Può essere interessante proporre un’analisi delle commedie plautine a partire da un punto di vista inedito, trascurato dalla critica, anche quella “ufficiale”. Mi riferisco alla tecnica dell’“a parte”, quell’artificio teatrale che, già presente nel teatro greco, ha conosciuto in epoca contemporanea un importante sviluppo, soprattutto come strumento d’indagine della psiche e dei pensieri più profondi dei personaggi che agiscono in scena, che così possono essere svelati e condivisi con il pubblico.
Ma che cosa è, propriamente, un “a parte”? L’“a parte” si realizza quando un personaggio parla direttamente al pubblico, con l’intenzione precisa di non farsi sentire dagli altri personaggi che condividono con lui, in quel momento, il palcoscenico. La tecnica si rivela quindi come una voluta rottura della finzione teatrale, la cui efficacia dipende dal legame che palcoscenico (attore) e platea (pubblico) instaurano nel corso della messinscena. Le parole pronunciate in “a parte” godono infatti di uno statuto speciale, perché sono udite solo dal pubblico per una precisa scelta del personaggio e, ovviamente!, del commediografo che gliele fa pronunciare. L'”a parte” mette in discussione anche il rapporto tra attore e personaggio. Nella realizzazione di un “a parte”, infatti, l’altro personaggio presente in scena non sente le battute pronunciate, ma l’attore che lo incarna ovviamente sì, anche perché deve sapere quando replicare con le sue battute, collegandosi all’azione che si sviluppava prima dell'”a parte”, in modo tale da far procedere l’azione. A essere coinvolta è quindi l’intera dimensione finzionale del teatro, rispetto alla quale Plauto dimostra grande consapevolezza, al punto da non perdere occasione di usare questo artificio, come altri, quale strumento di riflessione sul teatro stesso.
La situazione per cui le parole di un personaggio non sono udibili da un altro personaggio, pur presente in scena insieme con lui, potrebbe infatti risultare poco credibile, se non venisse preparata adeguatamente. Perché l’“a parte” funzioni è necessario che il pubblico capisca la situazione e sia in grado di tracciarne i confini. Da questo punto di vista risultano utili i segnali discorsivi che accompagnano l’entrata e l’uscita dall’“a parte”. Questi segnali servono anche per dedurre qualche informazione circa le modalità della rappresentazione stessa, costituendo dei veri e propri elementi di regia. Posta la difficoltà per noi moderni di ricostruire la messinscena nel mondo antico, è bene sottolineare che l’”a parte” è innanzitutto un fatto testuale. È chiaro che la sua piena realizzazione prende corpo nella messinscena, ma è altrettanto vero che esso resiste alla lettura, ragione per cui sono possibili alcune osservazioni registiche al riguardo. Due sono le modalità di realizzazione di un “a parte”: nel primo caso, la battuta viene pronunciata da un personaggio non visto dagli altri presenti in scena; nel secondo caso l’“a parte” si presenta come un’interruzione nell’andamento di un dialogo o come una sua introduzione. A queste due modalità corrispondono dei segnali discorsivi precisi. Essi sono volti, nel primo caso, a dichiarare il mettersi in disparte dei personaggi, per meglio origliare il monologo o il dialogo degli altri personaggi presenti sul palco, e, allo stesso modo, il loro successivo andare incontro a questi ultimi quando hanno deciso di porre fine alla loro segregazione; nel secondo caso, i segnali discorsivi servono a sottolineare la mancata percezione da parte degli altri personaggi delle parole pronunciate da chi si esprime nell’“a parte”. Per chiarire: se un personaggio pronuncia le sue battute in “a parte”, non visto dagli altri, di cui sta però ascoltando la conversazione, nel dialogo plautino sono spesso presenti espressioni come sermonem accipere, sermonem captare, subauscultare, clam, clanculum, concedere, abscedere. Se invece un personaggio interrompe il dialogo per concedersi un “a parte”, nel testo si trovano, in bocca al suo interlocutore, espressioni come quid te solus tecum loquere?, quis hic loquitur? ecc., che indicano chiaramente che le parole pronunciate in “a parte” non sono state sentite.
