Tag: music

  • Enea Heavy

    Enea Heavy

    Il titolo è giusto così. Prendendo spunto da un recente volume a cura di K.F.B. Fletcher e O. Umurhan, Classical Antiquity in Heavy Metal Music, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice inglese Bloomsbury Academic, oggi parliamo di musica Heavy Metal. Premetto, doverosamente, che nulla ne conosco, e le informazioni che seguono sono quindi tutte tratte dal volume in questione, qualche volta anche con la difficoltà di ritradurre dall’inglese degli originali spesso italiani.

    Il volume è una miscellanea, che raccoglie nove interventi di autori vari, tutti gravitanti in ambito anglosassone, quando non anglosassoni essi stessi. L’assunto di base è spiegato nell’ampia introduzione (pp. 1-21) firmata dai due curatori. Lo riassumo qui: i due studiosi, nel 2014, erano stati invitati a parlare in un convegno del rapporto fra Heavy Metal e antichità classica. Da lì, l’idea di espandere la relazione in un saggio a più voci, dedicato al medesimo tema. Nell’introduzione, molte parole sono spese (a mio parere inutilmente) per difendere il genere musicale in questione; cercare di conferirgli una patente di nobiltà che nessuno che abbia in mano il libro, immagino, penserebbe di contestare; assalire la prassi dominante fra gli antichisti, per cui i Reception Studies musicali dell’Antichità si occupano quasi esclusivamente di opera lirica (pur riflettendo questa concezione, che risponde al gusto del curatore, osservo che anche questo sito ha dato spesso spazio a manifestazioni musicali non operistiche). A questo fa seguito una rapida storia del genere Heavy Metal, che sintetizzerei così: nascita alla fine degli anni Sessanta (i due autori riconoscono una sorta di primato ai gruppi denominati “Led Zeppelin” e “Black Sabbath”); un salto di qualità a partire dagli anni Ottanta, in connessione all’attività degli “Iron Maiden”, che nell’album Piece of Mind, 1983, avrebbero introdotto una poesia di Tennyson (Charge of the Light Brigade, 1854, divenuta The Trooper) e un brano dedicato al mito di Icaro (Flight of Icarus). A partire da allora, i curatori individuano due tipologie di musica: una, nata all’inizio degli anni Novanta, chiamata Viking Metal, che si rifà nella scelta degli argomenti a miti (o a richiami paesaggistici) del profondo Nord europeo, Scandinavia e Islanda in particolare; l’altra che chiamano Mediterranean Metal, più legata alla tradizione classica, e in particolare all’eredità (anche geografica) dell’impero romano.

    Nel volume un saggio è dedicato a Virgilio; un altro a Cesare, un terzo all’innografia greca, da Omero a Proclo. I restanti articoli si occupano di specifiche figure dell’immaginario antico (Cassandra, Didone e Caligola, non senza un inevitabile tributo ai Gender Studies), di luoghi dell’immaginario classico (l’antico Egitto, con altrettanto inevitabile omaggio ai Colonial Studies), del gusto per l’orrido e l’occulto che accomuna antichità e musica Metal. Qui mi occupo del primo saggio, in cui K.F.B. Fletcher, uno dei curatori, si interessa a tre gruppi Heavy Metal italiani, ispiratisi tutti e tre a Virgilio. Il primo si chiama “Hesperia”, e all’Eneide ha dedicato quattro album, Aeneidos Metalli Apotheosis, usciti rispettivamente nel 2003, nel 2008, nel 2013 e nel 2015; il secondo gruppo si chiama “Stormlord”, autore di un album uscito nel 2013, dal titolo Hesperia (da non confondere con l’omonimo gruppo di prima). Il terzo, infine, è il gruppo denominato “Heimdall”, autore di un album uscito anch’esso nel 2013, e intitolato Aeneid. Di Hesperia (il gruppo) Fletcher non si occupa, giustificando il fatto con quattro argomentazioni: è poco distribuito internazionalmente; si tratta di una “one-man band” (sembrerebbe un ossimoro); i suoi testi sono tutti in italiano; non si esibisce dal vivo. Degli altri due gruppi, va detto che Stormlord mescola italiano, latino e inglese; Heimdall cita l’Eneide nella classica traduzione inglese di Dryden (1697), una scelta decisamente singolare.

    Dedico questo post al gruppo denominato Stormlord, e all’album Hesperia. Il gruppo ha origini lontane (1991). Da allora ha pubblicato sei album, l’ultimo dei quali, Far, è del 2019: il gruppo è ancora in attività, con una formazione che è rimasta sostanzialmente fissa nei quasi trent’anni, ormai, di collaborazione artistica. E’ stato sempre contraddistinto da un certo interesse per il mondo classico. Nell’album del 2001 At the Gates of Utopia il brano iniziale si intitola “Under the Samnites’ Spears”; in quello del 2004, The Gorgon Cult, oltre alla Gorgone che dà titolo all’album figurano citati Ecate, Medusa, i Lemuria, e il brano centrale si intitola “The Oath of the Legion” . Nell’album Mare Nostrum, del 2008 (che precede immediatamente Hesperia), si allude, ovviamente, all’antico Mediterraneo. Nel complesso dei diversi album sono citati, a detta di Fletcher, Dante, Tennyson e Lovecraft. Fletcher si interroga del perché di questi rimandi e ne fornisce tre motivazioni, tutte da verificare: una è il peso che la cultura classica ancora riveste nella cultura italiana (da Dante in poi, nella generica e un po’ frettolosa formulazione del volume); il secondo sono i richiami mitologici tipici del genere musicale in sé, che sono di stampo celtico-vichingo per le formazioni nordiche, ma di stampo classico-romano per le formazioni mediterranee. Infine, Fletcher insiste su un forte nazionalismo reviviscente in Italia, di cui questi gruppi sarebbero la spia, alla pari delle manifestazioni di…Casa Pound. Da parte mia mi limito a riferire, con qualche dubbio. Anche perché Fletcher non si pone la domanda che più volte ci siamo posti in questa sede, ossia come mai proprio la musica, in tutti i suoi generi, Heavy Metal compreso, sia, fra le arti, quella che ha conservato più legami con l’antico. Lo studioso, per accreditare la sua ipotesi, si rifà a due interviste del 2013, con le quali Fabio Calluori (chitarrista degli Heimdall) e Francesco Bucci (basso degli Stormlord) celebrano, rispettivamente, “le origini della nostra cultura latina e romana” e il “nostro passato, di cui siamo orgogliosi” (ritraduco dall’inglese). In ogni caso, Fletcher è disposto a riconoscere, p. 26, che “There is no simplistic whitewashing of the Aeneid or its hero here. Metal’s turn to local topics may be nationalistic in origin, but not all bands approach such material in the same way, or with the same intent”. E possiamo lasciare la questione così.

    L’album Hesperia si compone di otto brani, che coprono, per così dire, la prima metà dell’Eneide (gli Heimdall seguono invece più da vicino il poema virgiliano, con dodici tracce che accompagnano passo per passo il testo di base). Eccone titoli e durata: Aeneas, 6:05; Motherland, 4:37; Bearer of Fate, 6:44; Hesperia, 4:19; Onward to Roma, 6:38; Sic Volvere Parcas, 1:05; My Lost Empire, 5:27; Those Among the Pyre, 9:38. La scelta sottolinea subito due cose: il focus è sul viaggio di Enea e sul suo arrivo finale in Italia, come del resto rivela anche il titolo dell’album; ampia parte dell’album è dedicata a momenti di riflessione sulla missione di Enea, a cominciare dalla sosta cartaginese, nella quale si riflettono allo stesso tempo il maggiore atto di eroismo e il maggiore atto di viltà del protagonista, con tutta l’ambiguità che al poema virgiliano riconosciamo in tempi moderni. Quanto ai testi cantati, essi possono essere (a dispetto dei titoli inglesi) in latino, in italiano (una brutta traduzione dell’Eneide), o in inglese. E’ in latino, ad esempio, il primo brano, Aeneas, in cui il cantante (Cristiano Borchi) recita – a dire il vero, in modo incomprensibile: il dato si ricava dal libretto di accompagnamento – i vv. 1-17, 19-20; 22, ancora 5-7, ripetuti come una sorta di ritornello; e 33 del primo libro virgiliano. Significativo mi sembra che, nel momento in cui il testo è rispettato in sommo grado nella sua facies originale, tanto da non mutarne la lingua, in realtà sia alterato dall’omissione dei vv. 18 e 21; mentre la ripetizione dei vv. 5-7 prima del 33, uniti gli uni e l’altro dalla ricorrenza del verbo condere, sottolineano la moles dell’impresa (Tantae molis erat Romanam condere gentem) e la sua finalità (dum conderet urbem). Mi pare anche notevole che il brano sei, l’unico con titolo non inglese, ripeta quel sic volvere Parcas che è la clausola del v. 22 (già presente nel brano 1, isolato e messo in rilievo dalla omissione dei vv, 21 e 23).

    .

    Il latino ritorna nel brano numero 5, Onward to Roma. In questo modo, le due metà del disco, simmetricamente, si aprono entrambe su una citazione latina. Nel titolo del brano Fletcher sottolinea la stranezza di usare Roma, non “Rome”, come inglese vorrebbe, e vi riconosce una presa di posizione del gruppo. I versi citati sono quelli di Aen. 6, 781-784, parte della profezia di Anchise che ripromette al figlio, ritrovato nell’Ade, una discendenza felix prole virum. Il seguito della profezia, con il celebre invito a parcere e debellare, è rievocata in inglese.

    .

    Due cose ancora sottolinerei prima di chiudere. Il racconto non ha andamento cronologico: il brano numero due ha per protagonista Naute, personaggio del quinto libro (vv. 704ss.); My lost Empire, il penultimo brano, è una rievocazione di Troia messa in bocca ad Enea. Hesperia, il brano numero quattro, ripete le parole al primo approssimarsi delle coste italiche, nel terzo libro del poema virgiliano (vv. 521ss.); Those among the pyres, il brano finale, è una rievocazione di tutti i personaggi che hanno dovuto morire perché l’impresa eneadica arrivasse a buon fine.

    Seconda cosa: Fletcher, nel finale della sua analisi, mette in relazione l’album con ulteriori manifestazioni di musica mediterranea (non necessariamente italiana) di matrice nazionalista. Io ricorderei che già un gruppo punk rock degli anni Ottanta, i Litfiba, avevano proposto, nel lontano 1983, una Eneide di Krypton, poi riproposta nel 1990 e nel 2015. Mi chiedo quanto il precedente abbia pesato nel passaggio fra le generazioni. E in ogni caso, lo vedo come un più importante riferimento alla presenza perenne del poema virgiliano.

    © massimo gioseffi, 2020

  • Quid est enim tempus?

    Quid est enim tempus?

    Il percorso artistico dell’olandese Louis Andriessen (classe 1939, tutt’oggi attivo) appare decisamente inusuale rispetto a quello di molti compositori nord europei nati fra le due guerre. Nonostante i primi brani di Andriessen (ad esempio Séries, 1958) non lascino sospettare nulla di diverso rispetto al clima dell’epoca, ben presto, rileggendo la lezione di Stravinsky e aprendosi a una visione musicale più ampia, Andriessen si è portato su binari spesso in aperto contrasto con la logica della scuola di Boulez e di Stockhausen.

