Facendo seguito al post dedicato a Valerio Massimo (A modest proposal) e ad alcuni esercizi di analisi presenti nella pagina “Scuola” (relativi a passi di Livio, Tacito e Plinio), proponiamo un’analisi che possa servire come spunto di riflessione didattica, a partire da un capitolo di Cesare. Si tratta del capitolo III 32 del De Bello civili. Il lavoro immaginato è da svolgere parte in classe, parte in modo autonomo dagli studenti. Quanto scriviamo mette a frutto un’esperienza maturata presso l’Università degli Studi di Milano (con gli studenti non specialistici, del ciclo triennale) e presso il liceo “Ettore Majorana” di Desio. Incominciamo dal testo:
Interim acerbissime imperatae pecuniae tota provincia exigebantur. Multa praeterea generatim ad avaritiam excogitabantur. In capita singula servorum ac liberorum tributum imponebatur; columnaria, ostiaria, frumentum, milites, arma, remiges, tormenta, vecturae imperabantur; cuius modo rei nomen reperiri poterat, hoc satis esse ad cogendas pecunias videbatur. Non solum urbibus, sed paene vicis castellisque singulis cum imperio praeficiebantur. Qui horum quid acerbissime crudelissimeque fecerat, is et vir et civis optimus habebatur. Erat plena lictorum et imperiorum provincia, differta praefectis atque exactoribus: qui praeter imperatas pecunias suo etiam privato compendio serviebant; dictitabant enim se domo patriaque expulsos omnibus necessariis egere rebus, ut honesta praescriptione rem turpissimam tegerent. Accedebant ad haec gravissimae usurae, quod in bello plerumque accidere consuevit universis imperatis pecuniis; quibus in rebus prolationem diei donationem esse dicebant. Itaque aes alienum provinciae eo biennio multiplicatum est.
Prima operazione è stata la sua lettura, compiuta prima dal docente, poi dagli studenti, dopo aver predisposto per loro il capitolo secondo le indicazioni suggerite alla pagina “Scuola”, nel file “Proposte di lettura”. Dopo vario esercizio compiuto autonomamente dagli studenti, e completato in classe ascoltando e discutendo assieme le diverse registrazioni da loro effettuate (o una scelta di esse), ecco la registrazione giudicata migliore. La voce è di Mari Catricalà.
Dopo la lettura c’è stata, ovviamente, la contestualizzazione del brano. In breve: la guerra civile si è spostata verso la parte orientale dell’imperium romano. I due eserciti stanno per scontrarsi a Farsalo. Cesare presenta rapidamente gli avvenimenti ed enumera le provincie schierate dalla parte di Pompeo, cercando di mostrare la loro cattiva amministrazione e l’illegalità del dominio dei Pompeiani. Nel caso specifico, è descritta la provincia d’Asia, provincia particolarmente legata alla figura di Pompeo, che l’aveva annessa all’impero di Roma, e attualmente governata da Publio Cornelio Scipione (che Cesare però non nomina mai), oligarca di antica famiglia e suocero di Pompeo. Cesare accusa gli avversari per l’eccessiva tassazione (necessità imposta, a loro dire, dai tempi militari e dalla loro situazione, in quanto lontani dall’Italia e dall’erario di Stato), l’eccessiva densità di magistrature nella provincia, la crudeltà e il comportamento ingeneroso nell’esazione delle tasse. Nel corso del capitolo, in più occasioni, Cesare lascia anche intendere che le ragioni addotte dai Pompeiani sono pretestuose e fasulle, un ritornello propagandistico svuotato di senso reale, mentre i nemici, in realtà, esercitano le loro vessazioni per puro tornaconto personale. Il suo è quindi un attacco diretto, che però non vuole troppo apparire tale.
A livello sintattico, si riconosce una prima parte, semplice, lineare, fortemente scandita e ritmata, marcata dalla presenza del verbo principale in fine di frase (la paratassi è nettamente prevalente sulla ipotassi) e dalla successione di desinenze di imperfetto passivo o impersonale, alla terza persona, singolare o plurale (-bantur / -batur). Segue una seconda parte, che inizia con Erat provincia: il verbo è qui quasi sempre in prima posizione, e la costruzione sintattica tende a farsi più complessa. Dal punto di vista del pensiero la divisione è però ternaria: la prima frase, introdotta dal connettivo interim, sottolinea la simultaneità cronologica con quanto narrato in precedenza ed enuncia il thema (= l’argomento) del capitolo; poi, aperta da Multa praeterea e fino a donationem esse dicebant, segue una serie di exempla, che dovrebbero dare forza all’idea espressa dall’autore (gli esempi proposti restano però generici e non assumono mai la forma di casi specifici). Infine, introdotte da itaque, arrivano le conclusioni dell’autore, che presentano le conseguenze dell’azione dei Pompeiani.
