In un certamen tenutosi in provincia di Varese (Non omnis moriar, IX edizione; quest’anno organizzato dal Liceo “Daniele Crespi” di Busto Arsizio) è stato presentato ai concorrenti, che erano tutti studenti del secondo anno provenienti da una decina di licei classici della provincia e di altre province limitrofe, il seguente testo di Cesare:
Caesar per litteras Trebonio magnopere mandaverat, ne per vim Massiliam expugnari pateretur, ne gravius permoti milites et Massiliensium defectionis odio et contemptione sui et diutino labore omnes puberes interficerent; quod se facturos minabantur, aegreque tunc sunt retenti quin oppidum irrumperent, graviterque eam rem tulerunt, quod stetisse per Trebonium, quominus oppido potirentur, videbatur. At hostes sine fide tempus atque occasionem fraudis ac doli quaerunt interiectisque aliquot diebus nostris languentibus atque animo remissis subito, meridiano tempore, cum alius discessisset, alius ex diutino labore in ipsis operibus quieti se dedisset, arma vero omnia reposita contectaque essent, portis se foras erumpunt, secundo magnoque vento ignem operibus inferunt. Hunc sic distulit ventus, ut uno tempore agger, plutei, testudo, turris, tormenta flammam conciperent et prius haec omnia consumerentur, quam, quemadmodum accidisset, animadverti posset. Nostri repentina fortuna permoti arma, quae possunt, arripiunt; alii ex castris sese incitant. Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Illi sub murum se recipiunt ibique musculum turrimque latericiam libere incendunt. Ita multorum mensium labor hostium perfidia et vi tempestatis puncto temporis interiit.
Si tratta di un pezzo unitario del De bello civili, che include il finale del capitolo 13 e gran parte del capitolo 14 del secondo libro dell’opera. Il brano si riferisce all’inizio dell’assedio di Marsiglia, cui anche Lucano ha dedicato tanta parte del suo poema (il libro III). Il testo è esattamente quello di Cesare, salvo l’aggiunta della precisazione iniziale dell’oppidum di cui si stava parlando, che in Cesare si ricava dalla continuità di lettura; una nota a piè pagina spiegava anche chi fosse Trebonio. In classe credo che funzionerebbe bene il confronto fra questo brano e la narrazione lucanea, che ovviamente è di tutt’altro tono. Importante mi pare soprattutto la sottolineatura dei Marsigliesi come hostes sine fide perché fanno irruzione fuori dalla città assediata nonostante i Cesariani siano ben disposti verso di loro; Lucano, al contrario, osservando che loro soli si sono opposti all’altrimenti irresistibile avanzata di Cesare, li gratificherà di unici dotati di fides nei confronti di Roma e del suo senato, eppure sarebbero una Graia urbs!: ausa est servare iuventus / non Graia levitate fidem signataque iura, III 301-302. In fondo, Cesare aveva sì raccontato in precedenza che, stretti dall’assedio e già messi in difficoltà dalle operazioni guidate da Trebonio, i Marsigliesi avevano chiesto di attendere l’arrivo di Cesare perché si decidesse la loro sorte; ma, a parte che questo lo dice Cesare, ma non sappiamo se sia vero e gli storici moderni anzi ne dubitano, è invece sicuro che i Marsigliesi avranno ignorato la “clemenza” proposta da Cesare a Trebonio; e nemmeno si capisce come avrebbero potuto essere al corrente dei sentimenti e delle discussioni interne al campo nemico. La loro mancanza di fides si manifesta, di fatto, nell’approfittare di un’occasione propizia per fare una sortita dalla città assediata, e incendiare così parte delle macchine da guerra nemiche: una cosa che, in tempi bellici, sarebbe in effetti illegittima nel caso di tregua giurata fra le parti (come vuole Cesare), ma altrimenti è del tutto ovvia. E anche nel caso di interruzione delle tregua, è comunque avvenimento abbastanza comune per non doversene scandalizzare più di tanto – i paralleli non mancano né nei racconti di Cesare né nella tradizione epica, penso ad esempio al patto giurato e poi violato dai Latini nel dodicesimo libro dell’Eneide. Piuttosto, dal brano si evince come siano i soldati di Cesare a farsi cogliere impreparati di fronte all’assalto, anche se Cesare li scusa ricordando la loro fatica precedente e celebrando la loro pronta capacità di reazione, che subito ribalta le sorti del contrasto e in seguito permetterà di rifare in tutta fretta le opere danneggiate.
Qui vorrei però concentrarmi su un dato, che è emerso dalla lettura delle prove dei concorrenti al certamen (una settantina circa). Fra i passaggi più difficili da interpretare è risultata la seguente frase: Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Ragione della difficoltà è stata, evidentemente, l’incapacità di molti concorrenti di capire chi siano i fugientes della situazione; chi, di conseguenza, riceva la proibizione di seguirli; di quale muro si tratti; e quale sia il rapporto di sagittis tormentisque con il resto della frase. Ora, un certamen è un certamen, e punta a individuare un podio di possibili vincitori. Una classe è invece una classe, e lì si deve puntare a traghettare al sicuro quanti più studenti possibile, auspicabilmente tutti. Cosa crea difficoltà in questa frase? A mio giudizio, tre cose, che rappresentano però anche tre tipici “errori” del nostro approccio ai testi latini. Vediamoli insieme.
