Dunque, passate le interviste giornalistiche, le chat ecc. ecco forse la sede ideale per tornare a ragionare della prova di maturità 2017. Come oramai sappiamo tutti, il testo era Seneca, i paragrafi 3-5 dell’Epistola 16 a Lucilio (del resto, esplicitamente citato nel testo). Bene, una bella scelta nel complesso, perché Seneca è un autore del canone, e si può pensare che molti studenti ne abbiano letto qualcosa nel corso del loro curriculum. Comunque, è giusto che una prova finale di percorso tenga conto del percorso compiuto. Seneca vi rientra, una definizione di filosofia pure. Spiace semmai che l’epistola sia stata privata dell’inizio (parr. 1-2) e della fine (parr. 6-9). A rivedere il testo originale, ci si rende conto che, specie la parte finale, avrebbe cambiato leggermente la prospettiva del discorso. Detto questo, però, la sezione prescelta ha una sua logica; non rimanda in modo assolutamente necessitante a parti esterne al discorso; ritorna come tale in molti versionari (è un male? è un bene?), a dimostrazione che come unitaria è stata avvertita da molti.
Come già nel 2015, con Tacito, la versione presenta un breve cappello introduttivo, novità rispetto a quanto si era usi fare fino al 2013. L’introduzione tacitiana conteneva, di fatto, un riassunto parziale del testo proposto; questa senecana era più generica. A traduzione compiuta ci si rende conto che certe frasi si riferivano a parti del testo tradotto, ma prima di avere terminato un’esegesi completa del brano, la cosa non appariva molto evidente. A esegesi compiuta, ovviamente, il dato può servire di controllo, ma in parte è superfluo. Insomma, giusta l’idea dell’aiuto; forse, non un grande aiuto.
Il testo è facile e difficile nello stesso tempo. E’ facile sintatticamente, perché non si va mai oltre la subordinata di primo grado; ma la difficoltà di Seneca sta nel lessico. Ogni parola nasconde una trappola, ogni parola è portatrice di un significato specifico, che non sempre il dizionario sarà stato in grado di aiutare a cogliere. Sappiamo tutti quanto gli studenti italiani siano abituati a dipendere dal dizionario. Ma qui bisognava ragionare sulle parole, sul loro valore concreto ed etimologico, sullo specifico valore che ad ognuna di esse attribuisce Seneca, uno scrittore che come pochi altri si crea un suo lessico, un suo vocabolario, pur utilizzando parole preesistenti nella lingua latina e nel tecnicismo filosofico (ma i tecnicismi filosofici vengono da lui reinterpretati, alla luce della propria specifica declinazione di filosofia, che non si inserisce in modo preciso entro nessuno schema, nessuna scuola). Gli esempi sono tantissimi: populare artificium io l’avrei tradotto qualcosa come “un prodotto per tutti”, facendo sentire il valore etimologico di artem facere (l’italiano “artificio” sarebbe fuorviante); paratum ostentationi dice che la filosofia non serve a “mettersi in mostra”, come poi dirà che consiste nei concetti (res), non nella forma (verba), che non serve al diletto personale (oblectatio), né ad alleviare il senso di fastidio dedicando tempo alla riflessione (demere otio nauseam). Attraverso l’immagine – platonica e non solo – del mare della vita da attraversare su fragile barca, Seneca assegna alla filosofia il ruolo di un timoniere che siede al timone (ad gubernaculum) e guida la rotta (derigit cursum) di coloro che ancora si agitano sul mare tumultuoso dell’essere (tradurrei così fluctuantium). Mi fermo qui. Vorrei piuttosto sottolineare un’altra cosa. Il testo è perfettamente tripartito (del resto, le edizioni moderne lo dividono in tre paragrafi, anche se la presentazione del testo ministeriale non rispettava esattamente la suddivisione fra il par. 3 e il par. 4, non so perché). Nella prima parte, Seneca presenta cinque false idee sulla filosofia (che non è populare artificium, ostentatio, verba, oblectatio o otium) e, molto pragmaticamente, definisce poi la stessa sulla base delle sue azioni, e non di una definizione concettuale. La filosofia costruisce e abbellisce l’animo, fissa la nostra vita, regge le nostre azioni, ci dice cosa fare e cosa no, stando al timone ci aiuta ad attraversare il dubbio mare della vita. Abbastanza evidente la costruzione in parallelo fra le due parti, cui segue la conclusione: senza filosofia non si vive privi di affanni (secure); la filosofia è d’aiuto in ogni occasione, a ogni ora del giorno. La seconda parte dà voce, come diatriba vuole, a un possibile, fittizio oppositore (aliquis): se la vita umana è retta da un fato provvidenziale, da un dio che ci priva del libero arbitrio, dal caso che impedisce qualsiasi disegno razionale (e quindi anche un cammino assimilabile alla rotta di una nave), a che serve la filosofia? Le tre possibilità si fanno subito dopo due: deus e fatum si riassumono in certa: ciò che è già fissato da altri (e poco importa che si tratti di disegno provvidenziale o di capriccio divino), non può essere mutato. Il caso si ripropone nel termine incerta: se nessuna razionalità esiste nelle cose del mondo, a che serve una guida? L’obiezione si conclude ripetendo i termini iniziali: deus (che include sempre anche fatum) e fortuna (che si sostituisce a casus, ma che di fatto finisce per equivalergli).
