Testi Esercizi


Autobiographie

Almeno in apparenza noi tutti crediamo di sapere intuitivamente che cosa sia un’“autobiografia”, vale a dire, secondo i termini greci che compongono la parola (auto = proprio; bioç = vita; grajein = scrivere), la testimonianza scritta della propria vita. E almeno di primo acchito noi tutti tendiamo a considerare questo genere come un fenomeno universale, proprio di tutti i tempi e di tutte le culture, poiché da sempre l’uomo ha cercato di lasciare una testimonianza di se stesso e quindi, in modo più o meno diretto, anche della propria vita. In realtà, tuttavia, proprio la definizione di questo genere apparentemente così semplice ha creato non poche difficoltà alla scienza della letteratura, mentre d’altra parte la comparsa stessa del termine “autobiografia” risale non a caso solamente alla la fine del Settecento (Herder parla per primo di “Selbstbiographie”), il secolo in cui anche lo sviluppo stesso del genere raggiunge il suo grado più alto, per poi proseguire durante tutto l’Ottocento ed esaurirsi, almeno in parte, o cambiare forma e significato durante il Novecento.
    Per capire le difficoltà incontrate dalla critica nel definire il genere, possiamo partire dalle componenti stesse del termine e quindi della sua definizione provvisoria quale “testimonianza scritta della propria vita”. E’ innanzitutto necessario stabilire che cosa s’intenda come “vita”, ovvero quale debba essere il contenuto della testimonianza scritta, poiché è evidente che il suo oggetto non può essere costituito da tutti gli avvenimenti dell’esistenza intera di una persona, che tra l’altro non si è ancora conclusa, avendo questa persona il compito di narrare appunto la propria vita passata. L’oggetto della narrazione, designato come “vita”, è quindi in realtà molto più ristretto di quanto indichi il termine ed è costituito di solito da un tratto, temporalmente più o meno lungo, dell’esistenza passata. Anche all’interno di questo tratto di vita, per quanto ristretto o esteso esso possa essere, non può venir raccontato evidentemente tutto, ma vanno operate invece delle scelte ben precise, che possono essere di diverso genere ed obbedire soprattutto a intenzioni differenti.
    E’ chiaro, innanzitutto, che ogni avvenimento dell’esistenza non ha valore in sé e per sé, bensì piuttosto solo nel contesto (“Zusammenhang”) dell’intera vita o almeno di quel tratto di vita che è fatto oggetto di rappresentazione. E’ questa considerazione dell’avvenimento nel contesto della vita passata e futura, vale a dire della vita come “totalità”, a costituirne il “valore” e quindi anche il “significato”. L’autore di un’autobiografia rappresenta quindi solo una scelta di episodi o avvenimenti della sua vita passata, scegliendo quelli che nel contesto della sua vita egli ritiene, in una certa prospettiva, più “significativi”, vale a dire quelli che rappresentano il risultato di esperienze passate o costituiscono, al contrario, la premessa di importanti sviluppi futuri.
    E’ possibile quindi, già a questo punto, formulare alcune restrizioni riguardo a quello che è il “contenuto” del genere “autobiografia”. Questo contenuto è rappresentato infatti da un tratto più o meno lungo di vita passata, considerata però come totalità, in cui i singoli fatti o episodi siano cioè correlati in un certo ordine e secondo una determinata finalità. Questo carattere per così dire “organico” o teleologico della vita che è fatta oggetto dell’“autobiografia” serve a distinguere quest’ultima dagli “annali”, che offrono invece una visione cronachistica non organizzata di tutti o di una gran parte degli avvenimenti di un tratto di esistenza. Il fatto invece che l’“autobiografia” rappresenti la vita di una persona come evoluzione serve a distinguerla dal “ritratto”, in cui invece le caratteristiche principali di un individuo sono rappresentate sincronicamente.
    La “scelta” operata dall’autore di un’autobiografia tra gli avvenimenti della sua vita passata può essere dovuta a ragioni diverse ed obbedire a differenti finalità. Una prima selezione viene compiuta innanzitutto già dalla memoria stessa dell’autore, che privilegia evidentemente alcuni episodi o avvenimenti, mettendone invece in ombra altri. Il fatto che questo genere si basi su “ricordi” e narri quindi di un’esistenza al passato, costituisce un’altra caratteristica importante del genere, che distingue l’“autobiografia” dal “diario”. Mentre infatti la prima rappresenta la “vita”, ovvero un tratto della stessa, come qualcosa di passato e concluso, il “diario” fissa gli avvenimenti di volta in volta, secondo un ordine puramente cronologico. Da questa particolare prospettiva del racconto, che guarda al passato, deriva anche una particolare tensione che è tipica proprio di questo genere. Se è vero, infatti, che il soggetto e l’oggetto della rappresentazione autobiografica per definizione coincidono, pur tuttavia l’io-narrante è diverso dall’io-narrato, in quanto si trova a vivere non solo in un’epoca posteriore, ma anche alla fine di un ciclo o di un’evoluzione che è appunto oggetto della sua narrazione.
    Se già la memoria è “ricostruzione” e quindi in un certo senso anche “costruzione” del passato, questo momento costruttivo diventa ancora più evidente, quando l’autore della biografia opera una scelta cosciente tra i ricordi, obbedendo in questo caso soprattutto a finalità più o meno consapevolmente e più o meno esplicitamente perseguite attraverso l’atto della scrittura. Uno dei modelli più antichi dell’autobiografia è rappresentato ad esempio dall’“apologia” o discorso di autodifesa, in cui l’autore cerca di giustificare il proprio atteggiamento o la propria vita passata di fronte a un tribunale o a un gruppo più o meno reale di avversari. In un simile discorso egli ripercorre dunque la propria esistenza, per mettere in luce tutti quegli episodi che servono a smentire una simile accusa e a sostenere le proprie ragioni. Questo modello di discorso “giudiziario” è presente ad esempio già nell’Apologia di Socrate (opera di Platone), oppure nella Settima lettera dello stesso Platone o infine nell’Antidosis di Isokrate.
