Strano destino quello di Beethoven! Quando, da bambino, ho iniziato a interessarmi a un certo tipo di musica, Beethoven rappresentava il centro del repertorio. Da Schroeder dei Peanuts che ne strimpella incessantemente le note, incurante di Lucy e disposto a considerarlo una buona risposta alla vita, a Pippo, che ne assumeva le vesti in una rivisitazione del “Topolino”, senza dimenticare l’omaggio non irrinunciabile de “L’Arancia meccanica”, le biografie cinematografiche, il romanzo di Luigi Magnani dedicato a “Il nipote di Beethoven” ecc. ecc. (e naturalmente, gli omaggi colti: Bernstein che ne inaugura il bicentenario alla RAI con un Fidelio incandescente; lo stesso direttore che con i Wiener Philarmoniker e Maximilian Schell ne presenta una per una le sinfonie in prima serata televisiva; Karajan che incide tutto il corpus sinfonico in video per la Unitel, con i Berliner; ancora Bernstein, che ne dirige trionfale il Fidelio a Vienna, e Paolo Grassi riesce a fare spostare l’intera équipe anche alla Scala…), la musica cosiddetta “classica” ruotava tutta intorno al nome di Beethoven. Anche di altri musicisti, naturalmente, era riconosciuta la straordinaria grandezza. Ma lui era una sorta di spartiacque, il più giovane rappresentante de Lo stile classico (come si intitola un celebre libro di Charles Rosen, dedicato a Mozart, Haydn e, appunto, Beethoven); il primo rappresentante dell’Ottocento romantico. Poi venne Amadeus, il film, e il ruolo centrale è passato da Beethoven a Mozart. Non che la cosa sia impropria, o dispiaccia, o che si possa considerare un errore da miopi. Beethoven è ancora molto presente nelle sale da concerto e nella discografia più recente; ma non ha più quel riconoscimento di cui godeva un tempo, non poi tanto remoto. E questo, senza che se ne possa ben dire la ragione.
Il punto più basso della sua fortuna lo ha forse raggiunto proprio quest’anno, che pure avrebbe dovuto essere per lui, nato nel 1770, un anno di anniversari e di festa. In un articolo apparso sul “Chicago Tribune” il 30 dicembre 2019, la musicologa (del Massachusetts) Andrea Moore proponeva infatti di boicottare l’anniversario beethoveniano. Beethoven è già troppo presente; è un genio riconosciuto; ha messo parole definitive in molti campi (sinfonie, concerti per piano e per violino, sonate per solo piano, o per piano e violino, una delle quali omaggiata niente meno che da Tolstoi; un’opera, i Lieder, i quartetti ecc.). Perché celebrarlo ancora? Meglio dedicarsi a musica nuova.
Uccellaccio del malaugurio, considerando che, per le ben note vicende di questi giorni, tutte le sale da concerto e i teatri d’opera sono chiusi da ormai tre mesi, in tutto il mondo. E chiusi rimarranno, si presume, anche per l’intera estate che ci attende, e forse oltre. A parte una Leonore e un Fidelio a Vienna a inizio anno, e un trionfale Fidelio londinese subito prima della chiusura, ben poco Beethoven in realtà si è sentito!
Qui vogliamo rimediare ricordando le sue composizioni che hanno qualche attinenza con il mondo antico. Non sono molte, va detto. Beethoven non era un operista (fatto salvo il già ricordato Fidelio, dalla difficile gestazione in più tempi), e i suoi brani sinfonici o da camera non recano, in genere, un titolo o un programma precisi. Sono pura musica, che lascia all’ascoltatore il compito di associarla alle immagini, alle sensazioni, alle idee che preferisce. Beethoven compose molti Lieder, non solo in tedesco, ma anche in inglese, scozzese, gallese e perfino in italiano, nell’arco di circa quarant’anni, dal 1783 al 1823. In italiano compose anche varie arie da concerto, per questo o quel cantante, per questa o quella serata in qualche casa nobiliare. Si tratta per lo più di singole arie con accompagnamento pianistico, ma nel caso dei brani da concerto anche con una vera e propria orchestra, magari di formazione cameristica. I testi derivano spesso da opere precedenti, e ne sono autori librettisti famosi come Metastasio o Giovanni de Gamerra. Nessuno di questi testi fa particolare riferimento al mondo antico. Come omaggio alla nostra lingua, riporto però ugualmente il più famoso di essi, la scena per soprano Ah, perfido!, su parole di Metastasio. E’ il canto di un’amata abbandonata, che starebbe bene sulla bocca di una Arianna o una Didone. Beethoven lo compose ventiseienne, forse per influsso del suo maestro, Antonio Salieri. Era dedicata a una nobildonna di diciannove anni, perché la eseguisse ai suoi ospiti, nel salotto di casa. Venne eseguita in teatro nel 1796, da Josepha Dusek, che qualche anno prima aveva collaborato con Mozart, ospitandolo nella sua villa a Praga, ai tempi della prima rappresentazione sia del Don Giovanni che, forse, de La clemenza di Tito. Sotto al link, riporto il testo cantato.
