Apriamo una serie di post sui cani nel mondo antico. Pensavo originariamente di occuparmi solo di quelli presenti nella letteratura latina, ma vorrei dedicare questa puntata al mondo greco, eccezionalmente. Mi spinge a farlo la bibliografia, che può contare sul volume di Cristiana Franco, Senza ritegno. Il cane e la donna nell’immaginario della Grecia antica, Bologna (il Mulino) 2003, di taglio antropologico; e, per la parte che più mi interessa, su un bell’articolo di Valentina Garulli, Gli epitafi greci per animali. Fra tradizione epigrafica e letteraria, apparso nel volume miscellaneo Memoria poetica e poesia della memoria. La versificazione epigrafica dall’antichità all’umanesimo, a cura di Antonio Pistellato, Venezia (Edizioni Ca’ Foscari) 2014, ma reperibile anche on-line. Per gentile concessione dell’Autrice, che ringrazio, ricavo da quello i dati che qui esporrò e la traduzione dei testi che vado a proporre.
Dunque, in questo post mi occuperò di epitaffi per cani. Perché la stesura di un epitaffio rappresenta l’atto supremo della conservazione di una memoria: il cane è morto, viene sepolto, ma il padrone mantiene il ricordo dell’animale e della tomba, e ne tramanda notizia ai posteri. Nel suo articolo Garulli ricostruisce 13 epitaffi: 2 provenienti dall’Anthologia Palatina; 2 trasmessi dal grammatico ed enciclopedista Pollùce; 2 tramessi in forma papiracea; e 7 attestati in iscrizioni, che possono essere tuttora conservate e visibili o trasmesse da testimoni più o meno attendibili (come, ad esempio, l’umanista Ciriaco d’Ancona, che nel XV secolo realizzò la prima raccolta di iscrizioni greche).
Tredici testi costituiscono un piccolo corpus, che qui voglio riportare. Segnalo alcuni dati circa la provenienza: i 4 epigrammi di tradizione letteraria sono attribuiti, rispettivamente, a Simonide (ma si pensa sia errore per Simia di Rodi); alla poetessa arcade Anite (entrambi del III sec. a.C.); a Timne, un poeta anteriore a Meleagro di Gadara (I sec. a.C.); ad Antipatro di Tessalonica (d’età augustea). Sono autori che vengono da aree geografiche differenti, ma come si vede dai dati forniti, sono tutti vissuti entro il I sec. d.C. I testi su papiro fanno invece parte dal cosiddetto “Archivio di Zenone”. Si tratta di un cospicuo numero di documenti , oggi conservati in diversi musei e località, ma provenienti tutti da Filadelfia, un luogo desertico all’estremo nord-orientale del Fayum, in Egitto. Il nome ne ricorda l’appartenenza, in origine, alla casa di Zenone, amministratore di Apollonio, ministro delle finanze di Tolomeo II Filadelfo (III sec. a.C.). I due testi che ci interessano sono conservati su un unico papiro del museo del Cairo, scritti uno di seguito all’altro; si tratta del papiro noto come P.Cair. Zen. 59532. Infine, le 7 epigrafi: Garulli le data, indizialmente, fra I secolo a.C. e III secolo d.C.; quanto alla provenienza geografica, vengono da Roma, dall’Africa, dall’Asia Minore. Anche in questo caso, quindi, la dislocazione spaziale è senza apparenti limiti, quella temporale risulta più circoscritta. Curiosa è infatti la constatazione di come la produzione letteraria sembri rinsecchirsi con l’era volgare (o, almeno, noi non ne abbiamo ulteriore notizia); quella documentaria, al contrario, prosegue florida fino alla piena età imperiale.
Ecco i tredici testi:
Anche da morta le tue bianche ossa in questa tomba
ancora, immagino, fanno tremare le belve, Licade cacciatrice.
Il tuo valore conoscono il grande Pelio e il chiaro
Ossa, e le solitarie cime del Citerone.
(Simonide, ma in realtà probabilmente Simia di Rodi)
Peristi un giorno anche tu accanto a un cespuglio dalle ampie radici,
Locride, velocissima tra le cucciole chiassose;
tale è il veleno mortale che nelle tue agili membra
ha inoculato una vipera dal collo variopinto.
(Anite di Tegea)
Qui il veloce cane di Malta la pietra – dice lei –
copre, fidissimo custode di Eumelo.
Tauro lo chiamavano, quando c’era ancora; ora invece
la sua voce l’hanno le silenziose vie della notte.
(Timne)
Lampone, cacciatore, cane di Mida, la sete lo ha ucciso,
anche se dopo una lunga lotta per la vita.
