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14 GENNAIO 1919 – PIAZZA DELLA SCALA, PIAZZA DUOMO, LARGO CAIROLI

Contestazioni per l’annullamento del comizio di Mussolini

Dove? Piazza della Scala, Piazza del Duomo, Largo Cairoli

Soggetti coinvolti: futuristi, ex combattenti, seguaci di Mussolini, socialisti, gruppi di jugoslavi

Arresti: Molti fermi, nessun arresto confermato

Feriti: ardito Zugolo, ferito con arma da taglio alla gamba

Centinaia di persone hanno risposto al martellante appello lanciato dalle pagine de Il Popolo d’Italiae adesso sono in Piazza della Scala, in attesa di assistere al comizio di Mussolini che si terrà nel teatro. Sull’onda del disastroso discorso pubblico di Bissolati la sera dell’11 gennaio, la cittadinanza si è mostrata attenta al dibattito che sta scaldando gli animi negli ultimi giorni: la legittimità o meno dell’annessione della Dalmazia e delle aree a nord di Bolzano da parte dell’Italia. Molti operai si distinguono tra la folla, davanti agli accessi del teatro in attesa dell’apertura delle porte sin dal tardo pomeriggio.

La calca è imponente e dall’animo agitato, e il prefetto di Milano, Filiberto Olgiati, decide all’ultimo minuto di sospendere il comizio. Si dice che la ragione di questo provvedimento sia da cercare in un episodio non confermato: pare che i bissolatiani abbiano deciso di boicottare la serata stampando numerosi biglietti d’ingresso falsi.

Gli avversari in piazza si annusano come cani randagi. Alle 20.45 Mussolini, senza perdersi d’animo, si dirige con i suoi sostenitori in Galleria, e dopo poco si affaccia dalle finestre del primo piano del caffè Biffi per arringare la folla riunita nell’ottagono:

Combattenti! Da cittadini disciplinati e da soldati obbedienti noi ci inchiniamo e rispettiamo il decreto che ci vieta di parlare alla Scala. Ma nessuno ci vieta e ci può vietare però di alzare la nostra voce libera contro i rinunciatari di ogni nostro diritto, che vorrebbero mutilata la vittoria d’Italia!

Il Popolo d’Italiae l’Avanti! raccontano di bastonature e scazzottate che interrompono l’orazione: isolati gruppi di jugoslavi e socialisti vengono provocati dagli arditi. La disciplina non sembra esserne il tratto caratterizzante:

In un batter d’occhio il gruppo di rinunciatari scompare sotto poderosi cazzotti delle fiamme e sbalza qua e là con dei curiosi salti che sembrano l’effetto di una molla elastica. Non oso supporre che fossero effetto di calci, ma certo la cosa doveva assomigliarci assai.

Il modo di esprimersi tagliente è la cifra del momento, senza nessuna considerazione per le vittime. È il retaggio del militarismo e della violenza, reso opera d’arte dai futuristi che popolano i caffè, dopo aver affollato le trincee.

Un corteo di ex combattenti e seguaci si dirige intonando i vecchi canti della guerra verso il monumento a Garibaldi a Largo Cairoli. Mussolini prende la parola, continuando a invocare l’annessione della Dalmazia. Ritiene che la manifestazione sia la formidabile prova della volontà del popolo, anche se si tratta solo di qualche centinaio di sostenitori. Alla fine dell’orazione, i partecipanti si dirigono nuovamente verso il centro. Si nota ben presto la presenza di forze dell’ordine: i comizianti vorrebbero dirigersi verso i giornali da loro considerati rinunciatari, ma cordoni di polizia e carabinieri bloccano l’accesso a via Brera, via Solferino e via San Damiano. Malgrado gli squilli di avvertimento, Marinetti è sollevato in alto:

Non preoccupatevi degli squilli, siamo qui con le bandiere di Dalmazia italiana, e col cuore palpitante di tutta l’Italia e di tutti i combattenti, davanti a questa orrida montagna d’immondizia. Vi invito a gridare «Abbasso Bissolati! Abbasso i rinunciatari! Abbasso il parecchio! Abbasso il nuovo Giolitti. W. la Dalmazia italiana!»