    Il primo seme di quest’indipendenza di linguaggio Andriessen lo riceve durante il periodo della formazione. Dopo avere frequentato il conservatorio a L’Aja, viene a studiare con Luciano Berio in Italia. Studiare con Berio non significava solo confrontarsi con uno dei compositori più vivaci e intellettualmente curiosi di quegli anni, ma anche entrare in un circolo culturale che radunava personalità di ogni tipo: Bruno Maderna, Cathy Barberian, ma anche Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Dario Del Corno e molti altri, tutti frequentatori della casa milanese di Berio.

    Tornato in Olanda, Andriessen fa il suo secondo incontro fondamentale, quello con l’America. I Paesi Bassi sono in quegli anni un importante crocevia nel panorama jazzistico, non solo fiorenti di una tradizione autoctona, ma frequentati da musicisti d’Oltreoceano che cercavano fortuna sui palchi europei, nei quali le problematiche razziali sembravano meno evidenti che negli States. Il jazz non è l’unica novità che l’America offre ad Andriessen. In quegli anni, un gruppo di musicisti proponeva un’avanguardia che sembrava virare bruscamente rispetto al percorso che la musica occidentale aveva intrapreso fino ad allora: il minimalismo.

    Da questi incontri scaturisce la decisione di voltare le spalle alle istituzioni e agli organici ufficiali. Andriessen costituisce un proprio ensemble (De Volharding, “La Perseveranza”), su modello di quelli creati da compositori come Steve Reich e Philip Glass. I gruppi strumentali scelti da Andriessen sono inusuali: spesso trovano spazio sassofoni, chitarre e bassi elettrici, un organico modulato su quello della moderna Big Band. Andriessen tuttavia non si limita ad accogliere passivamente le proposte della musica americana, ma, dopo averle assimilate, fornisce una risposta dal sapore inconfondibilmente europeo. In quest’ottica si inserisce la composizione De Tijd (Il Tempo), datata 1981.

    Come recita il titolo, il brano rappresenta il punto d’approdo delle riflessioni di Andriessen sul tempo, parametro di cui i minimalisti avevano offerto una radicale rilettura. La composizione è preceduta da mesi di letture alla ricerca non solo di un testo su cui strutturare il brano, ma anche di una visione filosofica profonda sul problema del tempo. Il punto di partenza è Dante con il verso diciassettesimo dal XVII canto del Paradiso: “Mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti”. Le Confessioni di Agostino sono l’ultimo e finale approdo di un lungo percorso che si snoda fra i trattati del naturalismo rinascimentale e le più moderne teorie einsteiniane. La frase che colpisce Andriessen è collocata nel libro XI al paragrafo 14.17: Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio. Tuttavia, Andriessen sceglierà, anche per una personale ossessione numerica, di musicare il paragrafo undici di quel libro, in cui si affronta il problema della relazione fra passato, presente e futuro.

    L’attingere alla cultura letterario-filosofica di età antica e medievale-rinascimentale non è inusuale per Andriessen. Nella sua vasta produzione troviamo: Il Principe (1974) da Machiavelli; De Staat (1976), fondato sulla Repubblica di Platone; delle musiche di scena per un Orpheus (1977); Odysseus’ Women (1995), da Omero; Writing to Vermeer (1999), con libretto di Peter Greenaway ispirato a documenti e lettere connesse al celebre pittore olandese; Racconto dall’Inferno (2004), da Dante. Questo interesse per la cultura classica (e non solo classica) in parte riflette l’amore per i linguaggi antichi, soprattutto musicali, in parte è un lascito dei suoi anni milanesi.

    Andriessen con De Tijd vuole esprimere l’idea dell’eterno presente in cui si annullano passato e futuro. Implicitamente, la composizione è anche una risposta alla ripetitività del minimalismo. De Tijd offre l’illusione di essere una musica statica, sempre uguale e ripetitiva ma in realtà, nella sua apparente immobilità, muta sempre senza mai risultare uguale a se stessa. Il materiale musicale di partenza è estremamente semplice (fig. 1), due accordi di settima di dominante (senza la quinta), collocati alla distanza di un intervallo di quinta giusta: mi, sol#, re, cui si aggiunge si, re#, la. Si tratta di una sovrapposizione accordale che si rispecchia in continuazione dentro se stessa. Entrambe le settime di dominante, accordo di tensione che necessita di una risoluzione, contengono la nota verso cui tende l’altro accordo, il mi e il la. L’ascoltatore è immerso in una dimensione temporale non lineare, ma circolare. Proprio il cerchio è il simbolo che indica nella musica medievale il tempus perfectum, la scansione metrica basata sul 3, a cui si contrappone il tempus imperfectum, basato sul 2. La simbologia numerica del 2 e del 3 e i rapporti matematici scaturiti dalla loro relazione intrecciano l’intero brano.

    Il testo di Agostino è affidato a un coro di voci femminili. L’uso dell’elemento testuale si richiama, in modo molto semplice, alla tecnica medievale del Cantus Firmus, per cui ogni sillaba è intonata su una lunga nota tenuta. Si tratta di un principio che, rivisitato rispetto alla sua antica origine, appare più fonetico che semantico. A sostenere il coro troviamo la sezione degli archi (curiosamente priva dei violoncelli), che delinea le statiche armonie del pezzo. Su questi due elementi si innestano gli interventi del resto del grande Ensemble , che prevede: 6 flauti, 2 flauti contralti, 3 clarinetti bassi, un clarinetto contrabbasso, 6 trombe, due arpe, l’organo Hammond, due chitarre basse, più una nutrita sezione di percussioni.

    .


    Quis tenebit illud et figet illud, ut paululum stet, et paululum rapiat splendorem semper stantis aeternitatis, et comparet cum temporibus numquam stantibus, et videat esse incomparabilem, et videat longum tempus, nisi ex multis praetereuntibus motibus qui simul extendi non possunt, longum non fieri; non autem praeterire quicquam in aeterno, sed totum esse praesens; nullum vero tempus totum esse praesens; et videat omne praeteritum propelli ex futuro et omne futurum ex praeterito consequi, et omne praeteritum ac futurum ab eo quod semper est praesens creari et excurrere? Quis tenebit cor hominis, ut stet et videat quomodo stans dictet futura et praeterita tempora nec futura nec praeterita aeternitas? Numquid manus mea valet hoc aut manus oris mei per loquellas agit tam grandem rem?  
    (Agostino, Confessioni, XI 11.13)

    .

    Il brano appare all’ascolto come un immobile flusso musicale che scorre con estrema lentezza (si tratta di 248 battute che si estendono per la durata di circa 40 minuti). Per la prima parte del brano non si verifica alcun avvenimento significativo, la percezione fatica a cogliere movimenti o mutamenti, che in realtà sono continuamente presenti. Con l’avanzare della composizione, i Pattern ritmici, all’inizio estremamente dilatati, si accorciano progressivamente e l’entrata della sezione dei fiati rende maggiormente percepibile la cangiante struttura ideata da Andriessen. La staticità di coro e archi, raffiguranti l’atemporalità, impatta con i materiali dei fiati e delle percussioni, che realizzano eventi temporalmente connotati.

    Andriessen con quest’ampia e disorientante struttura sonora restituisce il senso del testo di Agostino, dove eternità e temporalità sono poste in confronto dialettico fra di loro, la prima segno di una realtà ultraterrena, la seconda dell’ineludibile condizione umana. Tuttavia, il brano non sembra suggerire una risposta al dilemma agostiniano, ma ne prende semplicemente atto. L’edificio sonoro si spegne nel nulla, resta solo una rapida cellula ritmica percossa dai legnetti, forse il ticchettio di un orologio, forse il nescio dell’uomo di fronte all’enigma del tempo.

    © Mattia Sonzogni, 2020

    .

    Per chi fosse interessato a Andriessen, ricordiamo il volume miscellaneo, Andriessen a cura di Enzo Restagno, edizioni EDT, Torino, 1996; un’intervista realizzata da Carlo Boccadoro in Musica coelestis. Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Einaudi, Torino 1999; l’articolo di Tom Service, A guide to Louis Andriessen’s music, all’indirizzo https://www.theguardian.com/music/tomserviceblog/2012/oct/15/louis-andriessen-classical-music-guide; il sito http://musicinmovement.eu/composers/louis-andriessen.

  • Beethoven e il classico

    Beethoven e il classico

    Strano destino quello di Beethoven! Quando, da bambino, ho iniziato a interessarmi a un certo tipo di musica, Beethoven rappresentava il centro del repertorio. Da Schroeder dei Peanuts  che ne strimpella incessantemente le note, incurante di Lucy e disposto a considerarlo una buona risposta alla vita, a Pippo, che ne assumeva le vesti in una rivisitazione del “Topolino”, senza dimenticare l’omaggio non irrinunciabile de “L’Arancia meccanica”, le biografie cinematografiche, il romanzo di Luigi Magnani dedicato a “Il nipote di Beethoven” ecc. ecc. (e naturalmente, gli omaggi colti: Bernstein che ne inaugura il bicentenario alla RAI con un Fidelio incandescente; lo stesso direttore che con i Wiener Philarmoniker e Maximilian Schell ne presenta una per una le sinfonie in prima serata televisiva; Karajan che incide tutto il corpus sinfonico in video per la Unitel, con i Berliner; ancora Bernstein, che ne dirige trionfale il Fidelio a Vienna, e Paolo Grassi riesce a fare spostare l’intera équipe anche alla Scala…), la musica cosiddetta “classica” ruotava tutta intorno al nome di Beethoven. Anche di altri musicisti, naturalmente, era riconosciuta la straordinaria grandezza. Ma lui era una sorta di spartiacque, il più giovane rappresentante de Lo stile classico (come si intitola un celebre libro di Charles Rosen, dedicato a Mozart, Haydn e, appunto, Beethoven); il primo rappresentante dell’Ottocento romantico. Poi venne Amadeus, il film, e il ruolo centrale è passato da Beethoven a Mozart. Non che la cosa sia impropria, o dispiaccia, o che si possa considerare un errore da miopi. Beethoven è ancora molto presente nelle sale da concerto e nella discografia più recente; ma non ha più quel riconoscimento di cui godeva un tempo, non poi tanto remoto. E questo, senza che se ne possa ben dire la ragione.