Infatti con le zampe scavava il suolo umido, ma l’acqua
pigra dalla cieca sorgente non si affrettava a sgorgare;
lui venne meno e si accasciò, e la sorgente cominciò a zampillare.
Davvero, Ninfe, su Lampone avete riversato la collera dei cervi da lui uccisi.
(Antipatro di Tessalonica)
Due cani e due cagne; uno da pastore, tre cacciatori. Due muoiono per incidenti imprevisti, ed è proprio l’imprevisto a giustificare l’epitaffio; degli altri, nulla si sa. I cani sono veloci, valorosi, fidi, chiassosi, abili nel loro mestiere, destinati a lasciare lunga memoria di sé: ma in questo immaginario piuttosto ristretto si consuma ogni loro avventura terrena. Tant’è vero che la morte rocambolesca, in due casi su quattro, è appunto tutto ciò che merita di essere ricordato ed è anche ciò che costituisce il tratto più realistico della loro rappresentazione (una vipera che si crede al sicuro nell’erba, e reagisce stizzita quando non si sente più tale; un colpo di caldo, alla vana ricerca di acqua). Troppo poco, verrebbe da dire.
Passo ora al cane di Zenone:
Questa tomba proclama che l’indo Taurone giace
morto, ma il suo uccisore ha visto prima l’Ade;
simile a una fiera a vederlo di fronte, o forse ultimo discendente
del cinghiale calidonio, nei campi fecondi di Arsinoe viveva
indisturbato, tra i cespugli tutto irsuto sul collo e
schiumante di bava intorno alle mascelle;
si imbatté nel coraggio del cucciolo e prontamente
gli solcò il petto, ma quello senza indugio gli mise il collo a terra;
infatti, preso insieme alle setole il forte tendine,
non chiuse per sempre i denti prima di consegnarlo ad Ade.
[…] Zenone nella caccia senza essere stato ancora addestrato alle fatiche,
e si guadagnò la riconoscenza di una tomba sotto terra.
Un cucciolo, quello che ha ricevuto gli onori funebri sotto questa tomba,
Taurone, si è dimostrato non privo di risorse nei confronti di chi lo ha ucciso;
quando infatti si imbattè in un cinghiale in uno scontro frontale,
quello, gonfiando mostruosamente le mascelle
e bianco di schiuma, gli solcò il petto;
ma l’altro gli avvinghiò il dorso con due zampe,
e lo ghermì irsuto in mezzo al petto
e lo bloccò a terra; e, consegnato ad Ade
il suo uccisore, morì come vuole l’uso indiano.
E per aver salvato Zenone che seguiva a caccia,
fu sepolto sotto questa lieve polvere.
I due epigrammi si riferiscono allo stesso fatto, e sono probabilmente opera di uno stesso autore. La ragione del doppio omaggio ci sfugge: c’è della letteratura, comunque, dietro una simile scelta. Protagonista è Taurone, cane di razza india, e cioè di nuovo un cane da caccia. La caccia è quella al cinghiale; l’esito è tragico: Taurone, cucciolo e forse inesperto, viene subito assalito dal cinghiale; ma mentre quello lo solleva in alto con la zanna, ne approfitta per saltargli sul dorso, ferirlo in qualche modo al petto (i due epigrammi non sono del tutto coerenti), ucciderlo a sua volta. In questo modo, Taurone, pur morendo, vince la fiera e salva la vita al padrone. Nulla ci spinge a dubitare dell’episodio; fatta salva una piccola incertezza su quale sia la parte del cinghiale sulla quale si accanisce Taurone (ma non sarà stato facile distinguerlo!), i due racconti sono sostanzialmente concordi. A me viene in mente però che nella descrizione della battaglia di Canne che ci ha lasciato Silio Italico (Punica 9.587-598) si racconta di un elefante – anche se non ci furono elefanti a Canne, in realtà! – che aveva sollevato con la proboscide Tadio; e questi, morente, seppe approfittare della posizione elevata per colpire l’animale vicino all’occhio, uccidendolo. La situazione è diversa, naturalmente, ma il meccanismo narrativo no. Anche in questo c’è, in fondo, della letteratura.
Ecco infine i sette testi epigrafici:
Il cane Tiranno.
Qui giaccio sotto terra, padrone, dopo molte fatiche.
(da Cirene)
Tutto ciò che resta della cagnolina Tea lo copre la tomba,
splendore di simpatia, di tenerezza, di bellezza;
e la ragazza, che ha nostalgia del suo dolce trastullo, piange a calde lacrime
colei che ha cresciuto nella sua casa, e conserva un vivo ricordo del suo affetto.
