Lo sai che i papaveri sono alti, alti, alti…
La locuzione italiana “alti papaveri” per dire le persone di maggior importanza non è una mera espressione idiomatica. Lo dimostra la storia di Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, dalla tradizione collocato nel periodo 534-509 a.C. Nella versione di Livio (I 53), questo re aveva cercato invano di assaltare con la forza la città di Gabii, che si trovava a Est di Roma, sulla strada verso Preneste, dopo Roma certamente il centro laziale di maggior estensione. Questa città latina aveva respinto Tarquinio dalle mura, annullando così la possibilità di un assedio. Il re allora decise di ricorrere all’inganno e all’astuzia (fraude ac dolo), “per nulla secondo lo stile romano” (minime arte Romana) aggiunge Livio (I 53, 4). Per Livio, in effetti, l’ars Romana riguarda la guerra, che nella tradizione — a partire dai re — è contraddistinta dalla disciplina militaris, giunta a una forma d’arte e regolata da una precisa serie di norme (Liv. XXV 40, 5; IX 17, 10-11). La guerra alla Romana può comprendere l’astuzia, ma solo come imboscata (Liv. I 14, 7-8, Romolo contro i Fidenati in insidiis). I non Romani, ad esempio i Sabini, al sangue freddo nell’attaccare Roma aggiungono il dolus, avvalendosi dell’aiuto di una Vestale romana corrotta per entrare proditoriamente in città (Liv. I 11, 6). Nell’ultimo re di Roma vi è dunque qualcosa di estraneo, di non romano: non è un caso che da Livio Tarquinio il Superbo sia considerato figlio di Tarquinio Prisco, di origine greco-etrusca (Liv. I 46, 4; 47, 4-5).
Contro gli eccessi della critica novecentesca (Ettore Pais) la presa di Gabii ad opera di Tarquinio oggi non è considerata sprovvista di realtà. Nel racconto liviano Sesto Tarquinio, il minore dei figli di Tarquinio il Superbo, d’accordo col genitore, si rifugia a Gabii fingendo di fuggire dalla crudeltà e dalla superbia del padre, deciso a non lasciare nessun discendente sul trono, nessun erede al trono. Con vari argomenti Sesto riesce a convincere i Gabini. Inoltre, si dichiara sempre d’accordo con gli anziani per le questioni interne, consigliando la guerra contro Roma, certo che la superbia del re (superbiam regiam) sia invisa ai cittadini romani non meno che ai figli del re. A poco a poco Sesto incita alla guerra i più importanti e ragguardevoli Gabini (primores Gabinorum), e si conquista la nomina a dux belli grazie a piccole vittorie sui Romani, che gli fruttano la fiducia di tutti i Gabini (summi infimique), ormai convinti che Sesto sia stato loro mandato dagli dèi. Ma la sua autorità si estende anche ai soldati, che giungono ad amarlo per la sua prontezza nell’affrontare pericoli e fatiche, e per la sua generosità. Difatti Sesto è arbitro della situazione a Gabii, non meno potente del padre a Roma. I due sono in equilibrio sulla bilancia del potere. Ma questo equilibrio presto si rivela instabile, e la bilancia pende dalla parte di Tarquinio a Roma. Sesto, secondo il piano suggerito dal padre, è al punto culminante, è pronto a tutto (ad omnes conatus). A questo punto manda a Roma uno dei suoi uomini per chiedere al padre il da farsi. Ecco come prosegue Livio (I 54):
Huic nuntio, quia, credo, dubiae fidei videbatur, nihil voce responsum est; rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse. Interrogando exspectandoque responsum nuntius fessus, ut re imperfecta, redit Gabios; quae dixerit ipse quaeque viderit refert; seu ira seu odio seu superbia insita ingenio nullam eum vocem emisisse. Sexto ubi quid vellet parens quidve praeciperet tacitis ambagibus patuit, primores civitatis criminando alios apud populum, alios sua ipsos invidia opportunos interemit. Multi palam, quidam in quibus minus speciosa criminatio erat futura clam interfecti. Patuit quibusdam volentibus fuga, aut in exsilium acti sunt, absentiumque bona iuxta atque interemptorum divisui fuere. Largitiones inde praedaeque; et dulcedine privati commodi sensus malorum publicorum adimi, donec orba consilio auxilioque Gabina res regi Romano sine ulla dimicatione in manum traditur.