Nel lessico del capitolo si riconoscono alcuni termini tecnici del linguaggio giuridico/amministrativo, potenzialmente neutri ed asettici, mescolati però in callidae iuncturae (e spesso in endiadi) con parole, al contrario, fortemente connotative, portatrici del giudizio dell’autore. In particolare vanno segnalati il passaggio, nel definire la tassazione, da imperatae pecuniae (termine neutro, ma ossessivamente ripetuto in più forme) a tributum; la successione servorum ac liberorum [capita], che fa precedere gli schiavi ai liberi cittadini; l’endiadi acerbissime crudelissimeque facere (in cui il primo avverbio riprende e specifica l’acerbissime iniziale, allora lasciato senza commenti); espressioni fortemente connotate come avaritia [“avidità”], domo patriaque expulsi [dove “expulsi” sottintende la rapidità della loro fuga dall’Italia e l’efficacia dell’azione cesariana, che di quella fuga era stato artefice], privato compendio servire [dove “compendium” è il tornaconto personale, il guadagno privato, qui rafforzato da due aggettivi, suum e privatum che ribadiscono l’idea e da un verbo, servire = “essere schiavi” di assai forte significato espressivo]; il gioco di parole sulla provincia plena e referta (che implica la metafora non sviluppata di un convitato saturo); l’accumulo di termini simili (le otto forme di tassazioni elencate all’inizio; le quattro tipologie di magistrati ricordate a metà capitolo); la costruzione a zoom di talune frasi (ad esempio nel nesso non solum urbibus, sed paene vicis castellisque, con progressivo, ma significativo, restringimento dell’obiettivo); l’accurata disposizione dei termini (acerbissime, all’inizio, unito apò koinoù sia a imperatae che a exigebantur), oppure la loro insistenza (ad es. la ricorrenza di singula: tali sono i capita delle vittime; ma tali sono anche i villaggi saccheggiati, a delineare una rete dalla quale nessuno si salva). Alle figure dell’accumulo e dell’endiadi si aggiungono poi l’evidente ricerca di omoteleuti in contesti di particolare sgradevolezza (servorum ac liberorum, per dirne uno; oppure prolationem/donationem); l’enfasi pomposa, facilmente riconoscibile, di et vir et civis optimus, che svuota di senso le parole dei Pompeiani; l’uso del frequentativo dictitabant, che abbassa a livello di slogan le giustificazioni addotte dagli uomini di Pompeo… Infine, l’omoteleuto a rima prolationem/donationem – quest’ultimo facilmente sostituibile con il più semplice e comune donum – riduce a vacua filastrocca la concessione che i Pompeiani sono disposti a fare alle loro vittime (più uno scherno che una vera concessione), e toglie verità alla precedente concessione fatta da Cesare, quod in bello plerumque accidere consuevit: espressione in apparenza magnanima ed elegante, smentita però dalla descrizione dei comportamenti dei Pompeiani, tutt’altro che giustificati dalle circostanze esterne. Sarà anche una consuetudine dei tempi di guerra quella che viene descritta, ma il lettore abbia bene in mente che con i Pompeiani questa consuetudine assume forme di vera crudeltà (acerbissime crudelissimeque facere) e risponde in realtà a puro tornaconto personale (suo privato compendio serviebant).
Nella pratica della classe queste indicazioni sono state ricavate dopo la lettura e prima della traduzione sistematica del brano, sollecitando gli interventi degli studenti attraverso una serie appropriata di domande, di modo che loro percepissero come proprie acquisizioni i vari elementi che via via venivano sottolineati. Ovviamente, le domande erano già strutturate in modo tale da suggerire osservazioni ed interpretazioni alle quali, suppongo, gli studenti non sarebbero arrivati da soli (o sulle quali non si sarebbero probabilmente soffermati). Alla fine del dibattito, durato ca. un’ora, si è passati alla traduzione, divenuta così il termine di un lento processo di avvicinamento al testo, e non l’operazione sulla quale buttarsi a capofitto fin dal principio, senza avere prima ragionato sulle dinamiche e le parole del capitolo.
Da ultimo, è stata assegnata agli studenti la prova di verifica, che ha preso la forma di una serie di domande strutturate nelle tre parti evidenziate durante l’analisi: struttura del brano, lessico in uso, contenuto complessivo. Allego in due pdf il testo della verifica e un esempio di risposta. Ne è autore lo studente Massimo De Marchi.