    Questo modello autobiografico si avvicina inoltre anche alla “confessione”, in cui il soggetto non descrive la propria evoluzione, ma mette piuttosto a nudo il proprio essere più recondito, senza sottacere nemmeno i propri errori e le proprie manchevolezze. Ancora uno degli esempi più alti e più significativi dell’autobiografia moderna, le Confessions di Rousseau (1782-1788), pubblicate postume nel 1782 e nel 1789, rappresentano una fusione tra confessione e apologia. Rispondendo più alla propria mania di persecuzione che a reali critiche esterne, Rousseau promette qui di mettere a nudo l’assoluta verità del proprio essere, disvelandone anche gli aspetti più intimi e inconfessabili, che diventano anzi l’espressione della sua più profonda e inconfondibile individualità. Se da una parte egli chiama a giudice supremo della propria esistenza il Dio del giudizio universale, egli trasforma dall’altra i suoi lettori, che in alcuni passi vengono identificati implicitamente con i “nemici” dai quali egli deve difendersi, nella giuria a cui spetta il verdetto finale.
    L’apologia non indica però solo un discorso di autodifesa, ma può rappresentare anche un discorso elogiativo e tessere quindi le lodi di una persona, vale a dire in particolare del suo ruolo pubblico e dei risultati o dei successi da essa raggiunti. Seguono questo modello nell’antichità, ad esempio, le Res gestae dell’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.), ma anche le Confessiones di S. Agostino (354-430), che rappresentano senz’ombra di dubbio il paradigma in assoluto più importante per lo sviluppo futuro del genere. Questo tipo di autobiografia sarà poi alla base anche delle molte autobiografie dei Santi e dei mistici, le quali adempiranno contemporaneamente ad una funzione edificante e devozionale, presentandosi come modello della via da seguire nel processo di avvicinamento a Dio. Anche queste autobiografie di santi, di mistici o di suore subiranno tuttavia nel corso dei secoli una sempre maggiore secolarizzazione.
    Sempre di carattere “apologetico”, anche se maggiormente centrate sul soggetto, saranno invece le autobiografie degli artisti, a partire dall’autobiografia del Petrarca De secreto conflictu curarum mearum (scritta tra il 1342 e il 1343), fino alla Vita di Benvenuto Cellini (redatta tra il 1558 e il 1566), la quale persegue esplicitamente l’intenzione di mettere in evidenza l’unicità e in particolare la genialità artistica del soggetto scrivente. Anche le biografie di studiosi e letterati a partire dal Cinquecento, nonché le biografie dei borghesi seguiranno però un simile modello apologetico.
    A questo proposito vi è stato tuttavia chi ha voluto limitare il concetto di autobiografia solamente alla narrazione della fase di ricerca e ritrovamento della propria identità (“Identitätsfindung”), facendo rientrare invece le descrizioni di una determinata funzione all’interno della società (“Rollenspiel”) nelle “memorie” (Neumann). In effetti le “Memorie” si distinguono solitamente proprio per il loro oggetto dall’“autobiografia” vera e propria, in quanto non pongono tanto le esperienze personali e individuali al centro dell’attenzione, ma si concentrano invece piuttosto sugli avvenimenti esterni, vale a dire sugli incontri fatti dal soggetto in quanto personalità pubblica con personaggi importanti, sulla sua partecipazioni a fatti storici di rilievo ecc.
    E’ facile vedere già a questo punto, quante possano essere le funzioni attribuite all’autobiografia e quante possano essere di conseguenza anche le sue forme e le sue modalità. Si pone qui anche il problema della “veridicità” dell’“autobiografia”, che a differenza di quasi tutti gli altri generi letterari è un genere “referenziale”, il cui grado di verità può cioè essere stabilito in base al confronto con la realtà oggettiva esterna. E’ evidente che non è possibile attendersi dall’autobiografia alcuna “verità” oggettiva, poiché già lo stesso grado di soggettività che è proprio del genere lo esclude a priori. Si può parlare quindi piuttosto di “autenticità”, intendendo con questo termine la verità soggettiva. L’“autenticità”, ovvero la corrispondenza con ciò che il soggetto scrivente ritiene essere la verità, può essere senz’altro presupposta in un’“autobiografia”, anche se non si può certo escludere che lo scrivente falsifichi volutamente e coscientemente la realtà per meglio corrispondere alla finalità che si è proposto con la stesura dell’opera autobiografica. Anche un’autobiografia evidentemente e volutamente “falsa” è comunque “veritiera” per quanto riguarda il suo autore, poiché rivela una caratteristica importante dello stesso, vale a dire la sua tendenza a mentire e a stravolgere la realtà dei fatti.
    D’altra parte, invece, un’autobiografia può essere “veritiera” ovvero “autentica” anche quando mente o inventa deliberatamente fatti o cose. Vi sono infatti non poche autobiografie che iniziano con la descrizione della nascita dell’autore oppure con il racconto della vita dei genitori dello stesso, vale a dire con eventi che sono evidentemente al di fuori e al di là della possibile sfera d’esperienza dello stesso. Anche l’invenzione vera e propria di episodi mai accaduti oppure la finzione di dialoghi che evidentemente non possono essere ricordati alla lettera dal narratore, non significa già di per sé un venir meno alla verità della narrazione autobiografica, che è evidentemente una verità differente da quella di una testimonianza giudiziaria. Proprio attraverso l’invenzione di un episodio o attraverso la polarizzazione di diverse posizioni in un dialogo l’autore può tendere infatti a rendere tanto più evidente la verità di una determinata situazione o spiegare le cause o gli effetti di un certo avvenimento. La finzione nell’autobiografia può servire quindi ad esprimere e a rendere più evidente la “verità” o perlomeno l’“autenticità”, vale a dire la “verità soggettiva” dei fatti.