“A questo messaggero, poiché (credo) gli sembrava di dubbia fiducia, Tarquinio non rispose nulla a voce. Il re, come se meditasse una risposta, passa nel giardino del palazzo, seguito dal messaggero del figlio; qui, passeggiando in silenzio, si dice (dicitur) abbatté col bastone (baculo decussisse) le teste più alte del papaveri (summa papaverum capita), Il messaggero, stanco di porre domande e di aspettare risposte, torna a Gabii, come se l’incontro col re non avesse dato esito. Dal canto suo riferisce quel che aveva detto e quel che aveva visto: il re sia per ira, sia per odio, sia per naturale superbia del suo carattere, non aveva fatto parola. Non appena Sesto ebbe chiaro che cosa il padre volesse e che cosa gli ordinasse col suo gesto allusivo e silenzioso (tacitis ambagibus), fece uccidere i cittadini più importanti (primores) della città incriminandone alcuni presso il popolo, altri approfittando dell’invidia che si erano attirati da soli. Alla fine dopo fughe, esili, spartizioni di beni, largizioni e ruberie, la città di Gabii venne consegnata nelle mani del re di Roma senza alcun tipo di lotta” (sine ulla dimicatione, e cioè, appunto non secondo lo stile romano).
Non c’è dubbio che il racconto di Livio su questa scena evoca una tradizione precedente, visto il “si dice” in riferimento al comportamento di Tarquinio coi papaveri. Che la fonte sia Erodoto e l’imitazione puramente letteraria, come si è a lungo sostenuto e talora si continua ancora a sostenere, è però opinione affrettata e sommaria. L’Io dello storico (credo) emerge esplicitamente quando esprime il suo parere sulla mancanza di fiducia del re nei confronti del messaggero di Sesto. È dunque all’opera uno storico finemente psicologo, che esprime la sua opinione su una “storia tradizionale”, di fonte annalistica, corrente verso la fine del I a.C. Ma l’idea che la presa di Gabii sia una mera trascrizione in latino di due episodi erodotei, cara alla critica otto-novecentesca, sembra decisamente da abbandonare (Hdt. III 154 Zopiro per Sesto; V 92, 6 Trasibulo di Mileto per Tarquinio). Il caso del “falso disertore” è comune all’orizzonte culturale dei Greci fin da Ulisse e, in Virgilio Aen. II 57-198, Sinone. Zopiro si automutila orecchie e naso, fingendosi disertore così ridotto da Dario diversamente da Sesto che non si automutila. Anche Cesare offre diversi casi di falsi disertori.
A livello narratologico si è voluto vedere, nell’intento di Livio, l’idea di centrare tutta l’attenzione su Sesto come vero protagonista del racconto, mentre Tarquinio sarebbe relegato e liquidato in una sola frase; altri hanno giudicato Sesto e Tarquinio “di ugual peso”, il che è vero ma solo fino a un certo punto, ossia fino a quando Sesto a Gabii e Tarquinio a Roma sono alla pari. Valerio Massimo riassumerà in una frase fulminante la correlazione figlio-padre, che vede un’equa distribuzione delle parti: “Alla furberia giovanile rispose la scaltrezza del vecchio” (iuvenili calliditati senilis astutia respondit, VII 4.2). Ma in Livio Sesto rappresenta l’azione e, invece di essere il protagonista, si inserisce in una triade narrativa fatta di Sesto, del messaggero e di Tarquinio, dove il re rappresenta la mente, Sesto il braccio e il messaggero è — in teoria — il mediatore. Il gioco è in mano a Tarquinio e, sotto questa luce, il suo ruolo diventa per Livio particolarmente importante. È un fatto che Sesto a Gabii, ormai padrone della situazione, manda il messaggero al padre per chiedergli “che cosa mai volesse che egli facesse”.
Apparentemente il re non risponde. Passeggia nel suo giardino come se riflettesse sulla risposta da dare (deliberabundus), una risposta sicuramente non pacifica (deliberatio come riflessione in vista della guerra, I 23, 8). Ha attirato l’attenzione l’ambientazione dell’episodio nel hortus, annesso a o compreso nella casa di Taquinio, considerato come luogo di solitudine e di ritiro per il capo famiglia. Ma un giardino non è inimmaginabile nella reggia di un re; gli scavi hanno messo in luce due horti nella Regia dell’epoca di Tarquinio, sulle pendici settentrionali del Palatino, risalente all’ultimo quarto del VI a.C.