Il primo errore: l’ignoranza del lessico nelle sue specificità linguistiche. Si tende a dimenticare che ogni parola non significa pressapoco qualcosa, ma esprime un preciso concetto, non confondibile con nessun altro (salvo quando ci siano voluti giochi linguistici da parte dell’autore; ma non è il caso di Cesare). Qui si sta parlando di assedio di una città; da un lato quindi c’è una città fortificata, con le sue mura e le torri di difesa; dall’altro un accampamento provvisorio, ancorché perfettamente attrezzato, fatto in larga parte di legno, per essere facilmente costruibile e facilmente spostabile (vi si segnala infatti, come particolarità, la presenza di una torre di mattoni, turris latericia). Già questo avrebbe dovuto guidare verso l’idea che de muro si riferisca alle mura di Marsiglia e che sia da lì, quindi, che provengono sagittae e tormenta (de, con tipico movimento dall’alto verso il basso). Di conseguenza, i fugientes così salvati dall’intervento di provvidenziali aiuti dall’alto devono essere i Marsigliesi, prima vincitori nella loro sortita, poi sorpresi dalla reazione dei Cesariani (già soggetto della proposizione precedente, e quindi sempre loro ad essere prohibiti dall’inseguimento).
Il secondo errore: la difficoltà di vedere i testi nella loro interezza, limitandosi a tradurli segmento per segmento, man mano che questi si presentano allo sguardo dello studente. Agendo così, è chiaro che ci si trova davanti prima a un de muro poco perspicuo, poi a un sagittis tormentisque che non si sa bene a chi si riferisca ecc. ecc. Ma prima di tradurre ragioniamo sulla continuità del testo, ricordandoci che sì, è vero, in latino la presenza delle declinazioni consente di usare più liberamente le parole rispetto all’italiano; ma anche in latino, nonostante le declinazioni, la posizione delle parole ha pur sempre un significato. Perché allora sagittis tormentisque dovrebbe trovarsi dislocato a sinistra nelle frase, vicino a de muro, e lontano da persequi? Evidentemente, perché a de muro si riferisce, e non a persequi, con il quale non ha nessuna relazione.
Infine, torno sulla necessità di ragionare prima di tradurre, cercando di visualizzare nella nostra mente quanto l’Autore ci ha detto e ricordando sempre che i testi sono racconti (o argomentazioni), che hanno uno sviluppo consequenziale e logico. Fatto questo, ecco che ogni cosa va subito a posto: Cesare chiede di salvare gli abitanti di Marsiglia, dando per certa la propria vittoria. Quelli, incuranti, tentano una sortita, che all’inizio sembra avere successo e consente loro di incendiare, con l’aiuto del vento, gran parte delle macchine da guerra preparate dai Cesariani. Questi ultimi sono sorpresi in ozio, e dapprima risultano incapaci di difendersi. Poi però reagiscono bene, e fit impetus in hostes, contrattaccano, mettendo in fuga quindi gli assalitori. Ma (sed), in forte opposizione a quanto appena detto, non riescono a portare a termine la loro azione (fugientes persequi prohibentur), poiché impediti, evidentemente, da sagittae e tormenta provenienti de muro. Tanto che i nemici (illi, nettamente diversificati dal precedente soggetto) arrivati sotto le mura cittadine riescono ancora a raccogliersi (se recipiunt) e a fare danni, dei quali lo stesso Cesare lamenta l’entità. Tutto appare logico.
Non si traduce procedendo a spezzoni, dividendo il testo in sezioni prive di connessione le une con le altre: si traduce comprendendo il testo nella sua interezza e continuità, ed entrando poi nei suoi segmenti specifici. E’ quello che gli antichi chiamavano evidentia. Il Lewis-Short, strumento sempre eccellente, la glossa giustamente con “clearness, distinctness.—In rhet. lang., clearness, perspicuity; used by Cicero along with ‘perspicuitas’, as a translation of ἐνάργεια“. La radice, inutile dirlo, è quella di vidēre per il latino, di un aggettivo che significa “luminoso, chiaro” per il greco. Ma io proporrei di pensare anche al greco phantasia (φαντασία) e alla sua relazione con phaino (φαίνω), “mostrare”, e phantazo (φαντάζω), “rendere visibile”. Ecco, diciamo allora così: tradurre è entrare in un testo passando dalla testa del suo Autore. Ma senza fantasia (= ‘capacità di vedere e rendere le cose visibili’), questo non è possibile. Senza fantasia, non si traduce.