    Esistono inoltre in ogni epoca anche dei “topoi”, vale a dire dei “luoghi comuni”, dei modi di rappresentare la propria vita o quella dei propri avi, che sono per così dire canonizzati. Anche questi topoi, benché non rispondano alla realtà oggettiva dei fatti, sono però significativi, perché indicano un certo modo in cui l’autore interpreta la propria vita o in cui vuole perlomeno che sia interpretata. Parafrasando il titolo della famosa autobiografia di Goethe, si può affermare dunque, in conclusione, che “poesia e verità”, ben lontane dall’escludersi a vicenda, si sostengono piuttosto reciprocamente, poiché solo attraverso la “poesia”, vale a dire attraverso l’invenzione, si può giungere ad una “verità” più profonda e più perspicua.
    La presenza di parti inventate o perlomeno adattate all’interno dell’autobiografia crea però un’ulteriore difficoltà. Se infatti l’autobiografia non può essere distinta dalla finzione letteraria in base al rapporto con il “referente” ovvero con la realtà esterna, allora non esiste più alcun modo di distinguerla in maniera definitiva. Non è ad esempio possibile distinguere in maniera assoluta e definitiva un’autobiografia da un romanzo in prima persona che abbia per contenuto la vita e l’evoluzione dell’io-narrante. D’altra parte, la stessa autobiografia non deve essere scritta per forza in prima persona, anche se questa persona grammaticale è in effetti la più diffusa in questo genere letterario. Vi sono infatti anche autobiografie narrate in terza persona, per ottenere in questo modo un effetto per così dire “oggettivante”, oppure addirittura in seconda persona, come discorso rivolto ad un lettore ideale. Esistono, inoltre, tanto biografie “romanzate” che “romanzi autobiografici”, con tutti i gradi intermedi possibili tra questi due estremi.
    Di fronte a queste difficoltà nel definire che cosa sia e che cosa non sia un’autobiografia, si è ricorsi ad un’altra istanza esterna al testo letterario, vale a dire a quella dell’“autore”, definendo quindi come “autobiografia” solo quei testi in cui l’autore del testo, il narratore e il personaggio, ovvero il soggetto della vita in esso narrata, coincidono. Una riprova esterna di questa coincidenza è data dalla corrispondenza tra il nome che si trova sulla copertina sopra il titolo con quello del personaggio principale, che può essere il narratore nel caso di una narrazione in prima persona, oppure anche semplicemente il personaggio della narrazione in terza persona. E’ evidente, tuttavia, che di fronte a questa possibilità pura e semplice vi possono essere anche molte varianti, in cui ad esempio l’autore assume uno pseudonimo tanto come autore che come narratore o personaggio, oppure quando l’autore decide di attribuirsi un nome differente nel racconto. In questo caso, tuttavia, ci si avvicina già al racconto o al romanzo autobiografico piuttosto che all’autobiografia in senso stretto e una distinzione netta e certa non risulta più possibile.
    E’ stato introdotto a questo proposito il concetto di “patto autobiografico”, vale a dire di quel patto implicito che l’autore stringerebbe con il lettore, confermandogli di scrivere proprio la vita da lui vissuta. Questo patto implica delle decisioni e matura delle conseguenza tanto dalla parte dell’autore che da quella del lettore. Nel momento infatti in cui l’autore afferma di scrivere un’autobiografia, egli si pone automaticamente in una certa tradizione e assume un determinato ruolo all’interno del sistema letterario in cui opera. Egli provoca però in particolare soprattutto una ben precisa aspettativa da parte del lettore. E’ infatti soprattutto quest’ultimo a decidere in ultima istanza se sottoscrivere questo “patto autobiografico” che gli viene proposto, se credere cioè alla veridicità di quanto è narrato, oppure se considerarlo semplicemente il frutto di un’invenzione. Si potrebbe quindi affermare, che la definizione dell’autobiografia può avvenire solo dalla prospettiva mutevole della “ricezione”, vale a dire dal punto di vista del lettore, che può sottoscrivere o rifiutare il “patto autobiografico” propostogli dall’autore. In questo senso anche la storia dell’autobiografia dovrebbe essere la storia dei mutevoli modi in cui dei testi sono stati letti e interpretati come autobiografie.
    La storicità del genere “autobiografia” non è data tuttavia solamente dai modi della sua ricezione. Perché anche il contenuto stesso di questo genere, ovvero l’individualità singola con la sua storia particolare, rappresenta un prodotto storico abbastanza recente. Il concetto di “individualità”, intesa come autonomia e legittimità della personalità singola, dotata di determinati diritti e doveri al di fuori di qualsiasi appartenenza a un certo gruppo o classe sociale, è infatti un concetto relativamente moderno, che lo storico Burckhardt fa risalire al Rinascimento Italiano.