Ma come si comportano gli altri personaggi in scena, mentre viene pronunciato un “a parte”? Chi condivide in quel momento il palcoscenico, può comportarsi in due modi: o immobilizzarsi, creando una sorta di fermo immagine (molto funzionale nel caso dell’interruzione del dialogo), o proseguire il proprio movimento scenico (soluzione più adatta quando il personaggio che si esprime in ” a parte” non solo non viene udito, ma nemmeno visto dagli altri personaggi in quel momento in scena).
Risolti questi problemi di carattere generale, resta da osservare che l’“a parte” non è un espediente raro e ricercato nel teatro plautino. Le battute pronunciate in “a parte” sono, nelle commedie a noi pervenute, più di cinquanta. Un numero così elevato richiede una riflessione: qual è la finalità cui Plauto tende con questa tecnica? Propongo di individuare almeno cinque scopi diversi (anche se non sempre così nettamente distinti, come invece li dividerò ora) : far ridere, creare un equivoco, commentare lo sviluppo dell’intreccio, commentare una questione di attualità, svelare la natura metateatrale di una scena. Vediamone alcuni esempi.
Far ridere
L'”a parte” è uno degli strumenti di cui Plauto si serve per suscitare la risata. La tecnica assolve in maniera efficace allo scopo comico, perché crea un doppio livello di ascolto: uno legato al mondo rappresentato, l’altro di commento a tale finzione. A ciò corrispondono inevitabilmente due differenti visioni di quanto accade in scena. In alcuni casi i commenti “a parte” servono a rendere caricaturale un personaggio, enfatizzandone i tratti comici; in altri, ad abbassare il tono del discorso, in modo da creare un rovesciamento, che sorprende lo spettatore perché contrario alle sue aspettative. Nell’Aulularia, ad esempio, l’incontro tra l’avaro Euclione e il vecchio Megadoro non avviene secondo il normale andamento di un dialogo: Euclione infatti, servendosi dell’“a parte”, interrompe continuamente la conversazione per esprimere il suo timore per l’incolumità della pentola in cui ha nascosto il suo denaro (vv. 183-199). Agli occhi dello spettatore si rivela così la psicosi del vecchio, che vive nel costante terrore che l’adorata pentola gli venga rubata, al punto da fraintendere le intenzioni di chiunque gli si accosti per parlargli. Sempre rivolgendosi a Megadoro (vv. 543-549), Euclione interpreta a modo suo tutte le affermazioni del vecchio: preoccupato che possa avere scoperto l’oro, si affretta a dichiarare la propria condizione di povertà (Neque pol, Megadore, mihi neque cuiquam pauperi, opinione melius res structa est domi). L’intento di Megadoro è quello di sposare la figlia di Euclione senza nemmeno esigere una dote, per questo cerca di rassicurarlo, affermando che i suoi beni non solo resteranno immutati, ma saranno addirittura accresciuti (immo est et di faciant ut siet, plus plusque et istuc sospitent quod nunc habes). Euclione però non è ancora a conoscenza delle intenzioni del vecchio e crede che Megadoro sappia della pentola (Illud mihi verbum non placet ‘quod nunc habes’. Tam hoc scit me habere quam egomet. Anus fecit palam). Come si può notare, i commenti “a parte” di Euclione non fanno altro che evidenziare il suo continuo vivere in una condizione di sospetto, di timore. Questa modalità rende caricaturale la figura dell’avaro, i cui unici pensieri sono rivolti alla al proprio denaro e alla pentola che lo contiene. Anche Molière, nella sua riscrittura L’Avare, presenterà il vecchio Arpagone nel costante timore di essere derubato, provando come la comicità plautina sia riuscita ad attraversare, immutata, i secoli.