Ben presto il corteo è sciolto. Liti, scontri e zuffe hanno luogo sino alle 23, quando la dimostrazione termina davanti al doppio cordone che preclude l’accesso a via Paolo da Cannobio. Non si segnalano arresti o feriti, tranne l’ardito Zugolo, colpito da arma da taglio alla gamba.

«La domenica del Corriere», 5 gennaio 1919, (Digiteca della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Roma)

Un’altra liquidazione. Il Comizio mussoliniano abortito, «Avanti!», 15 gennaio 1919

 Le imponenti manifestazioni anti-rinunciatrici. Il comizio proibito. Cortei e discorsi. Il divieto, «Il Popolo d’Italia», 15 gennaio 1919

Un’altra liquidazione. Il Comizio mussoliniano abortito. Decisamente l’astro del demagogismo siderurgico volge al tramonto. Preceduto da una rumorosa e fanfarona …, doveva tenersi ieri sera alla Scala un comizio per iniziare quella propaganda verbosa e sobillatrice, che col pretesto di sostenere i diritti dell’Italia all’annessione di tutta la Dalmazia, in realtà mira chiaramente a creare nuove discordie, a provocare altre reazioni, che avrebbero necessariamente il loro sbocco naturale in altri conflitti di sangue e, nella logica militarista, renderebbero necessari nuovo ordigni di guerra, assicurando quindi ancora profitti ai pescicani delle industrie belliche, e aumenterebbero di conseguenza i lutti, le miserie, i dolori che già affliggono tanta parte d’Italia e del mondo. L’esito del comizio tenutosi sabato era per iniziare la propaganda in favore della Lega delle Nazioni, col discorso quasi mancato dell’ex-ministro Bissolati, aveva esaltato gli ostruzionisti, dando loro la illusione di tenere in pugno Milano, dove credevano di poter offrire spettacolo d’ogni più sfacciato travestimento: ieri interventisti per la rivoluzione, la democrazia, la fine del militarismo; oggi – cioè a guerra finita – ancora interventisti e ancora guerrafondai per cercare col lanternino altre cagioni di urti e di conflitti con altri popoli, dei quali pochi mesi fa, si è cercata l’amicizia e la solidarietà. Questo camaleontismo sfrontato e spudorato ha assunto presso la massa operaia tutto il significato di una spavalda provocazione. E siccome molte strisce e manifesti (chi paga?) dei multiformi Comitati spuntati come funghi in questi giorni a Milano invitavano gli operai ad accorrere numerosi alla Scala, così gli operai hanno risposto all’appello a colonne serrate, bloccando fin dalle prime ore della sera, gli accessi al teatro in attesa che si aprissero le porte. L’attesa, però, fu più lunga del solito. E subito si sparse la notizia che il comizio era stato proibito all’ultima ora. Il signor conte Filiberto Olgiati che, a dispetto di tutti, è ancora prefetto di Milano, essendosi accorto che un comizio troppo numeroso alla Scala poteva pregiudicare l’incolumità personale dei comizianti, che – guardate fin dove arriva la tenerezza del signor conte per i sovversivi! – minacciavano di essere in grande maggioranza cittadini di idee non, diremo così, gradite, ha deciso di sospendere il comizio, che veniva ad abortire. Il terribile Benito, sempre truccato, nell’aspetto, alla Marat, ma azzimato e ben portante come il più soddisfatto dei fornitori militari, è andato