    Opere autobiografiche o perlomeno con tratti o parti autobiografiche si trovano naturalmente anche in epoche precedenti, ad esempio nella civiltà egizia, in quella greca o in quella romana. Importantissime furono poi le Confessioni di S. Agostino (354-430 d.C.), che esercitarono una forte e determinante influenza sullo sviluppo successivo del genere. Benché in quest’opera venga narrata la vita e l’evoluzione di un soggetto individuale e autonomo, tuttavia il vero oggetto della narrazione, che culmina con il momento della conversione di Agostino al Cristianesimo, è costituito dalla grazia divina, mentre il soggetto scade per così dire a semplice materiale su cui dimostrare l’intervento e il modo d’agire della stessa. Un esempio di opera autobiografica medievale è rappresentato invece dall’Historia calamitatum mearum di Petrus Abelardus (1709-1142), in cui il monaco e filosofo scolastico ripercorre con coscienza assolutamente moderna della propria individualità e del potere creatore della parola la storia del suo tragico amore per Eloisa. In altre opere medievali, invece, l’autobiografia è sempre funzionalizzata all’esperienza di fede ovvero al racconto dell’unio mystica con Dio, che costituisce lo schema predeterminato, entro cui anche l’esistenza individuale acquista il proprio significato. Il punto più alto di questo tipo di scritti autobiografici è rappresentato dal racconto in terza persona, redatto in lingua tedesca, della vita del mistico domenicano Heinrich Seuse (1295/97-1366), intitolato daz da haisset der Súse (attorno al 1360), il quale rivela tuttavia anche molti tratti tipici del romanzo di corte o del romanzo cavalleresco.
    Tra le opere autobiografiche del Rinascimento vanno ricordate, oltre al già menzionato Secreto di Petrarca e alla Vita di Benvenuto Cellini, almeno l’Odeporicon (libretto di viaggio) del monaco Johannes Butzbach (1477-1516), in cui comincia a delinearsi l’idea di una “Bildung” individuale, rappresentata sotto forma di viaggio, nonché il De propria Vita (1575-76) del medico, matematico ed erudito universale Girolamo Cardano (1501-1576), in cui il testo autobiografico, suddiviso per argomenti e non semplicemente ordinato cronologicamente, diventa strumento di una approfondita autoanalisi, che considerando il soggetto sotto diversi punti di vista, giunge addirittura a metterne in discussione l’unitarietà.
    Poiché non è possibile ripercorrere qui nemmeno per sommicapi la storia dell’autobiografia, passiamo immediatamente alla nascita della autobiografia moderna in Germania, alla cui origine troviamo senz’ombra di dubbio l’esperienza del Pietismo, una corrente religiosa interna alla chiesa protestante sviluppatasi sul finire del 600, che pone l’accento su una spiritualità tutta interiore e su un rapporto di stretta intimità con il divino. Poiché secondo la dottrina protestante il fedele non può fare nulla per conquistare la salvezza eterna, che è stata attribuita da Dio ai pochi eletti fin dalla creazione del mondo, egli può solamente scrutare in se stesso per cercare nella propria interiorità i segni della sua elezione. Di qui ha origine quella pratica dell’auto-osservazione - che diventa spesso una vera e propria auto-vivisezione -, che favorì la nascita di numerosi diari e di conseguenza anche di molte autobiografie pietistiche.
    Lo stesso fondatore del Pietismo, Philipp Jakob Spener (1635-1705), fu autore anche di una breve autobiografia (“Lebensgeschichte”), che dopo un “curriculum”, in cui vengono riassunti i principali dati esteriori della vita, contiene un “portrait” e una “confessio”, in cui è presente una critica a se stesso e una lista dei peccati commessi. Più famosa e anche più interessante fu invece l’autobiografia di un altro dei padri fondatori del Pietismo, vale a dire il Lebenslauff (1690/91) di August Hermann Francke (1663-1727). Quest’opera, che vuole avere anche una funzione edificante, è tutta organizzata in prospettiva dell’esperienza mistica della “rinascita”, vale a dire dell’incontro con Dio, che rappresenta però il risultato di una lunga ricerca compiuta nel mondo terreno. Tra il 1698 e il 1745 vennero pubblicati poi da Johann Henrich Reitz (1655-1720) ben sette volumi di autobiografie pietistiche o, come suona il titolo, di “storie di rinati” (Historie der Wiedergeborenen).
    Un’importante opera autobiografica di quest’epoca, nata anch’essa in clima pietistico, è rappresentata dalla Eigene Lebensbeschreibung [...] (1738) del predicatore protestante Adam Bernd (1676-1748). Nell’opera di Adam Bernd, infatti, l’interesse antropologico per lo stato del corpo ovvero per l’influsso del corpo sulle forze spirituali e di quest’ultime a loro volta sugli stati fisici, sostituisce definitivamente l’interesse tipicamente pietistico per la “salute” dell’anima. Con un analisi ipocondriaca che non conosce né confini né tabù e rasenta talvolta un’opera di vera e propria auto-vivisezione, Adam Bernd indaga in particolare le origini e le cause di quella che può essere definita per molti aspetti la malattia del secolo, vale a dire della malinconia, che egli fa risalire soprattutto a una fantasia troppo vivida. La descrizione della vita di Bernd non conosce sviluppo ma solo un eterno avvicendarsi di alti e bassi, di stati d’animo e di condizioni fisiche sempre ricorrenti. Dal punto di vista puramente esteriore, la vita di Bernd rappresenta un processo di progressivo declino e isolamento, in cui alla fine non rimane che la scrittura stessa come unica ragione di vita.
    L’influsso pietistico è evidente anche nell’autobiografia di Johann Heinrich Jung-Stilling (1740-1817), la cui prima parte fu pubblicata all’insaputa del suo autore da Goethe nel 1777 con il titolo Henrich Stillings Jugend. Eine Wahrhafte Geschichte, e a cui seguirono poi diversi altri volumi nel 1778, nel 1789, nel 1804 e ancora nel 1817. La storia viene narrata in terza persona e anche il nome del personaggio, Stilling, non corrispondeva a quello dell’autore, il quale lo aggiungerà però più tardi al suo stesso cognome. Il racconto inizia con la descrizione dei genitori, del loro primo incontro, del matrimonio e quindi della nascita del personaggio, che dopo la morte prematura della madre ottiene dal padre una severissima educazione. Da questa rigidità e dalla solitudine a cui il padre lo aveva costretto, egli si salva attraverso la fantasia e in particolare attraverso la lettura. Fin dall’inizio viene profetizzato al giovane un grande successo nel mondo e il racconto è caratterizzato di conseguenza da una struttura fortemente teleologica. Come già Goethe ebbe a rimarcare criticamente, ogni avvenimento viene interpretato dal narratore immancabilmente come prodotto della provvidenza divina. Poiché l’autore aveva solo trentasette anni quando scrisse il primo volume della sua autobiografia, si è affermato che essa ha rappresentato un mezzo di autopoiesi dell’individuo, che attraverso la scrittura dell’opera autobiografica ha per così dire progettato la propria identità e la propria esistenza. Ciò che colpì maggiormente i lettori contemporanei dell’autobiografia fu soprattutto il suo carattere di schietta e incontaminata naturalezza, che corrispondeva esattamente ai principi estetici allora propugnati dallo Sturm und Drang.