Creare un equivoco
Lo scambio di persona è un espediente caro a Plauto. Nelle commedie dei simillimi (Amphitruo, Bacchides, Menaechmi), l’intreccio muove proprio a partire da un equivoco di questo tipo, che genera forte comicità. È spesso attraverso l’“a parte” che i personaggi dichiarano il loro essere caduti in errore, consentendo così al pubblico di comprendere la serie di fraintendimenti che lo scambio di persona determina nel corso dell’intreccio. Uno degli esempi più divertenti è offerto dai Menaechmi. Lo scambio involontario tra Menecmo I e Menecmo II ha consentito a quest’ultimo di banchettare piacevolmente in compagnia di una donna (l’amante di Menecmo I) e di ricevere beni preziosi senza avere speso nulla. Quando poi Menecmo II incontra la moglie di Menecmo I, quest’ultima lo scambia per suo marito; non trovando altra via d’uscita, Menecmo II si finge allora pazzo, costringendo la donna a chiamare suo padre e un medico. Approfittando di una distrazione della donna, Menecmo II fugge, ed è proprio a questo punto che entra in scena Menecmo I (vv. 910-922). Incollerito per essere stato messo alla porta dalla sua amante (è infatti Menecmo II ad essersi goduto il banchetto!), risponde con ira alle domande del medico (Quin tu is in malam crucem?), volte a chiarire la sua sanità mentale (Dic mihi hoc quod te rogo: album an atrum vinum potas?); nella reazione di Menecmo I il medico e il suocero leggono chiari sintomi di pazzia (Iam hercle occeptat insanire primulum; Audin tu ut deliramenta loquitur?). Solo con lo scioglimento dell’intreccio viene fatta chiarezza sulla vicenda, che si chiude con il reciproco riconoscimento dei gemelli. Perché l’equivoco funzioni è necessario che la coppia di simillimi non sia mai in scena nello stesso momento, ma che lo spettatore sappia sempre (ed è qui che ha il suo ruolo l'”a parte”) quale fra i due gemelli è quello in quel momento in scena (se segni esteriori differenziassero i due personaggi, verrebbe meno la credibilità complessiva del racconto). La grande capacità di Plauto nel variare su uno stesso tema lo ha però portato a elaborare anche un’eccezione alla prima regola: l’Amphitruo. La commedia si apre infatti con l’incontro della coppia di identici, Sosia e Mercurio, e tratta, per la prima volta nella storia della letteratura occidentale, il tema esistenziale del doppio, i cui risvolti (allo stesso tempo comici e drammatici) sono di nuovo messi in risalto proprio attraverso la tecnica degli “a parte”.
Commentare lo sviluppo dell’intreccio
Talvolta l’“a parte” viene sfruttato per chiarire lo sviluppo dell’intreccio, ora facendo il punto della situazione che si è creata sul palco, ora per dichiarare i propri intenti, rendendo così il pubblico abile alla comprensione di quanto si svolge sotto i suoi occhi. Inoltre, nei casi in cui il personaggio che recita in “a parte” non solo non viene udito, ma nemmeno è visto dagli altri personaggi presenti in scena, egli è messo in condizione di origliare le conversazioni altrui. Ne consegue che il personaggio in questione possa venire a conoscenza di informazioni che sarebbero dovute restare segrete, determinando così una svolta nell’azione scenica. È il caso del servo Calino nella Casina (vv. 467-489). Origliando la conversazione del vecchio Lisidamo e di Olimpione (huc aures magis sunt adhibendae mihi), Calino ne scopre le trame (Nunc pol ego demum in rectam redii semitam: hic ipsus Casinam deperit. Habeo viros!) e corre a riferirle a Cleostrata, moglie di Lisidamo, che preparerà una vendetta umiliante per il marito: Lisidamo si troverà infatti a letto con il servo Calino, travestito dalla bella Casina.