    Il punto più basso della sua fortuna lo ha forse raggiunto proprio quest’anno, che pure avrebbe dovuto essere per lui, nato nel 1770, un anno di anniversari e di festa. In un articolo apparso sul “Chicago Tribune” il 30 dicembre 2019, la musicologa (del Massachusetts) Andrea Moore proponeva infatti di boicottare l’anniversario beethoveniano. Beethoven è già troppo presente; è un genio riconosciuto; ha messo parole definitive in molti campi (sinfonie, concerti per piano e per violino, sonate per solo piano, o per piano e violino, una delle quali omaggiata niente meno che da Tolstoi; un’opera, i Lieder, i quartetti ecc.). Perché celebrarlo ancora? Meglio dedicarsi a musica nuova.

    https://www.chicagotribune.com/opinion/commentary/ct-opinion-ban-beethoven-anniversary-20191230-ukklfgb25baaxcjjiddm3ud76y-story.html

    Uccellaccio del malaugurio, considerando che, per le ben note vicende di questi giorni, tutte le sale da concerto e i teatri d’opera sono chiusi da ormai tre mesi, in tutto il mondo. E chiusi rimarranno, si presume, anche per l’intera estate che ci attende, e forse oltre. A parte una Leonore e un Fidelio a Vienna a inizio anno, e un trionfale Fidelio londinese subito prima della chiusura, ben poco Beethoven in realtà si è sentito!

    Qui vogliamo rimediare ricordando le sue composizioni che hanno qualche attinenza con il mondo antico. Non sono molte, va detto. Beethoven non era un operista (fatto salvo il già ricordato Fidelio, dalla difficile gestazione in più tempi), e i suoi brani sinfonici o da camera non recano, in genere, un titolo o un programma precisi. Sono pura musica, che lascia all’ascoltatore il compito di associarla alle immagini, alle sensazioni, alle idee che preferisce. Beethoven compose molti Lieder, non solo in tedesco, ma anche in inglese, scozzese, gallese e perfino in italiano, nell’arco di circa quarant’anni, dal 1783 al 1823. In italiano compose anche varie arie da concerto, per questo o quel cantante, per questa o quella serata in qualche casa nobiliare. Si tratta per lo più di singole arie con accompagnamento pianistico, ma nel caso dei brani da concerto anche con una vera e propria orchestra, magari di formazione cameristica. I testi derivano spesso da opere precedenti, e ne sono autori librettisti famosi come Metastasio o Giovanni de Gamerra. Nessuno di questi testi fa particolare riferimento al mondo antico. Come omaggio alla nostra lingua, riporto però ugualmente il più famoso di essi, la scena per soprano Ah, perfido!, su parole di Metastasio. E’ il canto di un’amata abbandonata, che starebbe bene sulla bocca di una Arianna o una Didone. Beethoven lo compose ventiseienne, forse per influsso del suo maestro, Antonio Salieri. Era dedicata a una nobildonna di diciannove anni, perché la eseguisse ai suoi ospiti, nel salotto di casa. Venne eseguita in teatro nel 1796, da Josepha Dusek, che qualche anno prima aveva collaborato con Mozart, ospitandolo nella sua villa a Praga, ai tempi della prima rappresentazione sia del Don Giovanni che, forse, de La clemenza di Tito. Sotto al link, riporto il testo cantato.

    Ah perfido! Ah spergiuro! Barbaro! Traditor! Parti? E son questi gli ultimi tuoi congedi? Ove s’intese tirannia più crudel? Va, scellerato, va, pur: fuggi da me: l’ira de’ numi non fuggirai. Se v’è giustizia in cielo, se v’è pietà, congiureranno a gara tutti, tutti a punirti. Ombra seguace, presente ovunque sei, vedrò le mie vendette. Io già le godo immaginando; i fulmini ti veggo già balenar d’intorno… Ah no, fermate vindici dei. Risparmiate quel cor; ferite il mio. S’ei non è più qual era, son io qual fui: per lui vivea, voglio morir per lui.

    Per pietà non dirmi addio,
    Di te priva che farò
    Tu lo sai bell’idol mio:
    Io d’affanno morirò.
    Ah crudel tu vuoi ch’io mora,
    Tu non hai pietà di me,
    Perché rendi a chi t’adora
    Così barbara mercé?
    Dite voi se in tanto affanno
    Non son degna di pietà?

    Più stretto contatto con il mondo classico ha il balletto, l’unico mai composto da Beethoven, Le creature di Prometeo (Die Geschöpfe des Prometheus), del 1800. A quella data Beethoven, lasciata Bonn, viveva a Vienna, all’epoca – e non solo! – un’autentica capitale della musica. Qui fu contattato dal Teatro Imperiale e dal celeberrimo coreografo italiano Salvatore Viganò, per scrivere la musica di un ballo eroico allegorico in due atti. Difficile dire le ragioni della commissione. Beethoven però accettò, nonostante la sua inesperienza nel campo, forse attratto dall’argomento. Il balletto andò in scena il 21 marzo 1821. Prometeo è uno dei grandi miti di fine Settecento. Qualche anno prima Goethe gli aveva dedicato una tragedia mai ultimata; ad altra latitudine, se ne ricorderà, ancora una ventina d’anni più tardi, Leopardi. Ma le citazioni e i riferimenti in tal senso si potrebbero facilmente moltiplicare. Il lascito illuminista, che vede in Prometeo un eroe della luce e della civiltà; e gli spunti, se non già propriamente romantici, quanto meno da Sturm und Drang che animano la società di inizio Ottocento e vedono in Prometeo l’eroe singolo, in lotta perfino contro gli dei, si rispecchiano ambedue facilmente nella figura del Titano e nel suo mito. Beethoven dovette sentire il fascino di tutto ciò. Lo scenario del balletto prevede infatti che Prometeo sia raffigurato come un demiurgo che porta la fiamma della razionalità all’umanità bruta. Egli plasma due statue cui infonde la vita, conducendole poi sul Parnaso alla presenza di Apollo. Questi apre loro il mondo della Bellezza, chiamando in aiuto prima Amfione, Orfeo ed Arione, poi le Muse, Pan e Bacco, perché li istruiscano alla musica, al canto, alla danza. Senza di queste cose, infatti, non esiste vera umanità…

    Così come ci è giunto, il balletto prevede un’ouverture e sedici numeri, ognuno marcato dalle consuete indicazioni di tempo (“Adagio”, “Poco Adagio”, “Allegro vivace” ecc.), e solo da quelle. Il balletto oggi si vede poco in scena: questa primavera la Scala lo aveva generosamente programmato, ma è uno di quegli spettacoli che per quest’anno non vedremo… Io qui offro il brano più noto, entrato nel repertorio delle sale da concerto, ossia l’ouverture. Lascio però anche il link, per chi lo volesse ascoltare per intero, a un’esecuzione concertistica, attualmente reperibile su youtube. La durata è di circa un’ora. Nell’ouverture, dopo una serie di accordi maestosi, un breve “Adagio” molto solenne e rievocativo anticipa un “Allegro mosso con brio”, che sintetizza la frenetica attività del Titano.

    .

    Nel 1811 una nuova commissione portò Beethoven a Pest, dove si inaugurava un teatro. Dopo che furono scartati diversi progetti, ci si risolse per mettere in scena tre brevi atti unici, su testo del poeta August von Kotzebue. Due di essi prevedevano musiche di scena (ossia, accompagnamenti volti a introdurre le singole scene e a rimarcare in sottofondo specifici momenti di particolare importanza), entrambe opera di Beethoven. I due testi si intitolano rispettivamente König Stephan (“Re Stefano”, il re santo di Ungheria) e Die Ruinen von Athen (“Le rovine di Atene”). La somma dei tre testi voleva simboleggiare l’idea che lo spirito attico, dopo la caduta della Grecia in mano ai Turchi e la rimozione, da parte degli invasori, di ogni traccia dell’antica nobiltà, si era trasferito in Ungheria, dove, mescolandosi con la nuova religione e il forte sentire indigeno, era in procinto di dare vita a una nuova Classicità, di cui il teatro che si stava inaugurando si sarebbe dovuto fare simbolo. Una volta passato l’evento “mediatico”, Beethoven cercò di recuperare la musica da lui composta, per realizzare su quella base una vera e propria opera, di diverso argomento. Ma alla fine non se ne fece mai nulla, a parte una nuova esecuzione dei brani orchestrali, in forma di concerto, a Vienna nel 1822. Per Le rovine d’Atene Beethoven compose un’ouverture e altri otto pezzi, per lo più corali. Oggi si esegue relativamente spesso la prima, perché è divenuta anch’essa un pezzo da concerto; e qualche volta anche la Marcia alla Turca, che sarebbe il brano nr. 5; è più raro sentire il pur pregevole coro dei Dervisci (nr. 4). Il resto, in sostanza, è caduto nell’oblio. Come in precedenza, offro qui a mia volta solo l’ouverture, nella quale si rievoca il risveglio di Minerva (è chiamata proprio così) dopo 2000 anni, nell’Atene in mano ai Turchi. Per la serie completa dei brani rimando a un’esecuzione dal vivo delle intere musiche di scena (durata circa 40′), reperibile su youtube.

    Nel 1807 Beethoven aveva composto il suo unico brano di ambito propriamente latino, l’ouverture per la tragedia Coriolanus di Heinrich Joseph von Collin (ma in realtà sono sette minuti che dovrebbero fare da spartiacque fra i diversi tempi della rappresentazione teatrale). Nel suo testo, Collin rievoca la nota storia del comandante romano passato ai Volsci e poi, dietro le suppliche di madre e moglie, decisosi a non guidare più le armate nemiche contro Roma, e quindi ucciso dai suoi nuovi alleati (nel testo di Collin, per la verità, Coriolano si suicida). Attratto da questa situazione drammatica, Beethoven scrisse una musica potente, stringente, che ben rende l’incalzare degli avvenimenti e i comportamenti in bianco e nero dei diversi personaggi. Richard Wagner, fattosi esegeta del brano, osservava che il nodo drammatico messo in scena dal collega sembra corrispondere al momento capitale del dramma, il confronto fra l’eroe e le sue donne, che lo mettono a colloquio con la propria coscienza, e affermava che era come se, nel brano, Coriolano afferrasse con mano potente e terribile tutte le armi del risentimento, per farne una punta con cui trafiggersi il cuore (in effetti, i meno giovani ricorderanno un celebre “Carosello” nel quale una mano guantata di ferro, su questa musica, calava imperiosa a reclamizzare l’amarissimo che fa benissimo, riservato all’uomo forte…). Siamo, probabilmente, nella temperie più “romantica” di Beethoven. Gli eroi di Livio e Plutarco (soprattutto Plutarco, quello che ispirava anche il Karl Moor dei Räuber schilleriani), rivissuti alla luce della nuova sensibilità, diventano i protagonisti di una difficile affermazione dell’Io. La lotta del singolo contro il mondo che percepisce come a lui ostile si fa cioè emblema di ciò che unisce, al di là delle culture, le diverse generazioni, e si trasforma in simbolo di quanto l’uomo può ritrovare anche nel lontano passato. All’ouverture faccio seguire uno dei molti Caroselli disponibili su youtube, che in realtà è quello che più mortifica la musica di Beethoven, ma che spero diverta ugualmente gli spettatori…

    Vorrei chiudere però con un brano che non ha legami diretti con la classicità, ma che per la mia generazione resta un ricordo indelebile. A Natale del 1989 Leonard Bernstein, davanti alle rovine del muro appena abbattuto, a Berlino, diresse orchestrali e coristi dei complessi dell’una e dell’altra (ex-) Germania e un quartetto di solisti rappresentativo di nazioni che molto avevano sofferto durante l’ultima guerra. Una ferita si chiudeva, o almeno così sembrava, e solo Beethoven poteva celebrare l’avvenimento. Del compositore venne eseguita l’ultima sinfonia, la nona, la più “filosofica”. Nell’ultimo movimento, che include il celebre Inno alla Gioia su testo di Schiller, alla parola Freude, “Gioia”, intonata più volte dal coro e dai solisti, Bernstein fece sostituire la parola Freiheit, “Libertà” (non senza qualche problema metrico). Beethoven era l’unico compositore a cui si poteva riconoscere il ruolo di cantore di un simile sentimento. La chose enivrante, come insegna anche Carmen (e il nostro sito) è proprio la libertà, e null’altro che la libertà.