Il messaggero segue il re e guarda la scena: Tarquinio passeggia in silenzio e col bastone abbatte “le teste più alte dei papaveri” con un colpo secco come fa il fulmine che abbatte torri e acroteri (Livio XXV 7, 8. Ovidio Fast. II 687-710 sostituisce ai papaveri i gigli, ma conserva il verbo decussa lilia v. 707). Sia nel verbo decussit sia nella precisione di teste svettanti, che torreggiano sui gambi, si dà ai papaveri una maestosità che certamente fa pensare al Papaver somniferum di Linneo, ossia al papavero da oppio, non certo al Papaver rhoeas, il nostro “rosolaccio”. Per essere più precisi: il colpo del bastone va a segno se la capsula è matura, ma Livio non si perde in precisazioni, presupponendo la conoscenza di tale pianta nei suoi lettori. In Erodoto Trasibulo, tiranno di Mileto (potente città ionica dell’Asia Minore), condotto l’inviato di Periandro in un campo coltivato, mentre vi passeggia, “fa reiterate domande al messaggero”, punteggiando ogni risposta col gesto di recidere e buttar giù le spighe più alte e più ricche di grani (Hdt. V 92, 6); Trasibulo spezza con le mani le spighe di grano, Tarquinio con il bastone le teste più alte dei papaveri coltivati. Trasibulo pone continuamente domande, Tarquinio tace ostinatamente. Alla fonte di Livio evidentemente apparve più consono al temperamento impassibile e superbo del re romano non chinarsi a rompere con le mani le capsule di papavero, ma maneggiare con precisione calcolata e inesorabile il bastone, così come gli si addice di più il giardino regale che il campo extraurbano coltivato a grano di Mileto.
A questo punto subentra il messaggero, il terzo personaggio dell’evento. Alle sue reiterate domande Tarquinio oppone un muro di silenzio. Risultato: la res è imperfecta, il messaggero è un falso mediatore. Ma di fatto la missione è riuscita a metà. Nel messaggero il ruolo di mediatore fra Sesto e Tarquinio si esplica meccanicamente quando riferisce esattamente l’accaduto, ma sul silenzio di Tarquinio egli azzarda solo ipotesi: ira, o odio, o superbia innata di carattere. Ira o odio verso chi? Il figlio che ha avuto successo? Il messaggero gabino troppo insistente? Da questo profilo emergono difetti caratteriali non molto lontani da quelli che la tradizione di Cicerone attribuiva al Superbo, ossia la superbia, l’intrattabilità, l’insolenza dovuta alle ricchezze conquistate, l’incapacità di controllare i mores, per cui fu ampiamente detestato. Per la verità va notato che nella superbia insita nel carattere di Tarquinio c’è una tonalità non del tutto negativa, per esempio Virgilio, presentando tra le anime di personaggi importanti che si parano davanti a Enea agli Inferi “i re Tarquini e l’anima superba”, dà rilievo a una connotazione caratteriale e congenita del personaggio che non sembra valutata negativamente. Anche Orazio ricorda, in un elenco encomiastico, i superbos Tarquini fasces, che probabilmente alludono a Tarquinio il Superbo. Questa superbia innata cui il messaggero — nel colloquio con Sesto — attribuisce l’ostinato silenzio di Tarquinio sembra in contrasto con la superbia regia (I 53) che, nelle parole di Sesto (memore della tradizione repubblicana di Cicerone) è invisa ai cittadini di Roma come già ai figli del re, perché ha una componente di crudeltà. Ancora e più precisamente: Sesto presso i Gabini definisce il padre superbissimus rex, di nuovo memore di Cicerone. Impossibile per il lettore non pensare al soprannome di Superbus che, secondo le parole di Livio stesso, non è che il risultato della condotta astuta e crudele di Tarquinio (cui Superbo cognomen facta indiderunt).
Un silenzio, sia pure ostinato, è sempre un non fatto, sembrerebbe un non agire, e tuttavia il non agire è solo apparente. Con il suo gesto eloquente il re di fatto agisce: oscuramente, tortuosamente e inesorabilmente. Dopo Livio sarà Plinio il Vecchio, nat. XIX 169, a sottolineare questo aspetto:
Tarquinius Superbus […] legatis a filio missis decutiendo papavera in horto altissima sanguinarium illud responsum hac facti ambage reddidit.
“Tarquinio il Superbo […] ai legati mandati dal figlio, abbattendo i papaveri più alti [manca la menzione del bastone], che si trovavano nel suo giardino, diede quella famosa risposta sanguinaria con questa tortuosità del suo gesto” (hac facti ambage).