L’ultimo paragrafo offre la risposta di Seneca. Intanto, la filosofia è un imperativo categorico (con piccolo anacronismo, tradurrei così philosophandum est). E questo è vero sia che si realizzi una sola delle possibilità previste dall’obiezione, sia che si realizzino tutte assieme (quicquid est ex his // vel si omnia haec sunt, dove in vel a me sembra molto forte il valore originale del termine, imperativo di velle, “sia pure anche che…”). L’idea è ripetuta e ampliata subito dopo, parlando ancora di fata, deus arbiter universi, e casus, i tre termini che avevano aperto la discussione. La filosofia è adhortatio, dice Seneca. Noi possiamo accettare di essere trascinati dalla corrente (e poco importa che questa vada verso una meta precisa, fatum vel deus, oppure no, casus vel fortuna); dobbiamo imparare a seguire al meglio possibile questa corrente, e a sopportarla quando ci sembri troppo forte e priva di meta: ducunt volentem fata, nolentem trahunt, un pensiero che tornerà molto più avanti nello scambio di lettere con Lucilio (epist. 107), ma che io sento adombrato già qua.
Due piccole osservazioni per chiudere: il testo di Seneca è molto bello, proprio per la costruzione che spero di avere messo in evidenza; e per la sfida che ogni singolo termine offre al traduttore. Gettarlo in pasto a ragazzi, e per di più sottrarre ai ragazzi ogni possibilità di commentarlo in qualsiasi modo, e di percepirlo quindi come un testo vivo, e non solo “da tradurre”, per me è un peccato. Non amo particolarmente Seneca, come sanno i miei allievi. Ma questo era un testo sul quale ragionare a livello di contenuto, di struttura, di lessico. Chiederne solo una traduzione, perdipiù, come immagino, spesso in italiota (secondo la prassi scolastica più diffusa: e spero di essere vivamente contraddetto), lo trovo uno sciupio. Questo testo andava accompagnato dalla stessa struttura che ha accompagnato, ieri, una bella, ma meno bella, poesia di Caproni: interesse al contenuto; interesse alla forma argomentativa; interesse circa l’attendibilità e la spendibilità delle parole di Seneca nella vita dei giovani d’oggi (questa sarebbe stata la parte più a rischio della prova, ma in fondo in una maturità ci può anche stare…). Seconda cosa: a preparare questo post mi hanno aiutato due ragazzi al terzo anno di liceo, che ringrazio. Opportunamente guidati, loro sono arrivati saldamente e felicemente in fondo al testo e alle sue difficoltà. E’ stato per me un momento di estrema gioia quando uno dei due, giunto alla fine, ha sciolto istantaneamente e senza stare neanche a pensarci il concettismo di deum sequi, ferre casum (con una amica e collega avevamo paventato che da feras venisse fuori qualche belva feroce; ma così non è stato). I due giovani non me ne vogliano se ora rivelo che a scuola non hanno finora goduto di ottima stampa, e hanno vissuto e vivono tuttora le loro difficoltà. Allora, ecco la morale.
Primo: testi di tale grandezza non possono essere resi versioni da tradurre, senza possibilità di riflessione e commento. Secondo: con una guida, il testo era abbordabile anche per studenti di grande intelligenza e vivacità, ma dai risultati, quando lasciati da soli, non sempre efficacissimi. Cosa abbiano fatto i maturandi di oggi, lasciati anche questa volta del tutto soli, lo diranno le singole commissioni impegnate nella correzione. Ma se gli esiti non fossero travolgenti, la colpa non sarà di Seneca o del latino: sarà dell’averli lasciati soli…
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