    © Massimo Gioseffi, 2020

  • Una rilettura (post)romantica di Catullo

    Una rilettura (post)romantica di Catullo

    La passione del compositore Carl Orff (1895-1982) per la classicità, che risale all’età scolare, si indovina facilmente anche solo scorrendo i titoli della sua produzione: Orpheus, 1925; Antigonae, 1949; Trionfo di Afrodite, 1953; Oedipus der Tyrann, 1959; Prometheus, 1968; De temporum fine comoedia, 1973. Tale passione si accompagna a quella ancora più precoce (visto che data dall’infanzia) per il teatro, campo in cui Orff ha di fatto quasi esclusivamente concentrato i suoi sforzi compositivi. Nel 1930 dalle mani del musicista trentacinquenne escono due serie di Chorsätze a cappella, in cui vengono messe in musica alcune liriche catulliane. In particolare: nella serie denominata Catulli Carmina I, vengono intonati i carmina 85, 5, 51, 41, 8, 87 e 75 (in quest’ordine); nella serie denominata Catulli Carmina II (del 1931), il 46, il 101 e il 31. In questi due cicli il compositore, oltre a rivelare la sua predilezione per il poeta veronese, per la prima volta si serve del latino come lingua per i testi da musicare (qualche precedente era reperibile solo negli esercizi scritti per la scuola, il cosiddetto Schulwerk). Il primo dei due cicli è anche l’antecedente diretto di un’opera di più ampio impegno compositivo, completata solo nel 1943 e rappresentata all’Opera di Lipsia – rimaneggiata in una nuova veste – con il nome di Ludi scaenici Catulli Carmina. Per questa composizione Orff aveva  musicato anche i carmina 58, 70, 109, 73 e 32.

    Prima di analizzare le particolarità di quest’opera, pare opportuno chiarire quale sia la natura della forma compositiva cui il compositore si riferisce con l’indicazione di ludi scaenici. Infatti, come aveva già sottolineato Werner Thomas, amico e collaboratore di Orff, questa dicitura allude al Theatrum emblematicum barocco, in cui l’argomento tende ad assumere carattere antipsicologico e il coro a rivestire funzione didattica di commento. In effetti Orff, pur non avendo mai confermato questo riferimento, aveva già fatto uso delle Imagines magicae di origine barocca nella Lukaspassion (1932) e aveva lavorato fino al 1933 alla rielaborazione della commedia gesuitica Philotea (1643) di Johannes Paullinus, opera peraltro mai rappresentata vivente l’autore e la cui partitura è andata in seguito perduta. Per parte sua, Orff – riferendosi alla scena dei Ludi – preferì sempre richiamarsi semmai alla forma della commedia madrigalesca (sui precisi caratteri della quale, bisogna dire, regna un po’ di confusione), della quale verrebbero a suo dire recuperate le figure dei ballerini e il coro che canta a cappella. Ad ogni modo, al di là del riferimento più o meno esplicito a questo o a quel modello, è fuori di dubbio che i Catulli Carmina sono un prodotto dello studio e del recupero erudito, da parte di Orff , di forme del teatro barocco.

    Nel 1953 i Carmina vennero uniti con i precedenti Carmina Burana (risalenti al 1936) e il già ricordato Trionfo di Afrodite, realizzato invece per l’occasione. Le tre cantate vennero a costituire uno spettacolo unitario, andato in scena per la prima volta – con il titolo di I Trionfi  – al Teatro alla Scala di Milano. I tre testi condividono la stessa concezione scenica; in essi l’azione o manca del tutto o, se anche è presente, è in un certo senso simbolica e ambisce a significare qualcosa di universale, perché originario, elementare, e come tale comune a tutti e sempre valido. Per raggiungere questo effetto Orff si serve del suo personalissimo stile, che definisce “fatto musicale originario” (Urgrundmusik), in cui parola, suono e gesto scenico esprimono la stessa cosa. In questo senso, però, i Catulli carmina presentano almeno un paio di particolarità rispetto al resto del trittico. La prima è la presenza di un’orchestra che, quando presente, è di sole percussioni (prima volta per Orff) e che, raccogliendo un coacervo di strumenti extraeuropei già sperimentati in ambito didattico, contribuisce a creare un forte senso di alienazione spazio-temporale nell’ascoltatore. Poi, altra eccezione, i carmina presentano una struttura di teatro nel teatro, in cui la vicenda amorosa del poeta Catullo viene offerta di exemplum a un gruppo di giovani innamorati, che assistendovi dovrebbero liberarsi della propria passione. Per questo, nella composizione Catullo viene a essere contemporaneamente poeta, visto che fornisce lui stesso i testi del ludus, e personaggio, agendo, per così dire, il suo dramma.

    Il testo della cornice narrativa (Praelusio ed Exodium), entro la quale si inserisce poi la vicenda catulliana (Actus I, II e III), è tutto di mano di Orff (latino incluso), e suggerisce una buona conoscenza della letteratura e della cultura antica, da Plauto agli elegiaci (Properzio, Ovidio, senza contare, ovviamente, Catullo), all’imperatore Adriano. Orff fa anche uso di proverbi, e addirittura perfino delle epigrafi pompeiane (CIL IV, 9123 e CIL IV, 7621), probabilmente ritrovate nelle Pompeianische Wandinschriften di Hieronymus Geist (1936), o nell’edizione ad usum scholarum di Ernst Diehl (1910). Sulla scena appaiono due cori, iuvenes e iuvenculae, che dopo essersi reciprocamente dichiarati amore eterno (eis aiona, tui sum), cominciano a indirizzarsi inviti amorosi, a tratti esplicitamente erotici, innescando un entusiastico gioco linguistico fondato su un lessico di sapore elegiaco, pieno di diminutivi e vezzeggiativi (O tua blandula, blanda blandicula, tua labella ad ludum prolectant; O tua mentula cupide saliens, peni peniculus, velut pisciculus, is qui desiderat tuam fonticulam).

    (iuvenes et iuvenculae)

    Interviene però un coro di senes, che prima deride le parole dei giovani, poi definisce ingenuo tanto entusiasmo. Con l’obiettivo di istruire i giovani sull’illusorietà del sentimento amoroso, i vecchi introducono allora la vicenda del poeta Catullo.

    (senes)

    Ecco dunque comparire sulla scena il personaggio Catullo (Actus I), che si esprime solo tramite le parole delle sue liriche. Tuttavia, come accennavo prima, davanti agli occhi degli spettatori si trovano contemporaneamente due Catullo: il personaggio, che, essendo presentato dai senes (e quindi da Orff) col preciso obiettivo di avvalorare il loro punto di vista, risulta almeno in parte rivisitato, aggiustato per il fine narrativo; e il poeta, che, oltre a fornire i testi al personaggio, offre sfumature più numerose di quest’ultimo, potenzialmente variabili con il variare della conoscenza del Liber che ogni singolo spettatore può avere. Mi sembra quindi opportuno evidenziare alcuni esempi che possano dare conto dell’operazione che Orff ha compiuto intessendo un gioco ironico, consapevole o meno, con gli spettatori, che permette ancora una volta di problematizzare il rapporto della classicità con le epoche successive.

    Il racconto inizia con un coro che declama il carme 85, il celebre Odi et amo. Seguono la presentazione del protagonista e dell’amata Lesbia, e il loro duetto d’amore (scene I, II e III).

    (Odi et amo)
    (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus)
    (Ille mi par esse deo videtur)

    Nella scena IV compare Celio, amico del poeta, al quale questi, offeso e preoccupato per aver assistito al mimo di Lesbia che danza insieme ad altri uomini, declama il carmen 58. L’identificazione di questo Celio risulta meno lineare di come è data dal compositore. Infatti, l’atteggiamento che il poeta tiene sulla scena nei suoi confronti porterebbe a riconoscervi il Caelius, flos Veronensum iuvenum del carmen 100, amico provato di Catullo, perfettamente a conoscenza delle sue sofferenze d’amore. Proprio in tal senso andrà dunque letto il Lesbia nostra del testo catulliano. Eppure, è ben nota la tendenza di parte della critica a interpretare quel nostra in senso letterale, riconoscendo in Celio il Marco Celio Rufo, oratore italico, non veronese, difeso da Cicerone nella Pro Caelio, anch’egli vittima dell’amore per Lesbia. Il riferimento ciceroniano è un’interessante prova extra-testuale, tanto più se si accetta che questo Celio sia il medesimo Rufo del carmen 77, lì definito amico ma traditore del poeta. Ancora più fitta si fa però la questione a problematizzare l’identità del Rufo del carmen 77, che certamente potrebbe essere l’oratore, ma che potrebbe anche essere tutt’altra persona. Dunque, nella migliore delle ipotesi i Celio in certo qual modo legati alle sorti di Lesbia e Catullo nel Liber sono almeno due, mentre nei Ludi scaenici Orff sembra riassumere nello stesso personaggio sia l’amico confidente, sia il traditore, che prenderà il posto di Catullo tra le braccia della donna amata nell’Actus II (scena VII). Dopotutto, è topica nel repertorio operistico e letterario la figura dell’amico presunto leale, salvo poi rivelarsi infido nel corso della vicenda. Ad ogni modo, l’operazione di Orff risulta arbitraria, e tanto basti.

    (Caeli, Lesbia nostra)

    Un’ulteriore interpretazione dei dati “biografici” contenuti nel Liber è riconoscibile procedendo oltre. Scoperto il tradimento di Lesbia e di Celio, in sogno (scena VI) e nella realtà (scena VII), il personaggio Catullo apre l’Actus III con spirito mutato. Intona nuovamente l’Odi et amo con cui si era aperto il ludus, ma questa volta alla fine del carmen, anziché presentarsi Lesbia, fanno la loro comparsa Ipsitilla (scena IX) e Ameana (scena X). Le due avventure amorose del protagonista vengono offerte agli spettatori come tentativi fallaci di consolarsi dell’abbandono della donna amata. Nella scena di Ispitilla (carmen 32) vi è ancora qualche traccia di affetto, deducibile sia dalla dinamica, che oscilla tra il piano e il pianissimo, sia dal fatto che viene inscenata la scrittura di una lettera privata indirizzata dal poeta alla donna. Questi due indizi potrebbero sottendere una relazione intima tra i due, ferma restando l’estrema fisicità che la lettera dipinge. In ben altri termini è presentata la vicenda di Ameana (carmen 41), dove non vi è nemmeno un tentativo pur fittizio di dolcezza. Piuttosto, i toni sono quelli di una pubblica duplice accusa rivolta alla donna, quella di essere puella defututa, e per di più disonesta. Ciò che mi interessa mettere in evidenza rispetto a questi episodi è però l’ordine in cui Orff sceglie di presentarli, immaginandoli entrambi successivi alla deludente esperienza con Lesbia, e consecutivi tra loro.