Ah perfido! Ah spergiuro! Barbaro! Traditor! Parti? E son questi gli ultimi tuoi congedi? Ove s’intese tirannia più crudel? Va, scellerato, va, pur: fuggi da me: l’ira de’ numi non fuggirai. Se v’è giustizia in cielo, se v’è pietà, congiureranno a gara tutti, tutti a punirti. Ombra seguace, presente ovunque sei, vedrò le mie vendette. Io già le godo immaginando; i fulmini ti veggo già balenar d’intorno… Ah no, fermate vindici dei. Risparmiate quel cor; ferite il mio. S’ei non è più qual era, son io qual fui: per lui vivea, voglio morir per lui.
Per pietà non dirmi addio,
Di te priva che farò
Tu lo sai bell’idol mio:
Io d’affanno morirò.
Ah crudel tu vuoi ch’io mora,
Tu non hai pietà di me,
Perché rendi a chi t’adora
Così barbara mercé?
Dite voi se in tanto affanno
Non son degna di pietà?
Più stretto contatto con il mondo classico ha il balletto, l’unico mai composto da Beethoven, Le creature di Prometeo (Die Geschöpfe des Prometheus), del 1800. A quella data Beethoven, lasciata Bonn, viveva a Vienna, all’epoca – e non solo! – un’autentica capitale della musica. Qui fu contattato dal Teatro Imperiale e dal celeberrimo coreografo italiano Salvatore Viganò, per scrivere la musica di un ballo eroico allegorico in due atti. Difficile dire le ragioni della commissione. Beethoven però accettò, nonostante la sua inesperienza nel campo, forse attratto dall’argomento. Il balletto andò in scena il 21 marzo 1821. Prometeo è uno dei grandi miti di fine Settecento. Qualche anno prima Goethe gli aveva dedicato una tragedia mai ultimata; ad altra latitudine, se ne ricorderà, ancora una ventina d’anni più tardi, Leopardi. Ma le citazioni e i riferimenti in tal senso si potrebbero facilmente moltiplicare. Il lascito illuminista, che vede in Prometeo un eroe della luce e della civiltà; e gli spunti, se non già propriamente romantici, quanto meno da Sturm und Drang che animano la società di inizio Ottocento e vedono in Prometeo l’eroe singolo, in lotta perfino contro gli dei, si rispecchiano ambedue facilmente nella figura del Titano e nel suo mito. Beethoven dovette sentire il fascino di tutto ciò. Lo scenario del balletto prevede infatti che Prometeo sia raffigurato come un demiurgo che porta la fiamma della razionalità all’umanità bruta. Egli plasma due statue cui infonde la vita, conducendole poi sul Parnaso alla presenza di Apollo. Questi apre loro il mondo della Bellezza, chiamando in aiuto prima Amfione, Orfeo ed Arione, poi le Muse, Pan e Bacco, perché li istruiscano alla musica, al canto, alla danza. Senza di queste cose, infatti, non esiste vera umanità…
Così come ci è giunto, il balletto prevede un’ouverture e sedici numeri, ognuno marcato dalle consuete indicazioni di tempo (“Adagio”, “Poco Adagio”, “Allegro vivace” ecc.), e solo da quelle. Il balletto oggi si vede poco in scena: questa primavera la Scala lo aveva generosamente programmato, ma è uno di quegli spettacoli che per quest’anno non vedremo… Io qui offro il brano più noto, entrato nel repertorio delle sale da concerto, ossia l’ouverture. Lascio però anche il link, per chi lo volesse ascoltare per intero, a un’esecuzione concertistica, attualmente reperibile su youtube. La durata è di circa un’ora. Nell’ouverture, dopo una serie di accordi maestosi, un breve “Adagio” molto solenne e rievocativo anticipa un “Allegro mosso con brio”, che sintetizza la frenetica attività del Titano.