    Molto forte è l’influsso pietistico anche nel romanzo autobiografico di Karl Philipp Moritz (1756-1793) Anton Reiser, i cui primi tre libri furono pubblicati nel 1785, mentre il quarto seguì nel 1790. Benché il carattere autobiografico delle vicende narrate in terza persona sia fuori discussione, tuttavia il fatto che autore, narratore e personaggio non corrispondano, non soddisfa evidentemente il principio del “patto autobiografico”, cosicché quest’opera non può essere annoverata a tutti gli effetti tra le autobiografie. L’elemento di finzione non riguarda solo alcuni episodi della vita di Anton Reiser o alcune sue riflessioni - ad esempio quelle sul significato simbolico del proprio nome, che non possono evidentemente venir attribuite all’autore -, ma almeno in parte anche la figura del narratore stesso, che viene per così dire stilizzata sul modello del “medico filosofico” dell’epoca ovvero dello psicologo. E’ proprio questa doppia prospettiva a rendere l’opera tanto più interessante. Da una parte, infatti, alcune esperienze del personaggio, l’educazione pietistica ecc., sono molto simili a quelle raccontate nell’autobiografia di Jung-Stilling. Dall’altra però queste stesse vicende narrate mostrano la genesi del romanzo psicologico stesso, tematizzando cioè quel rapporto strettissimo che lega il Pietismo alla nascita della psicologia moderna, di cui l’autore Moritz è stato uno dei massimi rappresentanti. Importante è in quest’opera anche il tema del cosiddetto “dilettantismo”, vale a dire l’analisi spietata delle illusioni e degli autoinganni che causeranno il fallimento dei sogni di gloria di Reiser nel campo della poesia ma soprattutto nel campo del teatro. L’analogia di alcune problematiche presenti nel romanzo autobiografico con tematiche presenti nel Wilhelm Meister di Goethe hanno spinto a considerare quest’opera anche come un antecedente immediato del “Bildungsroman”.
    Di tutt’altro genere, soprattutto per quanto riguarda lo stile della narrazione e la coscienza critica del narratore, è invece l’autobiografia di Ulrich Bräcker (1735-1798), comparsa nel 1789 con il titolo di Lebensgeschichte und Natürliche Ebentheuer des Armen Mannes im Tockenburg (Storia della vita e avventure naturali del povero uomo a Tockenburg) in cui viene narrata senza ambizioni letterarie la vita del figlio di un piccolo contadino svizzero, del suo servizio nell’esercito prussiano e infine della suo avvicinamento alla scrittura e alla letteratura. Ciò che spinge l’autore a narrare la storia della propria vita è solo in secondo o in terzo luogo, come viene detto esplicitamente nella premessa, un intento didattico o il desiderio di lodare la provvidenza divina: il vero e profondo movente è rappresentato invece proprio dal piacere stesso della scrittura e della rimemorazione della vita passata. Appare evidente nell’atteggiamento del narratore anche il grande valore da lui attribuito alla scrittura e alla cultura in generale, cosa che giustifica anche l’orgoglio da lui più volte manifestato per la propria posizione e per i risultati raggiunti. Questo orgoglio si esprime ancora nei dialoghi presenti nell’allegato dell’autobiografia, in cui due personaggi fittizi, “Peter e Paul”, si confrontano con argomenti critici o a favore di Bräcker stesso.
    Senza grandi ambizioni letterarie è anche l’autobiografia di Johann Gottfried Seume, scritta tra il 1809 e il 1810 e pubblicata postuma nel 1811 con il titolo Mein Leben. Spinto da molti amici e conoscenti, egli si propone di ripercorrere qui con sguardo sincero alcune tappe della sua vita, prima che lo facciano altri biografi più o meno ben intenzionati. Con una prosa piana e senza grandi riflessioni o approfondimenti psicologici, egli caratterizza dapprima la figura del padre e narra poi in maniera aneddotica alcuni avvenimenti della sua infanzia. Descrive poi le sue esperienze scolastiche e i suoi anni di studio della teologia a Lipsia. Segue poi la sua dipartita da Lipsia, il suo arruolamento da parte degli inglesi e il lungo viaggio in nave verso l’America. Dopo la permanenza a Halifax, dove conosce soprattutto il Signore di Münchhausen, Seume ritorna in Inghilterra nel 1893 si reca poi a Brema. Il suo racconto autobiografico termina con la sua fuga a Brema e rimane frammento.