    (Amabo, mea dulcis Ipsitilla)
    (Ameana, puella defututa)

    Inutile segnalare che, invece, leggendo il Liber non vi è alcuna possibilità di sapere se i due episodi vadano pensati in quest’ordine, né se siano davvero successivi all’amore per Lesbia. Eppure, questa è la scelta del compositore, ed è ancora una volta una scelta squisitamente drammaturgica. Anche questa struttura narrativa, come quella dell’amico traditore, e forse anche più di quella, risulta infatti piuttosto nota. Il tentativo di vendicarsi della donna amata intrecciando relazioni di ripicca inesorabilmente fallaci è già motivo tibulliano (I, 5) e percorre tutta la letteratura occidentale, fino ai giorni nostri (nel repertorio operistico, ad esempio, si ricordi il cambio Lola/Santuzza negli affetti di Turiddu, in Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, 1890). Anche la presenza di più di una relazione amorosa, tra l’altro di tono sempre meno romantico, era già stata sondata – per esempio – da Jacques Offenbach nei suoi Les Contes d’Hoffmann (1881). Lì pure un poeta, artista e campione del romanticismo tedesco, offriva se stesso come exemplum ad alcuni giovani studenti, chiarendo come fosse stata la sequenza di tre amori, quelli per Olympia, Antonia e Giulietta, a portarlo a perdere l’anima e a scegliere, alla fine, di dedicarsi solo all’arte, preferendola anche alla tanto attesa, bellissima Stella. Le somiglianze con il Catullo orffiano sono, in questo caso, suggestive, ma non ci è dato sapere se il compositore avesse presente questo antecedente – e in fondo poco importa. Importa semmai notare che provando, come altri prima e dopo di lui, a riordinare la biografia catulliana a partire dagli indizi forniti dal Liber, indizi che egli riteneva sempre biografici, Orff abbia compiuto questa operazione seguendo uno schema tipico delle biografie sentimentali, alla formazione del quale sicuramente Catullo e gli elegiaci latini hanno contribuito e dal quale lo stesso Offenbach, e molti altri, possono più o meno involontariamente avere attinto.

    Per concludere, vorrei sottolineare un’altra scelta, più sottile, che mi sembra sottesa alla narrazione di Orff e che denuncia, come le altre, un certo grado di lavoro sul materiale catulliano di riferimento. Conclusi i tentativi di consolarsi tra le braccia di altre donne, e dopo aver intonato il carmen 8 (scena XI) per farsi forza nel chiudere i rapporti con Lesbia, il personaggio Catullo incontra nuovamente sulla scena la donna accompagnata da Celio, e finalmente la vicenda sembra prendere un’altra piega. Infatti, lei gli va incontro pronunciando il suo nome, mentre lui la respinge. Segue l’intonazione dei carmina 87 e 75 in un’unica soluzione, come già apparivano nel Chorsatz. In quest’ultima scena (XII), il protagonista pronuncia le dure conclusioni verso le quali lo hanno portato le estenuanti vicissitudini con la donna amata. Egli la accusa di essere venuta meno al foedus amicitiae, cui lui si sarebbe invece mantenuto irreprensibilmente fedele (così almeno dice), e pronuncia la celebre distinzione tra amare e bene velle, sostenendo che nec iam bene velle queat tibi, si optima fias, nec desistere amare, omnia si facias. Insomma, alla conclusione del ludus Orff sembra voler condividere questa distinzione catulliana, che di fatto assume i caratteri di un punto d’arrivo per il suo protagonista. Anche in questo caso, però, mi pare che l’antinomia catulliana venga adattata alle esigenze del compositore. Infatti, nel modo in cui la presenta Orff sembrano perdersi le implicazioni che i termini bene velle e amare portavano con sé sul piano socio-familiare del mondo latino, limitandosi a significare delle sfumature sentimentali e un punto di vista diverso dall’inizio per il personaggio Catullo, divenuto in un certo senso più consapevole. Del resto, questa era la posizione portata avanti dai senes, e la ragione stessa di proporre l’exemplum catulliano. D’altra parte, il riferimento culturale sembra essere sempre quello della biografia sentimentale: Catullo che respinge Lesbia, non è diverso da Hoffmann che respinge Stella alla fine dei Contes.

    Tornando a Orff, pare legittimo pensare che in questo quadro dei Trionfi il compositore, coerentemente con la concezione scenica dell’intero trittico, abbia voluto dipingere principalmente l’aspetto individuale e romantico dell’amore, con l’obiettivo di rappresentare un universale umano, pur mediato, come abbiamo visto, da un post-romanticismo narrativo in cui ancora trovava ispirazione all’altezza degli anni Quaranta. Infatti, la complessità apparentemente perduta dell’antinomia catulliana tra amare e bene velle ritorna con tutto il suo spessore, e con un esito inedito anche per il poeta latino, nel Trionfo di Afrodite, insieme con il recupero, da parte del compositore, della poesia di Saffo, di Euripide e dei carmina docta 61 e 62. Proprio l’ultimo quadro dei nostri carmina, l’exodium proposto alla fine dell’episodio di teatro nel teatro, introduce di nuovo i due cori di giovani che, dopo aver ripetuto l’eis aiona iniziale, aprono il rito nuziale inscenato nel Trionfo d’Afrodite e negli epitalami catulliani, con le parole Accendite faces.

    (Exodium)

    La passione tumultuante si è placata, il Trionfo successivo celebrerà la forza d’Amore incanalato in una relazione matrimoniale. L’amante di Lesbia deve farsi da parte…

    © Michele Genovese, 2019 (foto di Marcello Ferrario, 2009)

  • L’ultimo volo di Icaro

    L’ultimo volo di Icaro

    E’ assioma più volte verificato tra le pagine di questo sito che la musica, più di altre arti (letteratura, pittura, cinema), abbia conservato uno stretto legame con la mitologia classica e con il repertorio di sapere che da essa deriva. Le ragioni sono incerte, forse andranno cercate in un bisogno di valorizzazione e di giustificazione culturale: anni fa avevo osservato in un articolo l’impressionante quantità di riferimenti classici presenti nella letteratura poliziesca, specie quella d’annata, quando le detective stories erano ancora considerate un genere minore, di cui un po’ vergognarsi, frequentato più per ragioni economiche che come esibizione di bravura stilistica e compositiva; ed è possibile che qualcosa del genere avvenga anche con la musica cosiddetta colta, oggi un genere indubbiamente minoritario e di nicchia. Può essere, invece, che in musica, più che nelle altre discipline, sia forte il senso della tradizione, e minore quindi le possibilità – o forse anche solo la necessità – di esplorare nuovi campi e territori, maggiormente interessando la possibilità di confrontarsi con nuovi mezzi su temi del passato. E ancora: è possibile che ancorarsi a miti e storie ben conosciute sia una sorta di contrappeso al carattere astratto che, per sua natura, la musica tende ad avere. La discussione è aperta. Ma, per fare un esempio, colpisce osservare come in questa estate, abbastanza scialba di grandi avvenimenti musicali, degli otto spettacoli presentati da un Festival che è certo la quintessenza della conservazione, quello di Salisburgo, a parte tre incentrati sulle presenze di singoli divi, gli altri cinque erano tutti dedicati a un personaggio mitologico classico – in un festival che, per definizione, ha sempre rifuggito dalle scelte tematiche unitarie: Idomeneo (Mozart), Orfeo (Offenbach), Edipo (Enescu), Medea (Cherubini) e Salome (Strauss), che viene dalla classicità biblica per via di Oscar Wilde, ma sempre personaggio classico è.

    Questo post lo vorrei però dedicare a un brano eseguito in uno dei concerti “Proms” della BBC. Cosa siano i Proms (abbreviazione di Promenade) ho già avuto occasione di dirlo in un altro post: una serie di concerti promossi dalla rete nazionale inglese con le sue orchestre, ed orchestre ospiti. Occupano tutte le giornate dalla metà di luglio alla metà di settembre; si svolgono perlopiù (ma non solo) alla Royal Albert Hall; hanno una tradizione più che centenaria (dal 1895); vengono trasmessi per radio (tutti), per televisione (molti); alternano brani sinfonici (prevalenti), a opere liriche, musical, incontri di musica pop. Uno dei compiti culturali dei Proms è presentare testi inediti, o inediti quanto meno per la Gran Bretagna. E’ appunto questo il caso del brano che mi ha colpito, e che si intitola Icarus. Autrice è una compositrice russa, divenuta cittadina americana, Valerija L’vovna Auėrbach, detta Lera Auerbach (nessuna parentela, ovviamente, con Erich). La Auerbach è nata nel 1973 in una città nella regione degli Urali, ai confini con la Siberia, da una famiglia di musicisti. Ha studiato in patria, perfezionandosi poi alla Manhattan School of Music e alla Juilliard School di New York, la città dove si è trasferita nel 1991 e dove tuttora vive. Ha debuttato come compositrice con un suo brano eseguito alla Carnegie Hall da Gideon Kremer e dal suo gruppo, la “Kremerata Baltica”, nel 2002. Da allora è autrice di un vasto numero di composizioni, molte a carattere cameristico, ma anche due sinfonie, un balletto (dedicato alla Sirenetta di Andersen: il balletto, nel 2005, inaugurò dopo le ristrutturazioni l’Opera di Copenhagen), due opere liriche, un Requiem ortodosso, un oratorio, vari concerti per strumenti e orchestra.

    Icarus è un brano del 2006, che nei concerti Proms è stato eseguito per la prima volta nel Regno Unito. La prima esecuzione del brano risale invece al 2011, al bellissimo festival di Verbier, sulle montagne svizzere del Vallese. Il brano è derivato dall’ultimo movimento della sinfonia nr. 1 della Auerbach, intitolata Chimera, anch’essa datata 2006. Ha avuto varie esecuzioni, negli States (Boston e Chicago), in Canada (Winnipeg), in Ungheria (Budapest) e in Belgio (Bruxelles), forse anche altrove. Nella prima sezione viene descritta, a mio parere, la concitazione e l’eccitazione della fuga; è un brano agitato, che poi d’un tratto si placa, fino a lasciare spazio, in una sorta di seconda sezione, a un bell’assolo del violino primo: un po’ come se si descrivesse, credo, la gioia e la pace di un volo che ormai sembra assicurato e tranquillo. Questa sezione non dura a lungo: un movimento a spirale dell’orchestra dà spazio alla rapida e vorticosa caduta di Icaro. Una quarta sezione, dominata dagli ottoni, illustra il lutto per la morte del giovane; una quinta e ultima, più lenta e solenne, introdotta dal pizzicato dei violini, con ampio spazio concesso di nuovo al violino solista e all’oboe, rappresenta, a mio parere, il cordoglio ufficiale per Icaro, una sorta di funerale sul suo cadavere. I toni sono ancora molto seri, scuri, ma nello stesso tempo è come se il dolore fosse già stato distanziato e, in certa misura, elaborato, e il corteo funebre alla fine si allontanasse poco a poco, lasciando la scena vuota. Si muore sempre da soli…

    Va detto che la Auerbach fornisce della musica un’immagine leggermente diversa (il suo intervento, che corrisponde alle note di sala del concerto tenutosi a Boston nel 2016, si legge alla pagina https://blog.bostonphil.org/auerbach-icarus): “The title Icarus was given to this work after it was written. All my music is abstract, but by giving evocative titles I invite the listener to feel free to imagine, to access his own memories, associations. Icarus is what came to my mind, listening to this work at that time. Each time I hear the piece—it is different. What is important to me is that it connects to you, the listener, in the most individual and direct way, that this music disturbs you, moves you, soars with you, stays with you. You don’t need to understand how or why— just allow the music to take you wherever it takes you. It is permissible to daydream while listening or to remember your own past. It is fine not to have any images at all, but simply experience the sound”. E così, dunque, sia!