prima al Biffi a farsi ammirare dalla noblesse; poi, circondato da un manipolo di soldati e di giovani studenti e borghesi, ha formato una colonnetta di circa trecento persone, e si è recato al monumento a Garibaldi in Largo Cairoli, dove ha sfogato il suo malumore tra l’indifferenza della grande maggioranza dei cittadini, che cominciano a capire certi trucchetti e certe parate. Intanto Piazza della Scala continuava ad essere occupata dalla folla degli operai, che cantavano giocondamente gli inni socialisti libertari e internazionali. Verso le 21 i dimostranti attraversarono la Galleria, dove ebbe luogo un tafferuglio senza conseguenze, e si fermarono in Piazza del Duomo, dove sostarono ancora alternando canti con le discussioni. Un’altra zuffa ebbe luogo quando il corteo che tornava dal Largo Cairoli attraversò Piazza del Duomo. Gruppetti di arditi da una parte e dall’altra vennero a contatto, ma senza che alcun eccesso avesse a verificarsi, anche perché a tempo intervennero guardie e carabinieri a separare i contendenti. In complesso, l’infelice e disgraziata serata mussoliniana si è chiusa con un disastro politico dell’impresario o degli impresari. I quali devono rassegnarsi a capire che la massa operaia milanese, che ha migliaia e migliaia di reduci e centinaia di invalidi, di feriti, di mutilati, ne ha piene le tasche di queste montature, che mal nascondono i veri fini cui mirano. Di queste giornate ne ha tollerate abbastanza. E quella sua tolleranza l’ha pagata assai cara! Prima di piantar nuove grande, bisogna liquidare le vecchie. E questa liquidazione non è ancora cominciata. Tempo è di smetterla coi pistolotti retorici che mirano a spostar l’attenzione del pubblico dalle reali e difficili condizioni in cui vive. Lo sfruttamento del sentimento patrio non deve diventare un articolo commerciale da ricacciarsi ad ogni costo. C’è intorno della disoccupazione, della miseria, della carestia, anche della fame. E c’è un’atmosfera di irritazione e di dolore, per le compressioni, le angherie, le privazioni, i lutti, le sciagure che hanno colpito in questi quattro anni tanta parte di popolazione, che non è proprio indicata per certe sfide o certe istigazioni. Chi ha ancora la … alle spalle non sfugga dalla visione della realtà. I socialisti hanno parlato in tempo additando bisogni o rimedi. Peggio per chi non vorrà capire ed agire. […] Di singolare, nel pomeriggio e nella serata, c’è stato il fatto dei cordoni di truppa vigilanti al Secolo o al Corriere della Sera. Chi avesse detto, alcuni anni e alcuni mesi addietro, che quei due giornali avrebbero dovuto essere custoditi dalle truppe contro il pericolo di assali dei patrioti, dei superpatrioti, degli ultrapatriottissimi… Chi avesse detto che quei due giornali sarebbero stati vituperati con quei titoli di «tedeschi», e di «croati», che erano lanciati unicamente contro di noi… Chi avesse detto che quei due giornali sarebbero stati messi alla pari con l’Avanti! e onorati di tutte le accuse che a noi furono fatte… Ecco le allegre vendette del tempo, della storia, di tutto quello che volete. Allegre, per noi, che in questo tramestio facciamo la parte disinteressata degli spettatori. («Avanti!», 15 gennaio 1919.)

