…
Agli esperti di Italiano L2 chiedo di giudicare il valore di questo video, cosa che naturalmente faccio fatica a cogliere fino in fondo. Alcuni elementi mi hanno però colpito, e li riporto qui alla discussione con l’idea che, quantunque il latino non possa essere insegnato fino in fondo come L2, tuttavia da quella esperienza si deve cercare di ricavare quanto più è possibile di utile anche per l’insegnamento del latino.
Ecco allora il primo dato che mi piace segnalare: Paul inizia il suo video con quello che chiameremmo un brain storming circa la diffusione dell’italiano, un dato non necessariamente presente alla coscienza dei suoi spettatori, che si immaginano per lo più anglofoni. L’italiano viene esaltato indipendentemente dalla comunità relativamente ristretta dei suoi parlanti (minoritaria, come si dice all’inizio, rispetto ad altre lingue romanze come francese, spagnolo, portoghese). Questo “storming”, ed è la cosa che vorrei sottolineare, si realizza sul doppio piano del lessico e del rilievo storico della cultura italiana, l’uno e l’altro elemento essendo intesi come le sole argomentazioni veramente motivazionali.
Seconda osservazione: Paul ricava ogni regola grammaticale (perfino quelle fonetiche) non in astratto, e non precedentemente all’esame delle frasi italiane, ma partendo da frasi italiane. Le frasi che presenta non sono costruite sulla grammatica, ma è la grammatica che viene ricavata da esse. Si comincia con parole singole, entrate nel lessico dell’inglese (“Ciao” lo si sente dire per le vie di New York, e non solo da nativi italiani), e si passa subito dopo a frasi già più strutturate (“Mi scusi”, “Capisco/Non capisco”; “Dov’è la stazione?”), e perfino relativamente complesse, dotate però di un senso compiuto e di un uso possibile nella conversazione quotidiana, se non proprio comune (“Marco parla italiano e inglese”; “Ho mangiato il mio cibo preferito per pranzo, oggi: lasagne”; “Lei sta indossando una bella maglietta”).
Terza cosa: la traduzione si accompagna sempre alle singole frasi, ma non è lo scopo prefisso. Paul accetta una traduzione grammaticalmente errata quando sottolinea che l’inglese avrebbe dovuto anticipare l’aggettivo rispetto al sostantivo, ma che la posizione dell’aggettivo in italiano è significativa e quindi non può essere cambiata a piacere (perciò, seguendo la frase italiana, “il mio cibo favorito” è tradotto “my food favorite”, anche se l’inglese avrebbe preferito “my favorite food” – una semplice verifica su “google” dimostra come il motore di ricerca, a mettere le parole nell’ordine italiano, immediatamente le ricorregge, offrendo decine di esempi di “my favo(u)rite food”, e nessuno dell’altra forma). Può sembrare una sciocchezza, ma secondo me non lo è. Accettando una traduzione scorretta, Paul indica che la traduzione è uno strumento di comunicazione con il pubblico, ma non il fine che si propone con la propria opera di docente. Per questo non modifica la struttura dell’italiano per accordarla all’inglese, e rispetta la lingua di partenza più che quella di arrivo. In altre parole, non trasforma l’italiano in inglese, ma lo legge come è e per quello che è. Viceversa, a me sembra che nella prassi scolastica italiana ci sia ancora molto forte il tentativo di trasformare il latino in italiano, di adeguarlo a una struttura sintattica e di pensiero che non è la sua, invece di cogliere quello che il latino dice a livello di disposizione delle parole, di strutturazione della frase, di collegamento di ogni parte con le altre. Può sembrare una pedanteria, ma anche a livello “alto”, di traduzione/comprensione di testi (quello universitario, di cui posso farmi testimone), vedo che una percentuale fortissima di errori deriva proprio dall’abitudine di trasportare le parole per ricostruire un presunto loro ordine (che non è quello dell’autore, e non è quello del latino), con annessa poi l’incapacità di cogliere le connessioni logiche proposte dal testo nella sua facies originale. Naturalmente, anche nel metodo di Paul c’è un prezzo da pagare, e lo paga secondo me anche lui, quando traduce “Lei sta indossando” in “You/she stay/stays wearing”, pur segnalando che il verbo stare in italiano esprime il present continuous – ma il present continuous in inglese si esprime normalmente con le forme del verbo to be, e una frase con to stay suona costruita sul modello di They stayed talking until well into the night, cioè “rimasero [dove erano] a parlare fino a notte tarda” (nel caso in questione, dunque, la traduzione proposta da Paul suonerebbe qualcosa come: “Lei rimase dove stava, indossando una bella maglietta”, che non è l’equivalente della frase italiana di partenza). Per la correzione del concetto dobbiamo aspettare la lezione due? E’ probabile.