    (Auerbach, Icarus, Londra 2019)

    © Massimo Gioseffi. La partitura di Icarus è copyright delle edizioni Hans Sikorski (Schirmer per Canada e USA)

  • Nel nome di Augusto – Festina lente

    Nel nome di Augusto – Festina lente

    Come consuetudine, “Latinoamilano” celebra l’imminente Ferragosto con un omaggio musicale ispirato alla figura di Augusto o alla cultura augustea. Quest’anno abbiamo scelto una composizione di Arvo Pärt, compositore estone nato nel 1935 e tuttora in attività, che porta per titolo il motto Festina lente, che era, nella forma greca σπεῦδε βραδέως, la frase del cuore dell’imperatore a detta di Svetonio, Augusto, 25. Nel caso di Pärt, più che un richiamo all’antica figura, dietro al titolo è da vedere presumibilmente un’indicazione cronometrica per l’esecutore. Il brano è un pezzo per orchestra d’archi, e risale al 1988. Qui l’ascoltiamo in un’esecuzione particolarmente intensa, del 2011, come parte di un concerto commemorativo della strage delle Twin Towers a New York.

    (Festina lente, 1988)

    E’ questa l’occasione anche per spendere qualche parola intorno a Pärt, musicista schivo e solitario, balzato agli onori del successo e della cronaca agli inizi degli anni Duemila. Dopo gli studi a Tallin e le prime composizioni entro il sistema sovietico e la dodecafonia e l’atonalità allora imperanti, Pärt costituisce uno dei primi tentativi di liberarsi da quel credo e recuperare l’insegnamento del passato. Per questo, è amato o odiato quasi del pari… Fra le sue composizioni, punto di svolta è il bellissimo Cantus, scritto nel 1976 e dedicato alla memoria di Benjamin Britten, morto giusto quell’anno. In Britten, di cui si avverte qualche eco nella composizione, Pärt riconosceva una sorta di fratello maggiore, che, lontano dalla dodecafonia propriamente detta, aveva cercato un linguaggio moderno. Cantus è probabilmente la composizione più nota di Pärt, l’unica – ad esempio – ad essere mai stata eseguita dall’orchestra scaligera (nel 2000 e nel 2008).

    (Cantus, 1976)

    Pärt ha però un vastissimo catalogo di composizioni, fra le quali spiccano quattro sinfonie (datate rispettivamente 1963, 1966 e 1971 le prime tre, ancora nel pieno del periodo dodecafonico; 2004 la quarta, salita all’onore delle cronache perché dedicata al miliardo russo Michail Borisovič Chodorkovskij, arrestato l’anno prima per frode fiscale e poi condannato per vari reati finanziari, amnistiato nel 2013, ma considerato – da Amnesty International e altre organizzazioni – vittima di un processo politico intentatogli da Vladimir Putin); vari concerti per strumenti solistici e orchestra; diversi pezzi per pianoforte o organo; numerose composizioni per coro, a cappella o con accompagnamento orchestrale; molti componimenti di ambiente ecclesiale (Messe, oratori, cantate, un Magnificat, un Te Deum, uno Stabat Mater, un Miserere); ecc. Due elementi sono costanti nella produzione di Pärt, l’impegno anche politico della propria musica; l’interesse per il canto gregoriano e lo sfondo spesso religioso (di religione ortodossa) delle composizioni. Fra i vari titoli, ne ricordo ancora due, di particolare impegno e fortuna: Spiegel im Spiegel (“Specchio nello Specchio”), per violino, violoncello e pianoforte, del 1978, una sorta di riassunto del pensiero musicale di Pärt; e Fratres, una composizione originariamente scritta per violino e pianoforte in dialogo fra loro, ma poi continuamente riscritta e riadattata a strumenti e combinazioni sempre diverse. Caratteristica della musica di Pärt è l’utilizzo di un’armonia semplice, fondata di norma sull’accordo di tre note, e la riduzione ai minimi termini del materiale di contorno, in una ripetizione “minimalista” dell’accordo di partenza. Dalla sua ampia produzione offro qui due pezzi corali (l’accompagnamento si può fare con qualsivoglia strumento: piano, organo, chitarra – lo stesso autore ne ha curato le varie edizioni), come proposta per i molti cori attivi nelle scuole. Il primo è una ninna nanna sul facile testo Kusse, kusse, kallike, continuamente ripetuto; il secondo è la versione tedesca del Padre Nostro (Vater Unser).

    (Ninna nanna estone – versione per archi)
    (Ninna nanna estone– versione per piano)
    (Vater Unser)
  • Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Riprendiamo il discorso intorno a Jacques Offenbach, presentando la prima delle sue operette ambientate nel mondo classico. Si tratta di Orphée aux Enfers, rappresentata al Théâtre des Bouffes-Parisiens nel 1858, il locale da lui fondato tre anni prima. Nella vicenda artistica di Offenbach, l’Orphée segna un punto di non ritorno, non solo per lo straordinario successo che arrise al testo, ma anche perché, con esso, il musicista aveva potuto superare una serie di leggi risalenti all’età napoleonica, che impedivano a teatri musicali diversi dall’Opéra di mettere in scena spettacoli complessi, di lunga durata o con più di quattro personaggi in scena – che è appunto l’organico delle prime operette offenbachiane. L’Orphée, scritto su libretto di Hector Crémieux e Ludovic Halévy (quest’ultimo nipote di un compositore famoso, e noto per la sua successiva collaborazione con Henri Meilhac, che lo porterà a firmare, nel 1875, il libretto della Carmen di Georges Bizet), prevede invece un gran numero di personaggi, due atti e quattro scene di diversa ambientazione, per una durata complessiva intorno alle due ore di musica. Colpo di genio dello spettacolo è di immaginare Orfeo ed Euridice come una coppia borghese, giunta vicina al punto di rottura del matrimonio: lei, stanca e annoiata dalle arie che si dà lui (violinista alla locale Opéra), sogna flirt e tradimenti, e si getta ben volentieri fra le braccia di Aristeo. Lui, a sua volta stanco di una moglie capricciosa e civettuola, spera solo di liberarsene per correre fra le braccia della ninfa Maquita (nome spagnolesco, da sciantosa di locale alla moda). Altra idea geniale è immaginare che Aristeo sia in realtà Plutone travestito da figura umana: in questo modo l’abbraccio di Euridice con il suo amante, quando finalmente si realizza, comporta inevitabilmente la morte dell’eroina. Inoltre, lo spettacolo prevede la partecipazione di un personaggio denominato “L’Opinione pubblica”. E’ lei che obbliga Orfeo alla grande impresa del riscatto di Euridice: se Orfeo è il cantore mitico che dice di essere, egli deve tentare l’impresa, anche se in realtà non ne avrebbe nessuna voglia. Viene così anticipato molto teatro novecentesco, specie d’ambito francese (Anhouil, Gide, Cocteau), nel quale l’insuccesso di Orfeo è iscritto nell’impresa stessa ed è un atto voluto, una libera scelta dei personaggi, e non un elemento drammatico che mette in evidenza l’impotenza dell’uomo e l’inesorabilità delle leggi divine.

    All’alzata del sipario siamo a Tebe. Un breve preludio ci introduce alla situazione, presentando una musica malinconica, che delinea prima un clima bucolico di sapore vagamente arcaico, poi uno spazio più aulico.

    (preludio)

    Euridice canta la propria gioia in un’arietta elegante e vaporosa, ricca di abbellimenti vocali, mentre, assente il marito, prepara mazzi di fiori per Aristeo, le berger joli qui loge ici (è un vicino di casa), in attesa che questi la raggiunga.

    (couplets di Euridice)

    Anziché Aristeo arriva però Orfeo, e vediamo così i due sposi litigare furiosamente. Orfeo intuisce il tradimento della moglie, e per vendicarsi promette di suonarle il suo ultimo concerto per violino, della durata di un’ora e un quarto. Euridice dapprima si dispera, poi lo deride, infine prega gli dei di liberarla da un tale marito, mentre lui elenca uno dopo l’altro tutta una serie di termini musicali.

    (duetto Orfeo/Euridice)

    Quando infine arriva Aristeo, la sua canzone è tenera e pastorale, quasi effeminata (l’interprete è un tenore di carattere, che si immagina abituato a ruoli comici), salvo svelare la propria fiera natura nel finale.

    (chanson di Aristeo)

    L’abbraccio dei due amanti porta alla morte di Euridice, espressa con una melodia delicata, che fa il verso all’opera seria. Aristeo/Plutone lascia un beffardo messaggio per Orfeo: Je quitte la maison parce que je suis morte / Aristée est Pluton et le diable m’emporte! Quando Orfeo lo trova, si dà alla pazza gioia, ringrazia Giove e tutti gli dei e proclama la sua felicità di uomo finalmente libero.

    (couplets della morte di Euridice)

    A questo punto interviene però l’opinione pubblica, che obbliga alla grande impresa. Per riuscire in essa, l’Opinione guida Orfeo verso l’Olimpo, così da chiedere aiuto a Giove. La scena si trasferisce dunque lì, dove le cose non vanno molto meglio: gli dei sono pigri, neghittosi, passano le giornate dormendo o compiendo atti contro la comune moralità. Atteone, ad esempio, è appena stato trasformato in cervo, ma non da Diana, come vuole il mito, bensì da Giove stesso, che scorgendo una certa disponibilità di Diana verso un comune mortale ha pensato bene di intervenire e rimettere a posto le cose (e la mitologia). Proprio quest’opera moralizzatrice di Giove, provoca però un’accusa nei suoi confronti: come può dedicarsi a una simile azione lui, quando è ben noto come seduttore di donne mortali? Non si è forse dato da fare, anche di recente, con la bella Euridice? Sull’Olimpo è infatti giunta notizia del rapimento della donna ad opera di un dio, e tutti naturalmente pensano a Giove, non a Plutone. Contro il padre degli dei si scatena così una rivolta delle altre divinità, che lo accusano di ipocrisia.