    Già il titolo stesso dell’autobiografia di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit (Dalla mia vita. Poesia e verità) rivela la novità di quest’opera e soprattutto la nuova coscienza che sta alla base di questa operazione autobiografica. Benché Goethe abbia preferito il titolo attuale a quello originario di “Wahrheit und Dichtung” per motivi di eufonia, pure la preminenza attribuita alla “poesia” è egualmente significativa. In essa si esprime infatti chiaramente la coscienza di Goethe del carattere artificiale o costruito - “poetico” appunto - della rappresentazione della sua vita passata. Una simile presa di posizione a favore della poesia non mette d’altra parte assolutamente in dubbio la veridicità di quanto viene narrato. E’ vero piuttosto il contrario, poiché secondo Goethe solo la “poesia” permette alla “verità” di emergere e di farsi conoscere. Quello che può sembrare a prima vista un discorso astratto e metafisico, è in realtà espressione di una considerazione molto concreta. Se si intende infatti per “poesia” la facoltà di considerare il particolare sempre all’interno e in riferimento alla totalità, è facile capire come un simile sguardo totalizzante sia assolutamente necessario per cogliere la “verità” dei fatti o degli avvenimenti biografici. Questa “verità” non va infatti assolutamente confusa con la pura e semplice oggettività o realtà di quanto viene narrato, poiché la “verità” di un fatto o di un episodio consiste piuttosto nel suo “significato” nel contesto dell’intera esistenza. Solo il ricordo, l’interpretazione e anche la fantasia possono dunque estrapolare questo significato, che non era ancora presente nel fatto stesso.
    Goethe si spinge però ancora più in là. Egli non si limita infatti a considerare i singoli episodi della propria vita nel contesto della sua intera esistenza, ma contempla anche questa ultima all’interno del panorama più vasto dell’evoluzione culturale e letteraria dell’intero secolo, attribuendole in tal modo un valore paradigmatico e almeno in parte anche simbolico della vita dell’uomo in generale. A Goethe non interessa tanto indagare la psicologia individuale, quanto piuttosto considerare l’uomo in rapporto alle circostanze del suo tempo, per mostrare quanto queste lo abbiano formato, sia favorendone lo sviluppo e la formazione (“Bildung”), che ostacolandolo.
    L’opera si divide in quattro parti, pubblicate rispettivamente nel 1811, 1812, 1814 e nel 1833, dopo la morte di Goethe. Ogni parte si suddivide a sua volta in cinque libri. Nelle quattro parti vengono narrati solamente i primi 26 anni della vita di Goethe, che all’epoca della pubblicazione della prima parte aveva già 62 anni, vale a dire fino alla sua partenza per Weimar. Dichtung und Wahrheit non è comunque l’unica opera autobiografica di Goethe, che ha ripercorso altri momenti della sua vita anche nell’Italienische Reise (1829), nella Campagne in Frankreich 1792 e nella Belagerung von Mainz (1822).
    L’autobiografia si apre con una famosa descrizione della costellazione astrale al momento della nascita di Goethe a mezzogiorno del 28 agosto 1749. Questo incipit, che riprende un passo del De propria Vita di Girolamo Cardano, è espressione evidente della coscienza da parte dell’autore della propria incomparabile unicità. Se la prima parte ripercorre poi soprattutto l’infanzia di Goethe, la vita in famiglia, i suoi primi giochi teatrali, culminando nella rappresentazione dell’incoronazione dell’imperatore Joseph II nel 1765, la seconda parte è invece dedicata agli anni che Goethe passò a Lipsia, dedicandosi più alla letteratura che allo studio delle materie giuridiche. Questa seconda parte contiene nel settimo libro quella che è stata definita la “prima storia della letteratura tedesca”. L’accurata ricostruzione fatta da Goethe dei principali rappresentanti e delle più importanti opere della letteratura tedesca dei primi settant’anni del 700 non è comunque fine a se stessa e serve invece a determinare con precisione la posizione di Goethe stesso e della sua produzione poetica all’interno di questo panorama più vasto. Negli ultimi due libri di questa seconda parte e poi nella terza parte di Dichtung und Wahrheit Goethe ripercorre invece i suoi anni “stürmeriani”, le esperienze e le conoscenze determinanti per il suo sviluppo di scrittore fatte a Strasburgo, la permanenza a Wetzlar con l’esperienza amorosa che porterà alla stesura dell’opera che lo renderà famoso, il Werther, il ritorno a Francoforte e la sua partecipazione agli incontri del circolo pietistico che si raccoglieva a Darmstadt attorno alla Klettenberg. In queste pagine Goethe riferisce anche delle circostanze e delle modalità che hanno portato alla nascita delle sue opere più famose di questo periodo, dal dramma shekespeariano Götz von Berlichingen all’inno Prometheus, dal romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers al “dramma borghese” Clavigo.
    Ben lungi dal parlare solo di se stesso e delle proprie opere, Goethe offre piuttosto un panorama vastissimo dei principali avvenimenti storici e dei principali personaggi della sua epoca con i quali egli è venuto in contatto. Troviamo nell’autobiografia di Goethe una ricchissima galleria di ritratti vivissimi di Lavater, Basedow, Lenz, Merck, Klinger, Wagner, Jacobi ecc. Benché Goethe per lunghi tratti non parli né di se stesso né della propria opera, il suo racconto suscita tuttavia la sensazione che tutta un’epoca e un’intera nazione di poeti, scrittori e intellettuali siano esistiti in definitiva solo per agire in maniera differente proprio sulla sua personalità e per produrre dunque quell’incomparabile opera e soprattutto quell’irripetibile individualità.
    La struttura dell’opera è quindi fortemente teleologica e il suo punto d’arrivo o punto di fuga è rappresentato evidentemente dalla posizione del tardo Goethe, del poeta ormai affermato del classicismo weimariano che guarda criticamente ma anche con indulgente tolleranza alla propria ribelle giovinezza. I ritratti che egli dipinge ancora nella terza e in parte anche nella quarta parte della sua autobiografia, da Lavater a Jacobi, da Lenz alla Klettenberg, sono i massimi rappresentanti di un soggettivismo poetico, religioso, morale e conoscitivo, che egli si lascia definitivamente alle spalle decidendo di accettare l’invito di recarsi a Weimar. Questo superamento del soggettivismo stürmeriano avviene però nel nome della filosofia di Spinoza, il cui nome, non a caso, apre significativamente e per così dire suggella la quarta ed ultima parte dell’autobiografia goethiana.