 

Le imponenti manifestazioni anti-rinunciatrici. Il comizio proibito. Cortei e discorsi. Il divieto.Ieri sera, verso le diciotto, quando già tutta Milano si preparava alla grande celebrazione della Scala, un decreto prefettizio proibiva la manifestazione. Sta di fatto che nella mattinata, il gruppo sempre più sparuto dei «rinunciatari» aveva stampato migliaia di biglietti apocrifi e li aveva fatti diffondere negli ambienti neutralisti della Camera del Lavoro. Malgrado questa bassa manovra, malgrado questo trucco poco pulito, i rinunciatari non avrebbero assolutamente raggiunto il loro scopo. […] Ci è stato ingratissimo [il provvedimento prefettizio] perché eravamo sicuri del nostro pubblico. Eravamo sicuri che Milano avrebbe magnificamente risposto. La folla lo ha dimostrato ugualmente. Una folla dove l’elemento grigio verde era predominante, si è abbandonata ieri sera a manifestazioni entusiastiche. […] La manifestazione è stata più simpatica, più significativa e più solenne, fuori e dentro la Scala. Il pubblico enorme che si è raccolto in Galleria, che ha sfilato per via Dante sino al monumento a Garibaldi e che ha occupato sino alla mezzanotte le strade della città […]. La folla.Il comizio alla Scala, proibito all’ultimo momento con una opportunità veramente prefettizia, si è tenuto egualmente, con un concorso di popolo veramente meraviglioso. Tutti i possessori di biglietti versi e falsi, che trovavano il teatro chiuso, in segno di lutto per i fichi e la cerimonia funebre dell’altro giorno, si riversavano in Galleria, commentando con sdegno l’insulsa proibizione, e raccogliendosi sotto le bandiere degli studenti dalmati che avevano percorso trionfalmente la città durante il giorno. In un angolo dell’ottagono si notavano pochi gruppetti imbronciati di jugoslavi in divisa italiana, armati di bastone: la versa insegna croata. Certo essi aspettavano il momento opportuno… per prenderla. E il momento non si fece a lungo aspettare. Verso le 20 e mezzo, comparvero in Galleria dei vivacissimi gruppi di «fiamme» che intonarono le balde canzoni della trincea, ed anch’essi si misero sotto le bandiere, in una spontanea e inquieta guardia d’onore. Grida di: Abbasso i croati! Viva la Dalmazia italiana! Morte ai parecchisti! Risuonavano e si spandevano sotto la cupola sonora della Galleria, confondendosi con gli applausi della folla enorme, e con le canzoni degli arditi. Certo, se il signor Prefetto si fosse degnato di scendere in Galleria sui piedini dolci e delicati, avrebbe pensato che forse avrebbe fatto meglio a non proibire il comizio, perché così non lo avrebbe magnificamente ingrandito. Alle ore 20 e tre quarti circa, appare in Galleria il nostro Direttore, circondato da pochi amici. Viene subito riconosciuto ed acclamato. Mussolini sale allora alla finestra del Biffi, e comincia a parlare. Due discorsi.Ma appena egli stende le braccia e pronuncia le … parole, gli jugoslavi in mentite spoglie italiane che si erano precedentemente messi in coda alla folla, urlano poche parole incomposte, e fanno vibrare qualche fischio intelligente; l’unica cosa intelligente che sappiano, forse, fare quei poveri bis… solatiani. Ma, allora, prendono la parola le fiamme. Una parola breve ma efficace. In un batter d’occhio il gruppo di rinunciatari scompare sotto poderosi cazzotti delle fiamme e sbalza qua e là con dei curiosi salti che sembrano l’effetto di una molla elastica. Non oso supporre che fossero effetti di calci; ma certo la cosa doveva assomigliarci assai. Finito il discorso veloce delle fiamme, Mussolini continua il suo che non aveva nemmeno interrotto: – Combattenti! – egli dice – da cittadini disciplinati e da soldati obbedienti noi ci inchiniamo e rispettiamo il decreto che ci vieta di parlare alla Scala. Ma nessuno ci vieta e ci può vietare però di alzare la nostra voce libera contro i rinunciatari di ogni nostro diritto, che vorrebbero mutilata la vittoria d’Italia. Ci accusano di imperialismo. Non è vero. Anzi, è più che falso. Noi vogliamo soltanto quello per il quale migliaia e migliaia di soldati hanno sacrificato la loro giovane vita. Nessun imperialismo. Noi non vogliamo Zagabria, ch’è croata; non vogliamo Belgrado ch’è serba; non vogliamo nulla che non sia italiano. Ma Zara è italiana, ma Fiume è italiana, ma Spalato è italiana, e noi non permetteremo che piede croato calpesti il suolo di quelle nostre nobilissime città. Viva la Dalmazia italiana! Un uragano di applausi saluta il discorso di Mussolini. Lo spettacolo è imponente. Nella pausa gli ultimi rimasti dei Tartufi bissolatiani tentano di spandere il loro odore agreste di selvaggio. Ma la folla, me le fiamme riprendono, senza chiederla, la parola: anzi la danno così bene che i cosiddetti