    (coro della rivolta)

    Quando Orfeo arriva a chiedere aiuto per recuperare la sposa, Giove si sente perciò obbligato ad assecondarlo, anche se né lui ne ha troppa voglia, né Orfeo (che pure cita, parodiandola, l’aria più famosa di Gluck, Che farò senz’Euridice) arde dal desiderio di recuperare la sposa. Incuriosito dall’audacia di Plutone, e dalla fama di bellezza di Euridice, Giove alla fine decide però di fare perfino qualcosa di più del richiesto, promettendo di aiutare in prima persona lo sposo ‘desolato’ e partendo a sua volta per gli Inferi, accompagnato dal coro inneggiante degli dei, ora riconciliatosi con il loro sovrano.

    (finale del I atto)

    Nell’Ade le cose non vanno troppo bene. Plutone si è già stancato della nuova conquista ed Euridice è annoiata dalla vita nell’oltretomba, ancora più monotona di quella terrena, con la sola compagnia di un eunuco di nome John Styx, che le fa la guardia e non la lascia civettare come vorrebbe. In breve, la donna rimpiange perfino il marito: Ah! quelle triste destinée me fait ici le dieu Pluton!

    (lamento di Euridice)

    Intanto arrivano Giove e Plutone; questi nega di avere con sé Euridice, che Giove cerca vanamente per tutto l’appartamento (la garçonnière) che il fratello gli mostra. In aiuto del padre interviene però il piccolo Cupido, che gli promette di mutare la sua forma in qualcosa di veramente capace di garantire pieno successo alla ricerca. Giove già gongola, prima di scoprire che si sta per trasformare in mosca, sia pure una mosca dalle ali d’oro. In effetti, il dio giunge così a trovare facilmente Euridice, e può sedurla con il suo charme. E’ qui che, come spesso nel teatro di Offenbach, la parola perde di significato, trasformandosi in puro suono, il fastidioso (ma seduttivo) ronzio di una mosca…

    (duetto della mosca)

    Plutone, che ha capito quanto sta succedendo, vorrebbe dare la caccia all’insetto importuno, ma ad opera di Giove e di Cupido si trova presto circondato da una ridda di altre mosche che gli volano intorno e impediscono la sua ricerca.

    (galop delle mosche)

    Piccato, Plutone offre allora un grande banchetto a tutti gli dei: l’idea è che anche Giove vi dovrà intervenire, ovviamente con la sua normale immagine, e quindi si troverà costretto ad abbandonare, almeno per poco, Euridice. Alla festa, Euridice inneggia al giovane Bacco; Plutone cerca di riuscire a trattenere con sé la donna, sottraendola alle attenzioni di Giove; questi vorrebbe invece trasformarla in baccante, per fuggire con lei. Nel pieno del festino, Plutone offre uno spettacolo di danza ai suoi ospiti: è la scena, che già conosciamo, del Galop infernale.

    (galop infernale)

    Intanto arriva Orfeo, di cui ci eravamo un po’ dimenticati, sempre accompagnato dall’Opinione pubblica. Giove, che li riconosce immediatamente e sa che cosa vogliono, pensa che questa sia una buona occasione per uscire dall’imbarazzo, e quindi concede immediatamente Euridice al marito, sia pure con il divieto di voltarsi a guardarla per tutto il tragitto di ritorno dall’Ade. Al primo rumore opportuno, però, Orfeo è ben lieto di girarsi per vedere che cosa stia succedendo, perdendo così di nuovo la moglie, e questa volta definitivamente. Per mettere ordine al caos che si è venuto a questo punto a creare, Giove prende una decisione salomonica: Euridice non sarà né sua né di Plutone, ma si trasformerà in una baccante, e come tale vivrà al seguito del giovane Bacco. La donna, in cerca di novità, accetta prontamente, e tutti i presenti inneggiano alla soluzione.

    (finale del secondo atto)
  • Offenbach 200

    Offenbach 200

    Il 20 giugno da poco passato si sono celebrati i duecento anni dalla nascita del compositore francese (anche se nato a Colonia, in Germania), Jacques Offenbach. Spiace dire che in Italia, salvo la RAI, cui va un plauso, nessuno dei maggiori teatri ha ricordato la ricorrenza. Un peccato, perché Offenbach è stato un genio (Rossini lo ribattezzò “Le petit Mozart des Champs-Elysées“), che ha inciso sulla storia della musica, ma anche sul quotidiano a lui contemporaneo, sulla nostra visione del classico, e, in minor misura, sul nostro quotidiano. Ne offro solo una prova: nel 2015 tutti ci siamo indignati e commossi per le novanta vittime dell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. In pochi ci siamo chiesti l’origine di questo strano nome. Ba-ta-clan, scritto in realtà così, è il titolo di un’operetta di Offenbach, del 1855, ambientata in Cina, e i cui personaggi hanno tutti nomi “esotici” di invenzione, fatti di singole sillabe scandite da un trattino (bataclan è però il titolo di una canzone militaresca, una parodia del più diffuso rataplan). Quando nel 1865 fu inaugurato il teatro dalla forma di pagoda cinese, venne spontaneo intitolarlo come l’operetta di Offenbach, tale era la fama del compositore. Cito ora due fenomeni musicali per i quali tutti siamo debitori di Offenbach, anche se forse senza averne coscienza. Nell’operetta Orphée aux Enfers, del 1858, Offenbach doveva rappresentare la discesa di Orfeo agli Inferi e l’incontro con le Furie. E’ un tema già discusso, partendo da Gluck, in un altro post. Gluck, come sappiamo, nella versione viennese del 1762 del suo Orfeo aveva limitato al massimo le azioni delle Furie; nel 1774, dodici anni dopo, rivedendo il testo per Parigi, aveva invece dato loro un veemente balletto, a indicare i movimenti scomposti e, appunto, furiosi, di queste divinità. Eccolo:

    Come aveva fatto una trentina abbondante di anni prima Carl Maria von Weber con un ballo tipicamente contadino e popolare, il valzer, da lui sdoganato in una festa contadina e popolare all’interno di una sua opera, e poi, grazie a quel precedente, trasformato in ballo “colto” e nobile – Offenbach, alla ricerca di un ritmo adeguato per il suo inferno, sceglie un ballo di incerta origine e dubbio valore sociale, che si danzava in oscuri locali parigini, il Can Can. Offenbach in partitura indica in realtà il brano come Galop, la stretta finale (e quindi vorticosa) della quadriglia, un ballo accettato e comunemente praticato dall’alta società. Ma la celebrità di questo Galop infernal fu tale, che da allora in poi questo divenne il Can Can per eccellenza (la cui grande stagione è più tarda, risale agli anni Novanta del XIX secolo: a quella data si collocano sia gli schemi dei passi fissati dalla ballerina Louise Weber, sia i manifesti di Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge e altri locali parigini). Attraverso la sua composizione, cioè, Offenbach ha dato non solo visibilità e forma definitiva e irrinunciabile al ballo, ma è anche divenuto il simbolo della Belle époque di fine secolo, pur essendo lui morto nel 1880. Ancora nel film del 1960 di Walter Lang, Can-Can appunto, è sulla musica di Offenbach che i protagonisti ballano la loro danza proibita. Di quel Galop offro qui una versione da concerto, in attesa di ritrovare la scena al suo proprio posto:

    L’altra composizione di Offenbach che tutti conosciamo, anche se non sempre sappiamo trattarsi di cosa sua, è la celebre Barcarolle dai Contes d’Hoffmann, l’opera postuma del nostro musicista. Nell’opera è una serenata a due voci. Ne mostro innanzitutto uno dei tanti esempi di riutilizzo: due coniugi che si erano conosciuti a teatro, a una rappresentazione dell’opera di Offenbach, ma sono stati poi drammaticamente separati dalla vita, per un momento si ritrovano uniti grazie a quella musica. Altro non credo di dover aggiungere, limitandomi a riportare il link per il video :
    https://www.youtube.com/watch?v=sRvgm9qnwKQ

    Ecco però il brano originale nella sua interezza. Siamo a Venezia, di notte, in estate, e l’andamento della barcarola vorrebbe imitare il movimento sussultorio di una gondola, evocando un’atmosfera sensuale e malinconica. A cantare è la bellissima cortigiana Giulietta (la seconda voce che si ode nel brano); al suo fianco, a dare inizio alla melodia, è il giovane Nicklausse che, come tutti gli adolescenti, è raffigurato da una voce femminile di mezzosoprano. Questo il testo cantato: Belle nuit, ô nuit d’amour / souris à nos ivresses. / Nuit plus douce que le jour / ô, belle nuit d’amour! / Le temps fuit et sans retour / emporte nos tendresses / Loin de cet heureux séjour / le temps est sans retour / Zéphyrs embrasés / versez-nous vos caresses / Zéphyrs embrasés / donnez-nous vos baisers! Ah!

    Rimettiamo però ora un po’ di ordine nelle cose. Nato, come dicevo, in Germania, Offenbach si trasferisce a quattordici anni a Parigi e vi studia il ‘violoncello. Divenuto strumentista all’Opéra-Comique, acquisisce fama di virtuoso. Passato alla direzione d’orchestra, nel 1855 affitta un teatro sugli Champs-Elysées (da qui, il suo nomignolo), che chiama Bouffes Parisiens. Inutile seguire la sua carriera manageriale. Autore di due opere – una, come s’è detto, postuma – e varie composizioni ballettistiche e strumentali, Offenbach è ricordato soprattutto per le sue circa cento operette. Si vuole anzi che la parola l’abbia coniata lui, differenziando così le proprie composizioni dalle già affermate opéra-comiques. Si tratta di testi spesso brevi – non sempre! – di carattere comico quando non apertamente satirico, che alternano brani parlati a brani musicati, con ampio spazio anche ai numeri di danza. Vittima principale delle composizioni di Offenbach è la società del secondo Impero, quello di Napoleone III, incluso lo stesso Napoleone III. Dopo la sconfitta di Sedan, la caduta dell’Impero, l’esperienza della Comune, la carriera di Offenbach proseguì fra alti e bassi, ma meno gloriosamente di un tempo, fino alla morte avvenuta, come detto, nel 1880.

    Nei testi di Offenbach si riconoscono alcuni procedimenti ripetuti (tralascio l’analisi delle strutture musicali, anch’esse in genere immediatamente riconoscibili). Uno è la trasformazione in quotidiano di ciò che sarebbe sublime: ne La belle Hélène, 1864, di cui ci occuperemo in seguito più nello specifico, Elena è una “desperate housewife” che teme di vivere una vita banalmente borghese, e Paride viene raffigurato come un seduttore di quartiere, nelle cui braccia la donna è fin troppo ansiosa di cadere.