In Livio Sesto non si ferma all’interpretazione emozionale del messaggero, ma cerca di decifrare il significato recondito del messaggio. La volontà o l’ordine del padre (quid vellet parens quidve praeciperet) gli appaiono a poco a poco chiari attraverso le silenziose tortuosità del messaggio allusivo (tacitis ambagibus). C’è evidentemente qualcosa di etrusco in Tarquinio, se si pensa che, per Livio, è l’aruspice etrusco che profetizza oscuramente per ambages, anche se le tortuosità di Tarquinio sono ancora più fuorvianti e difficili da decifrare, perché mute: un bastone che abbatte le teste più alte dei papaveri.
Sesto finalmente capisce ed esegue: i papaveri sono i primores della città di Gabii. C’è dunque una perfetta corrispondenza fra i più alti papaveri e i primores gabini e, ancora una volta, si impone l’immagine del Papaver somniferum per dare al gesto del re, qui il vero protagonista, tutto il suo valore icastico, memorabile e sensazionale, destinato a diventare proverbiale.
Livio non giudica negativamente il comportamento bellico di Tarquinio, ma usa una litote (I 53, 1: Nec ut iniustus in pace rex, ita dux belli pravus fuit; Livio lo dice quindi nec pravus, “non malvagio”); e la presa di Gabii non è un’impresa bellica alla Romana, bensì all’insegna di frode e inganno. Sesto agisce, ma è Tarquinio che comanda la strage dei primores di Gabii, causa della caduta della città.Tarquinio qui è realmente Superbus per la sua condotta, in armonia con la tradizione repubblicana (Cicerone). L’interpretazione del messaggero della superbia caratteriale come possibile causa di un silenzio assoluto e sprezzante, pur coeva a Livio, non è accettata come scusante. Dionigi di Alicarnasso, che tratta lungamente l’episodio (Ant. Rom. IV 56) supera il pessimismo etico di Livio e ne dà un’interpretazione politica sul filo di un’informazione dettagliata. In funzione di questo scopo portante, caro anche al suo pubblico colto, Dionigi organizza i dati dell’annalistica e dell’antiquaria, secondo la sua logica del racconto.
In perfetto stile liviano, un umanista romano del calibro di Lorenzo Valla (1407-1457), nel De falso credita et ementita Constantini donatione, § 80, evoca l’exemplum di Tarquinio e i papaveri in chiave negativa per bollare i papa tirannici di Roma:
Is fuit Bonifacius nonus, octavo in fraude et nomine par, si modo Bonifacii dicendi sunt qui pessime faciunt. Et cum Romani deprehenso dolo apud se indignarentur, Bonifacius Papa, in morem Tarquinii, summa quaeque papavera virga decussit. Quod cum postea, qui ei successit, Innocentius imitari vellet, urbe fugatus est.
“Tale fu Bonifacio IX [1389-1404], pari all’VIII per frode e per nome — se pure si possono chiamare Bonifacii quelli che fanno i peggiori mali —e quando i Romani, scoperto l’inganno, se ne sdegnarono fra loro, il buon papa, a mo’ di Tarquinio, abbatté con la verga i più alti papaveri. Quando Innocenzo VII [1404-1406], suo successore, volle imitare questo comportamento, fu costretto a fuggire dalla città”.
Ben diversamente da Valla utilizza l’exemplum di Tarquinio Cesare Ripa (nato a Perugia nel 1560), memore forse di Machiavelli (1469-1527) nel configurare la personificazione allegorica della Ragione di stato. Infatti Ripa la rappresenta come una donna armata di elmo, corazza e scimitarra, in atto di abbattere con una bacchetta i più alti papaveri, ben caratterizzati dalla capsula ovoidale.
Segue l’interpretazione positiva di questo gesto secondo Ripa:
“I papaveri gettati per terra […] significano, che chi si serve della ragione di stato non lassa mai sorger persona che possa molestarlo, à somiglianza della tacita risposta data da Tarquinio al messo del suo Figliuolo. Rex velut deliberabundus… decussisse; parole di T. Livio nel primo lib. Decade prima”.