    Un frammento autobiografico di Jean Paul, scritto tra il 14 luglio 1818 e il 22 gennaio 1819 e pubblicato postumo nel 1826 con il titolo Wahrheit aus meinem Leben - nelle edizioni più recenti è stato intitolato Selberlebensbeschreibung - può essere considerato almeno in parte come una risposta all’opera di Goethe. Già l’incipit stesso del frammento, che pone la nascita di Jean Paul nel contesto di una precisa costellazione storica - la pace di Hubertsburg nel 1763 - e in una ben determinata stagione - l’inizio della primavera - rinvia ironicamente all’esordio dell’autobiografia goethiana. Salvo poi che un tale esordio apparentemente così oggettivo si rivela come assolutamente ironico, poiché Jean Paul non intende affatto mostrare, come Goethe, la stretta correlazione esistente tra soggetto e mondo circostante, ma riduce invece il suo racconto alla descrizione assolutamente soggettiva dell’idillio degli anni dell’infanzia, trascorsi in un mondo fatto di povertà e di buoni sentimenti.
    Jean Paul riconosce la difficoltà di porre il proprio Io al centro di una storia che abbia oltretutto la pretesa di essere veritiera. La sua vita non solo gli appare troppo insignificante e priva di avvenimenti degni di essere narrati, ma egli sente soprattutto di non conoscere se stesso e di non potersi spiegare né partendo da sé né partendo dalle circostanze. Essendo egli oltretutto uno “scrittore di romanzi”, e come tale “abituato a mentire” e a nascondere una parte di sé in tutti i suoi personaggi, egli si rende conto che non può rappresentare se stesso senza ricorrere alla finzione narrativa. Non è dunque un caso, che l’idillio infantile che è oggetto di questo racconto autobiografico assomigli tanto a quello rappresentato in altre opere letterarie, come ad esempio nel Leben des vergnügten Schulmeisterlein Maria Wutz in Auenthal (1793), nel Leben des Quintus Fixlein (1796) e nel Leben Fibels, des Verfaser der Bienrodischen Fibel (1812), ricordate tra l’altro dallo stesso narratore all’interno dell’autobiografia.
    Nell’autobiografia l’autore si cala nel ruolo di “professore della storia di me stesso”, che rivolgendosi ad un pubblico di “amici e amiche”, tiene tre lezioni cattedratiche (“Vorlesungen”) su tre periodi della sua infanzia, legati a tre luoghi differenti, Wonsidel (1763-64), Joditz (1765-1775) e Schwarzenbach an der Saale. La narrazione avviene talora in prima persona, spesso però anche in terza persona, dove il narratore apostrofa il proprio sé bambino come “il nostro eroe”. La descrizione idilliaca del mondo pastorale della chiesa e della canonica, serve in realtà a smascherare ironicamente, dietro alla patina leziosa e dorata del ricordo, la miseria e la meschinità della realtà della provincia tedesca dell’epoca.
    L’Ottocento conosce ovviamente anche altre opere autobiografiche di autori importanti (ad es. di Eichendorff, Heine o Immermann), al cui centro non si trova, tuttavia, né il rapporto dialettico tra io e mondo, tipico dell’autobiografia di Goethe, né quella visione ristretta e soggettiva che caratterizza invece l’opera di Jean Paul. In consonanza con lo spirito storicistico che caratterizza l’epoca, l’interesse non si rivolge tanto allo sviluppo del soggetto, quanto piuttosto alla rappresentazione della situazione storica e politica. Si è parlato, per questo, di una autobiografia “estrovertita”, rivolta cioè all’esterno, interessata più agli avvenimenti che all’individuo. Una simile tendenza ha favorito in particolare l’affermarsi anche in Germania il genere delle “memorie”, vale a dire dei ricordi di importanti personaggi pubblici, uomini politici, ministri, militari ecc., che fino ad allora era rimasta in parte una prerogativa della Francia. Possono essere ricordate qui le memorie di Varnhagen von Ense (Denkwürdigkeiten, in 9 volumi, 1837-59) e soprattutto i Gedanken und Erinnerungen (1898) di Bismarck.
    Un discorso a parte meriterebbe il romanzo di Gottfried Keller, Der grüne Heinrich (1854-55), che viene spesso considerato all’interno di riflessioni sul genere dell’autobiografia. Benché gran parte delle vicende narrate in quest’opera, che assomiglia per molti versi all’Anton Reiser di Karl Philipp Moritz, in quanto racconta la fallita evoluzione di un artista, abbia senz’ombra di dubbio un fondamento autobiografico, pure, il fatto stesso che essa si presenti esplicitamente come “romanzo” impedisce di trattarla come autobiografia.
    Una vera autobiografia in senso stretto sono invece i due libri di Theodor Fontane (1819-1898) Meine Kinderjahre (1893) e Von Zwanzig bis Dreißig (1895), in cui si è visto un documento del passaggio dalla tradizione autobiografica dell’Ottocento alle forme più moderne della rappresentazione autobiografica. Fontane riprende da una parte l’opposizione di “poesia e verità” di tradizione goethiana, riconoscendo e anzi sottolineando il carattere di finzione poetica di ogni opera autobiografica, anche quando questa si voti alla più assoluta veridicità. Non per nulla Fontane attribuisce a Meine Kinderjahre (I miei anni d’infanzia) il sottotitolo di “Romanzo autobiografico” e rivendica questa scelta in conclusione della breve “Introduzione”.