(da Roma)
Tu che percorri questa via, se mai poni mente a questa tomba,
no, ti prego, non ridere, se e la tomba di un cane;
fui pianto, e le mani del mio padrone hanno radunato la polvere,
lui che ha anche fatto incidere queste parole sulla stele.
(da Roma)
La cagna sotto la terra Lesbia l’ha seppellita Balbo,
pregando che la terra sia leggera sulla cagnetta sepolta,
lei che lo ha servito e che tanto mare con lui ha navigato. Possa tu garantire
una sepoltura agli esseri umani, dato che questo offri agli esseri privi di senno.
(da Mitilene)
La cagna Partenope l’ha seppellita il suo padrone, che con lei si divertiva,
e le ha reso cosi una ricompensa del piacere che gli ha procurato.
E cosi, esiste un premio dell’amore anche per i cani, come appunto anche costei
che era devota a chi la nutriva ha ottenuto questa tomba.
Guardando a questa tomba fatti buon amico chi sappia
amarti di cuore in vita e si curi del tuo cadavere.
(da Mitilene)
Il mio nome è “Amante della caccia”; infatti, essendo tale,
ho posto le mie zampe veloci all’inseguimento di terribili fiere.
(da Pergamo)
E’ di un cane questa tomba, di Stefano che è morto,
e che Rodope ha pianto e ha seppellito come un essere umano.
Sono il cane Stefano, e Rodope mi ha costruito questo tumulo.
(da Termesso, in Pisidia)
Quattro cani e tre cagne; tre sono sicuramente animali da compagnia, uno da caccia, di altri tre è difficile dire, anche se Tiranno è certo animale da lavoro, ma non è detto quale lavoro, e la caccia resta la scelta più probabile, mentre per gli altri due di cui nulla è detto di specifico, da quanto apprendiamo di loro è probabile che siano anch’essi animali da compagnia, non da lavoro. Sei volte su sette compaiono i padroni, che sono quattro uomini e due ragazze; queste ultime hanno un nome, come uno degli uomini. Gli altri restano innominati, indicati solo nella loro funzione (“padrone”), ma senza personalità propria. Le due ragazze si legano a cani da compagnia (un cane e una cagna, per l’esattezza); interpreto come cane da compagnia anche la cagnolina di Balbo, che lo ha seguito nei suoi viaggi per mare. Guarda caso, è l’unico padrone maschio che si qualifica per nome. Spesso le epigrafi avvertono un certo bisogno di giustificarsi, che vada al di là, mi sembra, delle solite formule di convenzione: è il caso della seconda epigrafe romana (anche se l’appello al viandante è di tradizione); di quelle che Balbo e Rodope hanno scritto per le loro cagnette; di quella del padrone di Partenope. Tanta insistenza qualcosa vorrà ben dire… Colpiscono i toni affettuosi e, questa volta sì, del tutto realistici, dei diversi ricordi. Se Tiranno si segnala solo per il suo zelo, Tea è simpatica, tenera, bella, un animale che ha sempre fatto parte della vita e della casa della sua padroncina. Nell’epitaffio si propone una sorta di equivalenza, epigrafe = pianto e pianto = ricordo di una lunga coabitazione. Solo il pianto viene evidenziato nel caso della seconda epigrafe romana, ma possiamo pensare che la serie di equivalenze sia implicita anche in quel caso e che le doti che si vogliono rievocare siano in fondo le stesse. La comitas, già evidente per Tea, si fa ancora più esplicita nel caso della cagnetta di Balbo, visto che all’attaccamento per la casa si sostituisce quello per lo specifico padrone, reso necessario dalla vita raminga di questi. Un mutuus amor, o quanto meno una mutua voluptas, è quanto emerge dall’epitaffio per Partenope, fondato sull’idea di una reciprocità che vuole la cagna onorata come un essere umano dopo che come un essere umano si è comportata con il suo padrone, ligia a un patto non scritto, “devozione in cambio di cibo”. Ma se il patto è fondato su una ragione economica, e quindi se vogliamo in parte discutibile, non più strettamente economica è la vita di divertimento e piacere che i due hanno sperimentato insieme. Infine, Stefano: che era un cane ma si è conquistato gli onori di un umano, perché da umano, evidentemente, era trattato dal suo padrone (e come un umano sembrava parte della vita di quello). Ciò lascia fuori il solo Philokynēgos,”l’amante della caccia”, un cane che a ben vedere non ha nemmeno un vero nome – il nome coincide con la sua professione; e la sua professione, ben eseguita, è tutto ciò che il padrone è ora in grado di rievocare. Ingiustizie e disparità di trattamento esistevano già nel mondo antico; e i cani da caccia ne sono stati spesso vittima…