Perché questo è un altro fatto che colpisce: come detto, Paul non enuncia prima la regola grammaticale, poi la sistematizza, e infine la ricerca su un testo che ne sia in qualche misura illustrativo, ma parte dal testo (le frasi); individua nel testo quanto ritiene importante mettere in evidenza per una loro immediata comprensione; offre una rapida sistematizzazione di alcuni concetti base, a completamento della comprensione della frase (i menù a tendina); e, immagino, nella lezione numero due, e in tutte quelle a venire, sarà più che disposto a tornare sugli stessi argomenti e a offrire nuovi esempi e, soprattutto, nuove e più complete sistematizzazioni dei medesimi fenomeni, almeno fino a quando questi non siano divenuti automatismi immediati per i suoi ascoltatori/allievi. Però, nel meccanismo, si avverte una piccola rivoluzione copernicana rispetto a quanto è (ancora) in uso in molte scuole (lo ricavo da una recente discussione a tavola, alla presenza di dottorandi alle prime armi con l’insegnamento liceale). “Ho mangiato il mio cibo preferito per pranzo, oggi: lasagne” è infatti una frase dotata di senso e relativamente complessa, che suggerisce l’idea che l’italiano dica cose, e cose relativamente importanti e complesse (anche se i commenti, spiritosamente o malignamente che sia, osservano che dal video l’italiano sembra parlare solo di cibi e vestiti…). Domandiamoci: quando mai i nostri studenti “usuali” di latino avrebbero potuto affrontare una simile esperienza, che richiede conoscenza del perfetto (“ho mangiato”), della seconda declinazione (“il mio cibo preferito”), della prima classe degli aggettivi (“mio” e “preferito”: peraltro, di norma, nelle grammatiche scolastiche i possessivi costituiscono una lezione a sé, rispetto ai “normali” aggettivi a tre uscite della prima classe), dell’avverbio di tempo? A quale punto dell’anno? Certo, non alla loro prima lezione di latino! Naturalmente, non tutto quello che Paul dice risulterà chiaro a chi l’italiano non lo conosca di suo; e non tutto quello che dice è completo. Ma, evidentemente, non è questo lo scopo cui guarda. Lo scopo è far leggere una frase (relativamente) ampia, e farne capire le parti principali. Sul resto, si tornerà di fronte a ulteriori frasi, ulteriormente complesse.
Infine, l’ultima osservazione. Torniamo alla frase “Lei sta indossando una bella maglietta”. Paul osserva una cosa per me importantissima, e cioè che non si sa bene come tradurre la frase, perché in italiano “Lei” può stare sia per l’inglese “You”, sia per l’inglese “She”. L’incertezza, osserva Paul, quasi scusandosene, è dovuta a un errore suo, dato che la frase è stata presentata “without context”, mentre non si sarebbe potuta dare confusione circa la natura del soggetto di cui si sta parlando entro un contesto reale, o almeno realistico. Anche questo a me sembra un dato significativo. Le frasi da proporre non possono essere escluse da un contesto di appartenenza, nemmeno alla prima lezione. Farlo è un errore, come riconosce Paul, che suggerisce l’idea che l’italiano (il latino) sia una lingua imprecisa, che non dice cose precise, esatte, ma solo un “pressapoco”. Meglio non cogliere tutta la completezza delle informazioni grammaticali di un testo, o meglio non cogliere il senso pieno di un testo? Con Paul, io mi schiero senz’altro per la prima opzione. Dove si toglie la logica, si toglie l’interesse per una lingua e le sue forme, forme grammaticali incluse.
Questa risposta probabilmente non sorprenderà l’autore del post, che condivido largamente (questo sì, forse lo stupirà). Per una strana coincidenza in questi giorni sto appunto riflettendo (I stay reflecting???) sull’utilità o meno di un esercizio di traduzione dal latino e sto appunto tentando di scrivere un post sull’argomento. Mi sono infatti ritrovata a insegnare in due corsi universitari miranti a un esame che implica una traduzione, due corsi completamente differenti, visto che uno è rivolto a studenti del primo anno della triennale e l’altro a studenti della magistrale. Commentando le traduzioni in classe e le variegate proposte degli studenti, soprattutto correggendo gli elaborati finali, mi sono accorta che è necessario utilizzare due pesi e due misure. Perché una cosa è una traduzione che definerei “grammaticale” e un’altra quella che definirei “libera e personale”; nel primo caso devo correggere gli errori morfologici, lessicali e sintattici, perché il mio compito consiste nell’insegnare una lingua corretta, nel capire se lo studente sa riconoscere i casi, le concordanze, i tempi verbali e quant’altro; nel secondo caso, invece, mi preoccupo maggiormente della resa in lingua italiana, cerco di capire se lo studente ha compreso il testo e ne ha saputo dare una sua versione rispettosa del testo, e poco importa a volte se un piuccheperfetto è stato tradotto con un passato remoto…..
È noto che il metodo tradizionale di insegnamento del latino è considerato poco stimolante e forse poco utile, è noto che esistono altri metodi per insegnarlo, ma non voglio entrare in merito. Però, secondo me, per apprendere in modo adeguato anche una lingua moderna la grammatica è necessaria. Mi ricordo che, quando studiavo lingue straniere, mi accorsi che il mio inglese migliorò notevolmente dopo essermi concentrata sullo studio della grammatica, arrivando con gli anni a una conclusione paradossale, e cioè che lo studio della grammatica pura – che per me possiede un suo fascino e una sua bellezza – è veramente utile soltanto quando si ha già una buona conoscenza della lingua che si sta studiando! Tuttavia, qualche cosa di grammatica bisogna imparare fin da subito: da qualche mese sto studiando arabo e di regole grammaticali me ne hanno insegnate pochissime; però, ad esempio, se non mi fossi fatta uno schema sul presente dei verbi che cerco di ripetere il più possibile, adesso avrei una grande confusione in mente. Certo, è più divertente e stimolante imparare da piccole frasi, creare con fatica una piccola conversazione, ma credo che prima o poi, se vorrò parlare un arabo corretto e magari un poco raffinato, la grammatica pura me la dovrò studiare.
Infine, per concludere, tradurre a volte è davvero necessario: provate a leggere Shakespeare o Balzac in originale. Io, ma forse solo io, a volte devo tradurre nella mia lingua, altrimenti rischio di non capire nulla.