    A differenza di Goethe, però, Fontane non pone il proprio Io al centro di un’intera epoca, come una sorta di catalizzatore e di cifra simbolica delle maggiori tendenze della stessa, ma si concentra invece sulle esperienze singole e limitate del suo Io bambino. Da questa impostazione di fondo derivano anche altre differenze sostanziali rispetto all’autobiografia goethiana. Mentre questa, infatti, ha una struttura e un andamento assolutamente teleologici e si conclude con un passo decisivo per lo sviluppo di Goethe come uomo e come artista, vale a dire con la sua decisione di accettare l’incarico a Weimar, l’autobiografia di Fontane non mira verso nessuna svolta epocale e procede, invece, per singoli episodi di carattere fortemente aneddotico, dei quali si ha l’impressione che potrebbero venir facilmente accresciuti o, al contrario, anche in parte soppressi. La prospettiva è quindi quella del ricordo e il tono dell’opera è colloquiale e divagante. L’opera si suddivide in diciotto capitoli, che portano Testi spesso dimessi e poco significativi - quali “la nostra casa e come è diventata”, “come vivevamo nella nostra casa”, “come andavamo a scuola e come studiavamo” ecc. -, tanto da far parlare di una “retorica della semplicità priva di ambizioni”.
    La progressione cronologica si interrompe nell’“Intermezzo”, intitolato “Quarant’anni dopo”, in cui viene ripresa e integrata negli anni d’infanzia la morte del padre e la coscienza della morte da lui posseduta. Non solo il tema della morte costituisce un motivo ricorrente che percorre come un filo rosso tutta l’opera, ma la figura paterna ha un significato anche per la struttura stessa dell’autobiografia, in quanto la sua inesauribile curiosità, il suo amore per la conversazione, per l’aneddoto e per la divagazione ne anticipano una caratteristica importante.
    La prosecuzione dell’opera autobiografica Von Zwanzig bis Draißig (Dai vent’anni ai trent’anni) assume un carattere più profondamente memorialistico, in quanto rappresenta soprattutto gli incontri del giovane scrittore con altri scrittori e con circoli letterari della sua epoca.
    Molte furono le opere autobiografiche di autori e scrittori famosi a cavallo del secolo, tra i quali possono essere ricordati, ad esempio, Paul Heyse (Jugenderinnerungen und Bekenntnisse, 1900), Marie Freifrau von Ebener-Eschenbach (Meine Kinderjahre, 1906), Peter Altenberg (Pròdromos. 1906; Die Auswahl aus meinen Büchern, 1908; Mein Lenbendsabend, 1919), Karl May (Mein Leben und Streben, 1910), Else Lasker-Schüler (Mein Herz, 1912), Arthur Schnitzler (Jungend in Wien, 1915-20), Hans Carossa (Eine Kindheit, 1922; Verwandlung einer Jugend, 1928), Hermann Bahr (Selbstbildnis, 1923) ecc. Sul finire del secolo e poi definitivamente con il nuovo secolo l’autobiografia perde tuttavia quell’ingenua fiducia di rappresentare la personalità dell’individuo nel suo rapporto dialettico con le circostanze esterne. Da una parte, infatti, viene meno, prima con Nietzsche e poi con Freud, la fiducia nell’unitarietà di quel soggetto che dovrebbe rappresentare l’oggetto principale di questo genere; dall’altra e contemporaneamente si scopre sempre di più la profonda natura linguistica di questo soggetto, che non è dato prima della lingua ma si costruisce attraverso di essa.
    In Berliner Kindheit um Neunzehnhundert (1932), di Walter Benjamin, il soggetto si presenta solo di rado in prima persona e la costruzione linguistica stessa, in quanto prodotto collettivo di una concezione dell’“infanzia attorno al Novecento” sta al centro della scena. Più importante del ricordo stesso è il processo di rimemorazione attraverso la lingua, così che si può parlare a questo proposito di un’autorappresentazione del processo rimemorativo.
    Nell’opera autobiografica di Gottfried Benn, intitolata significativa Doppelleben (1950), che presenta da una parte la struttura tradizionale dell’autodifesa, la scissione del soggetto, vale a dire tanto quella del soggetto moderno in generale che quella dell’artista in particolare, è addirittura programmatica. Questa frattura si riflette d’altra parte anche nella struttura del testo, che non presenta più alcuna unità e tantomeno un’evoluzione dell’individuo.
    Anche Peter Weiss cercherà nelle sue due opere autobiografiche Abchied von den Eltern (1961) e Fluchtpunkt (1962), in piena coscienza del carattere costruito e letterario della sua operazione, di ricostruire il processo che lo ha portato a staccarsi dall’opprimente condizionamento dei rapporti familiari e a imboccare la strada di un’arte intesa soprattutto come critica sociale e antiborghese.
    Non toccata invece dalla problematica della crisi del soggetto moderno, né tantomeno da dubbi sulla possibilità e sulla capacità del raccontare, sembra invece l’opera autobiografica di Elias Canetti (Die gerettete Zunge. Geschichte einer Jugend, 1977; Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931, 1980; Das Augenspiel. Lebensgeschichte 1931-1937, 1985), che rivela ancora un forte desiderio armonizzatore dell’autore e in cui la stessa scrittura diventa alla fine lo strumento di una lotta contro la morte.
    Se la crisi del soggetto moderno e la scoperta della sua natura linguistica potevano far temere un declino o forse addirittura la scomparsa del genere “autobiografia”, le centinaia e forse migliaia di opere autobiografiche che oggi si trovano sul mercato e l’incredibile successo raggiunto da alcune di esse negli ultimi anni dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che il genere è tutt’altro che in crisi. Non è un caso, per fare un solo esempio, che a cavallo tra il 2000 e il 2001 proprio un’autobiografia, quella cioè di un critico letterario controverso come Marcel Reich-Ranicki (Mein Leben, 2000) abbia occupato in Germania per diversi mesi le prime posizioni nelle classifiche dei libri più venduti.