I papaveri nel giardino di Tarquinio
A sentire l’ipercritica novecentesca (Pais) questi papaveri sarebbero un’invenzione di Livio a partire da un episodio riguardante la vita religiosa della giovane repubblica romana, che ha per protagonista Lucio Giunio Bruto, colui che scacciò Tarquinio il Superbo e i suoi da Roma, noto soprattutto come vindice di Lucrezia violata da Sesto. Si tratta della festa dei Compitalia, di cui ci informa Macrobio nei suoi Saturnalia (I 7, 34-35):
“[Nelle feste note col nome di Compitalia, che avevano luogo ai crocicchi della città] si celebravano giochi istituiti, come è noto, da Tarquinio il Superbo in onore dei Lari e di Mania, in seguito a un oracolo di Apollo, che aveva prescritto di fare offerte propiziatorie in favore delle teste con teste (ut pro capitibus capitibus supplicaretur). La prescrizione fu osservata per qualche tempo sì che, per la buona salute dei familiari, si sacrificavano fanciulli alla dea Mania, madre dei Lari. Il console Giunio Bruto, scacciato Tarquinio, stabilì che questo tipo di sacrificio andasse eseguito diversamente. Infatti prescrisse di fare offerte propiziatorie con teste di aglio e di papavero (capitibus alii et papaveris). Si ubbidiva così al responso di Apollo che parlava di teste, allontanando cioè il misfatto di un sacrificio funesto”.
I Compitalia erano una festa rustica di capodanno; comprendevano un sacrificio ai Lares viales, una sorta di protettori di un determinato territorio, chiamati anche Lares compitales, venerati in edicole più o meno modeste situate in corrispondenza dei crocicchi. Qui la gente di campagna usava sacrificare alla fine dell’anno agricolo (finita agri cultura).
La teoria riduzionistica di Pais ha avuto successo per tutto il Novecento, al massimo con l’aggiunta di identificare in qualche annalista d’età repubblica (e in particolare in Valerio Anziate) la possibile fonte dell’episodio. Va invece escluso che Tarquinio abbia imitato Giunio Bruto, così come va preservata la logica del racconto: Giunio Bruto fa sua la concezione delle teste di aglio e di papavero come surrogato di teste umane. D’altronde, s’addice al carattere rustico della festa la scelta di due prodotti dell’orto, come aglio e papavero. L’aglio era considerato quasi il simbolo degli antenati romani che, pur odorando di aglio e di cipolla, erano coraggiosi e virtuosi (Varro Men. fr. 63 Astbury, apud Nonio, p. 297 Lindsay: avi et atavi nostri, cum alium ac cepe eorum verba olerent, tamen optume animati erant). Numa, a Giove che gli ha chiesto di tagliare per lui una testa, ribatte: “Obbedirò, dovrò tagliare una cipolla del mio orto”: ma Giove precisa “Di uomo” (Ov. Fast. III 339-341). Aglio, cipolla, capsula di papavero funzionano dunque davvero come teste.
Per quanto riguarda il papavero si pone la domanda: perché mai nel giardino di Tarquinio venivano coltivati papaveri da oppio? Una certa rusticità del particolare richiama alla mente il vecchio di Corico in Virgilio, georg. IV 131, che coltiva fra l’altro in pochi iugeri di terreno rade file di ortaggi, di verbene e, intorno, bianchi gigli e il papavero. A sentire Plinio il Vecchio i papaveri coltivati furono sempre apprezzati presso i Romani e la prova sarebbe proprio Tarquinio il Superbo e i papaveri del suo giardino. La causa di questo apprezzamento non è solo la bellezza strepitosa del fiore di papavero da oppio, bellezza che indusse l’artista del giardino figurato della villa di Livia a Prima Porta a includere un papavero dai petali viola chiaro. Plinio menziona anche l’uso antico di mangiare semi di papavero con miele nella secunda mensa, ossia al dessert che, presso i Romani, constava di frutta fresca e secca (datteri per esempio), ma anche di miele, ed era generalmente accompagnato da grandi bevute, qualcosa di paragonabile alla deutéra tràpeza dei Greci. Di certo questo uso s’addice a Tarquinio, ma anche l’abitudine dei contadini di insaporire con semi di papavero la crosta del pane spalmata d’uovo. Orazio, ars 375, considera che a una tavola fine non s’addica la mistura di papavero con miele sardo, che era considerato amaro. Sempre in ambito culinario non va dimenticato che già Catone, agr. 84, ricordava l’uso di insaporire con semi di papavero polpette fritte di formaggio e spelta spalmate di miele e il savillum, una sorta di frittata spalmata di miele. Non vanno infine dimenticate le proprietà medicinali del papavero, vantate da Plinio nel passo cui mi sono più volte richiamata.
Nel giardino di Tarquinio viene dunque dato spazio a una pianta utile, visto che se ne attende la maturazione e il momento della raccolta. Una pianta di larga diffusione, interclassista, buona per il dessert della secunda mensa come per il pane, le polpette e la frittata al miele. Rispetto a Trasibulo, si nota nei papaveri una specificità romana, forse di derivazione etrusca, se si pensa che a Tarquinia sono stati trovati semi di papavero.
© Giampiera Arrigoni, 2018