invalidi filano con tanto impeto da arrischiare – se fosse presente un medito – di essere dichiarati abili galoppo stante. Al monumento a Garibaldi. Dalla Galleria l’immensa fiumana di popolo, che molto probabilmente i serafici cronisti dei due giornali croatofili ridurranno, oggi, alle modeste proporzioni di loro stessi, imbocca via Tommaso Grossi, e risale lentamente via Dante. In testa sono le bandiere e gli arditi. Risuonano le canzoni patriottiche come nei tempi del maggio. Volano manifesti inneggianti alle città dalmate. I tram si fermano e mettono una nota luminosa nel brulichio nero della folla. Il monumento di Garibaldi, quando la dimostrazione vi giunge, è già tutto nero di grappoli umani. Occupati il parterre, i gradini e i piedestalli delle due statue laterali. La folla invade tutto il piazzale sottostante e le bandiere e gli oratori salgono sul monumento. La scena popolare è pittoresca. Anche i balconi delle case adiacenti, si aprono e si gremiscono di gente. Nessun incidente all’infuori di una breve bastonatura ad un povero rinunciatario che ha la malinconia di gridare un’invettiva croata e che viene amorosamente portato a braccia alla Guardia Medica vicina. Prende la parola Marinetti […]. Dopo prende la parola nuovamente Mussolini – Chi vi parla – dice – è stato accusato di male imperialista. […] Eppure chi gettò per primo le basi di un programma per una pace giusta, per una pace umana, per una pace duratura, sono stato proprio io; io che ora sarei imperialista mentre i pochi avversari della vittoria sarebbero, invece, wilsoniani. […] Ma chi sono questi novelli wilsoniani? Chi rappresentano? Che cosa vogliono? Bissolati col suo programma, arrivava appena al …; costoro con un manifesto, ammettono invece anche Zara; infine mentre accusano noi di non sapere, che cosa vogliamo, dimostrano chiaramente di non sapere – essi – che cosa vogliono. Ma in verità noi e voi, e tutto il popolo italiano, sappiamo la nostra volontà. Volontà fiera e incrollabile. Vogliamo la Dalmazia italiana, le città italiane. Vogliamo, non per bottino, ma per giustizia, nostro quanto è nostro. Uno scroscio formidabile di applausi accoglie la chiusa del discorso. […] Dimostrazione ostile ai giornali rinunciatari. Piazza del Duomo è di nuovo invasa da una folla enorme. Precedono le bandiere e un folto gruppo di arditi. La Galleria in un attimo è gremita, il sorriso attraversa piazza della Scala e per via Giuseppe Verdi, via Brera giunge in via Solferino. Nugoli di carabinieri e di poliziotti seguono la immensa folla. Prima di giungere dinanzi agli uffici del giornale conservatore-rinunciatario i dimostranti trovano ancora carabinieri e poliziotti in gran numero. Ma ciò non vale; la folla, sempre con le bandiere delle città istriane e dalmate in testa, si porta fin sotto le finestre del giornale, fischiando sonoramente. Intanto, malgrado le evoluzioni strategiche della polizia e della truppa, Marinetti, sollevato in alto, arringa la folla. Si odono i regolamentari squilli di tromba. – Non preoccupatevi degli squilli – dice Marinetti –, siamo qui con le bandiere di Dalmazia italiana, e col cuore palpitante di tutta l’Italia e di tutti i combattenti, davanti a questa orrida montagna d’immondizia. Vi invito a gridare «Abbasso Bissolati! Abbasso i rinunciatari! Abbasso il parecchio! Abbasso il nuovo Giolitti. W. la Dalmazia italiana!». Gli squilli si ripetono e viene fatta avanzare una compagnia di fanteria con baionetta innestata. In un attimo il cordone è rotto. La dimostrazione si dirige agli uffici dell’altro giornale rinunciatario. Invano poliziotti e carabinieri tentano di arginare la grande marea. Un’altra dimostrazione ostile si svolge dinanzi agli uffici del maggiore sostenitore della tesi… sloveno-croata. Qui la guardia di P.S. n. 393 presa da santissima «fifa» leva dal fodero la rivoltella minacciando di far fuoco; ma rientra presto in sé. Nella colluttazione rimane ferito da arma da taglio ad una gamba l’ardito Zugolo. I dimostranti sostano ancora fischiando; vengono suonati ancora gli squilli e di nuovo sono spezzati i cordoni. Quindi la folla si dirige verso il centro cantando l’inno di Mameli ed inneggiando alle città dalmate. Alle 23 la dimostrazione, ancora forte di alcune migliaia di cittadini, si scioglie in Corso Romana, tra alte grida di viva Mussolini, viva il Popolo d’Italia!, dinanzi ad un doppio cordone di truppa che preclude l’accesso alla via Paolo da Cannobio, dov’è la sede del nostro giornale. […] Il Comizio convocato per venerdì.Il Comitato del Fascio comunica che il Comizio, vietato ieri sera, si terrà venerdì sera alla Scala, alle ore 21. («Il Popolo d’Italia», 15 gennaio 1919)

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