Commentare questioni di attualità
Il teatro plautino è spesso portato a riflettere sulla realtà in cui vive. Scopo primario delle commedie plautine è certo far ridere, senza velleità rivoluzionarie o sovversive; è però vero che al loro interno si possono individuare alcune riflessioni di carattere culturale e pedagogico, per noi importanti, perché veicolano informazioni circa la realtà, i costumi e gli usi al tempo di Plauto. Uno spunto particolarmente interessante riguarda l’opinione plautina sulla filosofia, che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi a Roma. Mi riferisco in particolare all’uso del verbo philosophari nei Captivi. Dopo essersi scambiati identità, Filocrate e il suo servo Tindaro vengono interrogati dal vecchio Egione, loro padrone; mentre Filocrate risponde alle domande di Egione, Tindaro commenta “a parte” le parole del giovane, facendo riferimento, nel giro di pochi versi, a Talete di Mileto e servendosi del verbo philosophari (vv. 271-276; 283-284). Ma qual è l’immagine che Tindaro ci presenta? Sembra che per il servo la filosofia sia un mezzo per ingannare le persone e non per cercare la conoscenza. Talete, a paragone di Filocrate, non è che un nugator, per il quale Tindaro non spenderebbe nemmeno un talento (Thalem talento non emam Milesium). Ma c’è di più: quando Filocrate parla della morte, da sempre tema centrale nel pensiero filosofico, Tindaro afferma che il giovane, oltre ad essere bugiardo (non mendax modo est), starebbe anche facendo della filosofia (philosophatur quoque iam).
Svelare la natura metateatrale di una scena
All’interno del corpus plautino, un esempio emblematico dell’uso dell’“a parte” si può trovare ancora una volta nell’Amphitruo. Nell’incontro tra Sosia e Mercurio, Plauto dimostra la sua capacità di giocare con il genere comico, sovvertendo e modificando lo statuto di alcune tecniche. Il dialogo si svolge su due direttrici fondamentali, una di Sosia, l’altra di Mercurio, che si intrecciano e si ribaltano nel corso della scena. Tutta la prima parte è infatti occupata dal monologo di Sosia, inframmezzato dai commenti “a parte” di Mercurio; il verso 292 fa da spartiacque, perché a quel punto Sosia si accorge di non essere solo e la situazione si ribalta: al verso 300 Mercurio attacca con il suo monologo e a commentare “a parte” ora è Sosia. Se nel corso del dialogo è possibile individuare ciascuna delle casistiche evidenziate in precedenza, la scena offre un ulteriore spunto. Il dialogo tra i due personaggi non è alla pari: Mercurio, in quanto divinità, sta al di sopra di Sosia e orienta la conversazione per spaventare l’interlocutore e rubarne l’identità. Il dio, fingendo di non aver visto Sosia, pronuncia il suo monologo mentre il servo può commentare “a parte”. Come osservato, è comune una dichiarazione d’intenti dei personaggi che si preparano a recitare in “a parte”, e così fa anche Mercurio, ma con finalità opposta, cioè con l’intenzione precisa di farsi sentire (Clare advorsum fabulabor, hic auscultet quae loquar. Igitur magis modum maiorem in sese concipiet metum). In questo modo, tutti i commenti “a parte” di Sosia (che crede di non essere sentito, e cerca una complicità con il pubblico, a danno di Mercurio, ignorando che in realtà il pubblico è già stato informato e reso a sé solidale dal dio) si tingono di forte, ulteriore comicità.
La varietà di casistiche offerte dai testi plautini costituisce dunque un buon punto di partenza per chi voglia cimentarsi nello studio di questo poeta. Va da sé che la suddivisione proposta è specifica dei testi plautini e, per poter essere applicata anche ad altri autori, richiede di essere ridiscussa; ma è altrettanto vero, come già si è accennato, che gli strumenti del teatro comico non sembrano differire poi troppo nel trascorrere da un autore a un altro, da testo a testo, da epoca a epoca. Lo studio degli “a parte” rivela la modernità del comporre plautino, nel quale troviamo già definite molte delle strategie comiche ancora oggi efficaci. Non vanno sottovalutati nemmeno l’alto grado di consapevolezza con il quale Plauto fa uso di questo espediente e l’abilità da lui dimostrata nel porre l’attenzione sul ruolo del pubblico e sul patto esistente tra autore/attori e spettatori: condizione essenziale per rendere possibile il teatro…
© Agnese Di Girolamo, 2020