La traduzione in latino di testi greci è una prassi antichissima. Senza contare le traduzioni compiute dagli stessi autori latini, o la diffusione di certe opere poetiche e filosofiche avvenuta, nel corso del Medioevo, solo grazie alla loro traduzione, a partire dal primo Umanesimo si è incominciato a tradurre un po’ di tutto. All’inizio le motivazioni potevano essere svariate: rendere comprensibile e favorire la diffusione dei testi greci anche nell’Occidente latinizzato; dimostrare il proprio bello stile; mettersi a gara con gli originali; un puro esercizio di scuola ecc. Oggi, la pratica ha ancora qualche possibilità di utilizzo e qualche vantaggio: uno per tutti, offrire un più ampio repertorio di testi, non ancora registrati da “Splashlatino” e siti consimili, che però trattano temi e argomenti vicini a quelli presenti nel canone di autori cui siamo più abituati.
Alcune delle traduzioni più facilmente reperibili sono celebri e di nobile firma, proprio perché già alla fine del Quattrocento la pratica ebbe una certa diffusione; altre sono invece anonime, o si fondano per variazioni progressive su un testo primigenio, dal quale a poco a poco si sono però venute discostando. Nel corso del XIX secolo la benemerita “Bibliothèque des auteurs Grecs” di Ambroise-Firmin Didot (https://en.wikipedia.org/wiki/Didot_family) ha messo in circolazione un gran numero di questi testi, usandoli a fianco degli originali greci. Sono volumi rintracciabili in molte biblioteche, anche non particolarmente specializzate, e spesso disponibili online.
Proprio da uno di questi libri, l’edizione 1838 delle opere di Omero, traggo il ricordo del cane più famoso dell’antichità, a completamento del post intitolato “Cani di varie razze e lingue” (https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2017/06/16/cani-di-varie-razze-e-lingue/). Rispetto all’originale (che si legge all’indirizzo https://www.gutenberg.org/files/52693/52693-h/52693-h.htm, in un volume a firma di Johann Friederich Dübner, anche se il nucleo della traduzione è più antico), ho introdotto talune variazioni, anche molto personali, con l’intenzione di semplificare il testo e togliergli quella patina da poema orale che mal s’addice all’uso che propongo di farne in classe. Tutte le variazioni sono suscettibili di emendazione e correzione. Attendo i suggerimenti dei lettori. Quanto mi proponevo, infatti, non era di competere con Omero (o con Dübner, o chi per lui).
Dum Ulyxes, qui in patriam viginti post annos pervenerat, et Eumaeus subulcus ante fores domus regiae inter se colloquuntur, Argus, Ulyxis canis, quem quondam ipse nutrivit, neque eo tamen fruitus est (prius enim ad Ilium abiit), caput et aures, humi fusus, subito erexit. Hunc autem antea ducere solebant iuvenes regii capras in silvestres et cervos et lepores; tum vero iacebat neglectus, absente domino, in multo stercore mulorum boumque, quod ei abunde circumfusum erat, donec id auferrent servi, praedium magnum stercoraturi. Sic igitur iacebat Argus, ricinorum plenus. At, statim ut agnovit Ulyxem prope stantem, cauda quidem adulatus est, et aures deiecit ambas; ad dominum propius attamen venire non potuit. Et ille, seorsum conspicatus, abstersit lacrimam, facile latens Eumaeum. Quem deinde interrogavit: “Eumaee, hoc certe mirandum est: canis, qui iacet in fimo, pulcher olim videtur fuisse”. Ad quae subulcus respondit: “Si talis ille esset et corpore et operibus, qualem ipsum reliquit Ulyxes, Troiam profectus, statim eum admirareris, conspicatus eius velocitatem et robur. Nequaquam enim effugiebant ferae in profundis silvis, quascumque egisset: vestigia eorum persequens, omnes exploravit latebras. Nunc autem adficitur senectute, summo malo; dominus eius procul hinc alienam agitat vitam, neque eum mulieres negligentes curant. Servi vero, quando non amplius imperant domini, non amplius volunt iusta operari”. Et sic locutus aedes intravit, Ulyxem secum trahens. Argum autem fatum occupavit atrae mortis, statim ut viderat Ulyxem, dominum suum, vigesimo post anno.
© 23.04.2018