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Nel 1811 una nuova commissione portò Beethoven a Pest, dove si inaugurava un teatro. Dopo che furono scartati diversi progetti, ci si risolse per mettere in scena tre brevi atti unici, su testo del poeta August von Kotzebue. Due di essi prevedevano musiche di scena (ossia, accompagnamenti volti a introdurre le singole scene e a rimarcare in sottofondo specifici momenti di particolare importanza), entrambe opera di Beethoven. I due testi si intitolano rispettivamente König Stephan (“Re Stefano”, il re santo di Ungheria) e Die Ruinen von Athen (“Le rovine di Atene”). La somma dei tre testi voleva simboleggiare l’idea che lo spirito attico, dopo la caduta della Grecia in mano ai Turchi e la rimozione, da parte degli invasori, di ogni traccia dell’antica nobiltà, si era trasferito in Ungheria, dove, mescolandosi con la nuova religione e il forte sentire indigeno, era in procinto di dare vita a una nuova Classicità, di cui il teatro che si stava inaugurando si sarebbe dovuto fare simbolo. Una volta passato l’evento “mediatico”, Beethoven cercò di recuperare la musica da lui composta, per realizzare su quella base una vera e propria opera, di diverso argomento. Ma alla fine non se ne fece mai nulla, a parte una nuova esecuzione dei brani orchestrali, in forma di concerto, a Vienna nel 1822. Per Le rovine d’Atene Beethoven compose un’ouverture e altri otto pezzi, per lo più corali. Oggi si esegue relativamente spesso la prima, perché è divenuta anch’essa un pezzo da concerto; e qualche volta anche la Marcia alla Turca, che sarebbe il brano nr. 5; è più raro sentire il pur pregevole coro dei Dervisci (nr. 4). Il resto, in sostanza, è caduto nell’oblio. Come in precedenza, offro qui a mia volta solo l’ouverture, nella quale si rievoca il risveglio di Minerva (è chiamata proprio così) dopo 2000 anni, nell’Atene in mano ai Turchi. Per la serie completa dei brani rimando a un’esecuzione dal vivo delle intere musiche di scena (durata circa 40′), reperibile su youtube.
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Nel 1807 Beethoven aveva composto il suo unico brano di ambito propriamente latino, l’ouverture per la tragedia Coriolanus di Heinrich Joseph von Collin (ma in realtà sono sette minuti che dovrebbero fare da spartiacque fra i diversi tempi della rappresentazione teatrale). Nel suo testo, Collin rievoca la nota storia del comandante romano passato ai Volsci e poi, dietro le suppliche di madre e moglie, decisosi a non guidare più le armate nemiche contro Roma, e quindi ucciso dai suoi nuovi alleati (nel testo di Collin, per la verità, Coriolano si suicida). Attratto da questa situazione drammatica, Beethoven scrisse una musica potente, stringente, che ben rende l’incalzare degli avvenimenti e i comportamenti in bianco e nero dei diversi personaggi. Richard Wagner, fattosi esegeta del brano, osservava che il nodo drammatico messo in scena dal collega sembra corrispondere al momento capitale del dramma, il confronto fra l’eroe e le sue donne, che lo mettono a colloquio con la propria coscienza, e affermava che era come se, nel brano, Coriolano afferrasse con mano potente e terribile tutte le armi del risentimento, per farne una punta con cui trafiggersi il cuore (in effetti, i meno giovani ricorderanno un celebre “Carosello” nel quale una mano guantata di ferro, su questa musica, calava imperiosa a reclamizzare l’amarissimo che fa benissimo, riservato all’uomo forte…). Siamo, probabilmente, nella temperie più “romantica” di Beethoven. Gli eroi di Livio e Plutarco (soprattutto Plutarco, quello che ispirava anche il Karl Moor dei Räuber schilleriani), rivissuti alla luce della nuova sensibilità, diventano i protagonisti di una difficile affermazione dell’Io. La lotta del singolo contro il mondo che percepisce come a lui ostile si fa cioè emblema di ciò che unisce, al di là delle culture, le diverse generazioni, e si trasforma in simbolo di quanto l’uomo può ritrovare anche nel lontano passato. All’ouverture faccio seguire uno dei molti Caroselli disponibili su youtube, che in realtà è quello che più mortifica la musica di Beethoven, ma che spero diverta ugualmente gli spettatori…
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Vorrei chiudere però con un brano che non ha legami diretti con la classicità, ma che per la mia generazione resta un ricordo indelebile. A Natale del 1989 Leonard Bernstein, davanti alle rovine del muro appena abbattuto, a Berlino, diresse orchestrali e coristi dei complessi dell’una e dell’altra (ex-) Germania e un quartetto di solisti rappresentativo di nazioni che molto avevano sofferto durante l’ultima guerra. Una ferita si chiudeva, o almeno così sembrava, e solo Beethoven poteva celebrare l’avvenimento. Del compositore venne eseguita l’ultima sinfonia, la nona, la più “filosofica”. Nell’ultimo movimento, che include il celebre Inno alla Gioia su testo di Schiller, alla parola Freude, “Gioia”, intonata più volte dal coro e dai solisti, Bernstein fece sostituire la parola Freiheit, “Libertà” (non senza qualche problema metrico). Beethoven era l’unico compositore a cui si poteva riconoscere il ruolo di cantore di un simile sentimento. La chose enivrante, come insegna anche Carmen (e il nostro sito) è proprio la libertà, e null’altro che la libertà.
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© Massimo Gioseffi, 2020