    Un altro procedimento è la parodia di situazioni celebri: nell’operetta già citata Elena invoca sempre la fatalité come responsabile della sua caduta, ancora prima che essa avvenga, quando è solo un desiderio inappagato. Ecco, ad esempio, come si rivolge alla dea Venere, colpevole a suo dire di faire ainsi cascader la vertu:

    Queste le parole cantate: On me nomme Hélène la blonde, la blonde fille de Léda. J’ai fait quelque bruit dans le monde: Thésée, Arcas et caetera. Et pourtant ma nature est bonne, mais le moyen de résister alors que Vénus, la friponne, se complaît à vous tourmenter. Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Nous naissons toutes soucieuses de garder l’honneur de l’époux, mais des circonstances fâcheuses nous font mal tourner malgré nous! Prendez l’exemple de ma mère, quand elle vit le cygne altier, Qui, vous le savez, est mon père, pouvait-elle se méfier? Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Ah, malheureuses que nous sommes! Beauté, fatal présent des cieux! Il faut lutter contre les hommes, il faut lutter contre les Dieux. Vous le voyez tous, moi je lutte, je lutte et ça ne sert à rien, Car si l’Olympe veut ma chute? Un jour ou l’autre il faudra bien. Dis-moi Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu?

    Altre volte la parodia si concentra su un preciso testo, poetico (Hugo, ma non solo) o musicale. Ne La Perichole, 1868, nel Perù del XVIII secolo il Viceré per fare sua la protagonista, una sorta di Madame Pompadour dei poveri, l’ha fatta sposare a un marito di comodo, che viene accolto con sommo disprezzo dai nobili di corte. La situazione ricorda quella de La Favorite di Gaetano Donizetti, andata in scena a Parigi nel 1840 e rimasta da allora in repertorio. Lì il protagonista dell’opera, Fernand, ottiene dal re di Castiglia Alfonso XI la mano di Lèonor de Guzman, ignorando che sia stata l’amante ufficiale del re, che pensa così di darle una vaga onorabilità. Ad avvisare Fernand sono i cortigiani inorriditi, che lo ritengono complice della manovra. Lèonor, abbandonata all’altare, dopo il pentimento, lunga macerazione e auto-punizione, ritrova Fernand e ne ottiene il perdono giusto prima di morire fra le sue braccia. La scena dei cortigiani viene trasferita di peso ne La Perichole, ripetendone musica e, con pochissimi adattamenti, perfino le parole. In questo modo, uno stesso pubblico andava all’Opéra, quella seria, a piangere sui destini di Lèonor; passava poi ai Bouffes Parisiens per ridere della medesima situazione.

    Altro meccanismo è quello che confonde volutamente alto e basso. Ecco come si esprime il gran Augure di Venere nella già ricordata Belle Hélène, presentandosi prima in tono grave e solenne, poi, nel ritornello Je suis gai [“allegro”], soyons gai, accelerando il ritmo, ma perdendo qualcosa in dignità, fino ad arrivare a uno spiazzante jodel:

    Ancora: Offenbach lavora spesso sulla parola, puntando a una sua sistematica e scientifica demolizione a scopo comico. E’ una lezione appresa da Rossini, dal famoso finale primo de L’italiana in Algeri. Lì tutti i personaggi lamentano di avere nella testa chi un campanello che suonando fa din…din, chi un martello che fa tac…tac, o un cannone che fa bum..bum, e chi si sente una cornacchia che fa cra…cra, fino a dissolvere il tutto in un insieme di suoni che formano un irresistibile nonsense che fa andare sossopra il cervello dei personaggi e li porta vicini, alla fine, a naufragare:

    Ne La Belle Hélène l’indovino Calcante, prezzolato, propone che Menelao per espiare certi presagi dall’apparenza nefasta passi un mese a Creta, lasciando così campo libero a Paride e a Elena. Menelao alla fine accetta, perché d’accordo con Agamennone pensa invece di tornare anzi tempo, e sorprendere l’eventuale infedeltà della moglie (al momento, non ancora consumata). Ecco cosa succede dell’invito, più volte ripetuto, pars pour la Crête:

    Altro elemento essenziale dello scrivere di Offenbach è il rovesciamento improvviso delle attese. Ne La Perichole la protagonista è davvero innamorata dell’uomo cui è stata fatta sposare per scherno, e non ha nessun interesse se non economico per il Viceré. Ecco allora come si rivolge, a breve distanza nel testo originale, al suo compagno, una volta appellandolo di nigaud (“sciocco”) e arrivando a filosofeggiare Ah! que les hommes sont bêtes!; la seconda volta tracciandone uno spiazzante ritratto così formulato: Tu n’es pas beau, tu n’es pas riche, / Tu manques tout à fait d’esprit. / Tes gestes sont ceux d’un godiche / D’un saltimbanque dont on rit. / Le talent, c’est une autre affaire / Tu n’en as guère, de talent. / De ce qu’on doit avoir pour plaire / Tu n’as presque rien… et pourtant…Je t’adore, brigand / J’ai honte à l’avouer, / Je t’adore et ne puis vivre sans t’adorer.



    Da ultimo: nelle operette di Offenbach ci sono riferimenti alla contemporaneità che a noi possono sfuggire. Il Viceré del Perù è raffigurato come gran cacciatore di gonnelle (così si diceva di Napoleone III), che promuove le sue amanti a titoli nobiliari abbastanza improbabili (anche questo si diceva di Napoleone III), che usa come schermo i mariti delle donne da lui concupite e lascia fare loro, in compenso dei torti matrimoniali, affari poco chiari (pure questo si adattava, pare, a Napoleone III). In un’aria che torna più volte nell’operetta, si dice anche che tutto ciò che è spagnolo ha maggiori probabilità di fortuna e Napoleone, tramite la moglie Eugenia de Montijo, era accusato di avere fatto la fortuna del partito spagnolo a Parigi… Di questi elementi offro una profetica testimonianza attraverso un’ulteriore operetta di Offenbach, La Grand duchesse de Gérolstein (1867). Gerolstein è una cittadina tedesca, che però non è mai stata sede di granducato. Quello che Offenbach ridicolizza qui sono le pretese imperialiste della Francia di Napoleone, alla vigilia della disastrosa campagna contro la Prussia. La nostra granduchessa ha delle mire militari, ma, come dice nella sua aria, sogna un grande esercito perché Ah! Que j’aime les militaires, / Leur uniforme coquet, / Leur moustache et leur plumet! / Ah! Que j’aime les militaires! / Leur air vainqueur, leurs manières, / En eux, tout me plait! / Quand je vois là mes soldats / Prêts à partir pour la guerre, / Fixes, droits, l’oeil à quinze pas, / Vrai Dieu! Je suis toute fière! / Seront-ils vainqueurs ou défaits?… / Je n’en sais rien… ce que je sais… Non a caso, il suo capo di stato maggiore è il generale Bum Bum, un nome che è una certezza, la cui presentazione musicale non ha bisogno, credo, di vederne riportate le parole…

    © Massimo Gioseffi, 2019 (to be continued)

  • Una sonata iliadica

    Una sonata iliadica

    Nella serie di post dedicati alla musica contemporanea e alla cultura classica, questa volta vorrei presentare la sonata per pianoforte “Troia”, opera del compositore, pianista, arrangiatore Fazil Say. Nato ad Ankara nel 1970, Say è cresciuto in Germania, dove i suoi genitori erano emigrati. Nella sua cultura unisce perciò tradizione “occidentale” (i suoi studi si sono compiuti fra Düsseldorf e Berlino), e tradizione “orientale”, rappresentata da riprese di temi, stilemi e interessi generali per la terra d’origine. Il catalogo delle composizioni è piuttosto ampio: la sonata di cui parlo, datata 2017, è il numero 78 della lista ufficiale. Say è anche un rinomato concertista e improvvisatore. In questo inizio di 2019, ad esempio, è apparso due volte a Milano, a febbraio alla Scala, nelle vesti di accompagnatore del mezzosoprano francese Marianne Crebassa; all’orchestra Verdi a marzo, come solista al pianoforte (vi si era già esibito nel 2017). La personalità di Say è non solo poliedrica, ma anche sempre singolare. Ne offro come testimonianza due esecuzioni del Rondò finale, terzo movimento della Sonata per pianoforte numero 11 di Mozart, il cosiddetto “Rondò” (o “Marcia”) “alla turca” – un titolo che non poteva mancare nel repertorio del nostro pianista. La prima esecuzione è “regolare”, ancorché velocissima rispetto al tempo di “Allegrino” marcato da Mozart; l’altra è una rielaborazione jazzistica dello stesso Say. Tutti i brani sono derivati dal sito del musicista, dove sono offerti alla libera fruizione.

    Come compositore, Say ha al suo attivo tre sinfonie (intitolate significativamente “Istanbul”, “Mesopotamia”, “L’intero universo”); vari pezzi solistici per pianoforte e altri strumenti – inclusa la voce umana; un Requiem; numerosi concerti per solisti e orchestra: tromba, clarinetto, violino (dal titolo di “Le mille e una notte nell’Harem”), e almeno quattro se non più concerti per pianoforte (uno, per due pianoforti). A esemplificazione della sua arte, presento Kara Toprak (“Terra nera”), proposto come bis nel concerto a Milano di quest’anno; e la versione numero 2, per piano solo, e numero 3, per piano e voce solista, che si limita però a un melisma vocalico che ricorda allo stesso tempo un lamento e il canto di un muezzin, di Gezi Park (Gezi Park è la località di Istanbul dove un sit-in di protesta contro la creazione di un centro commerciale ha provocato, nel 2013, una reazione scomposta delle forze dell’ordine turco, con un bilancio complessivo di nove morti e ottomila feriti). Dalla composizione si evince un ulteriore tratto dello scrivere di Say, e cioè l’impegno nella quotidianità e nella cronaca, anche politica, della sua terra. La versione numero 1 della composizione, è un più ambizioso concerto per due pianoforti.

    (Kara Toprak)
    (Gezi Park 2)
    (Gezi Park 3)

    Veniamo alla sonata “Troia” (Troy) che è il titolo che più direttamente ci interessa. E’ in dieci movimenti (il brano si può sentire per intero, assieme ad altre opere di Say, in un recente disco, in commercio anche in Italia). Diciamo subito che la sonata ha avuto recensioni miste, alcune di grande entusiasmo, altre più fredde. Nonostante si apra nel nome di Omero, ricorda forse più il film di Wolfgang Petersen del 2004, di cui rispetta la sceneggiatura, che non davvero l’Iliade, rivelandosi così perfetto emblema di un riuso contemporaneo dei classici, che non passa necessariamente attraverso i classici, ma piuttosto attraverso la “scia” di prodotti e riferimenti che essi hanno lasciato dietro di sé. Significativo mi pare infatti che, contro il precetto oraziano, Say voglia ricostruire praticamente ab ovo la vicenda troiana, dando grande spazio alla figura di Paride e alla seduzione di Elena, così come accadeva nel film, ed esaltando, dei dieci anni di guerra, solo la figura carismatica di Achille. D’altra parte, nell’ottica già erodotea di presentare la guerra di Troia come il primo scontro epocale fra civiltà appartenenti a Storie e continenti diversi, si intuisce come nella carriera di Say non potesse mancare un omaggio a questo tema.

    Il primo movimento, grave e pensoso, delinea la figura di Omero, quasi un ripiegarsi del bardo sul passato di cui sta per raccontare le vicende. Il secondo movimento si anima grazie agli arpeggi della mano destra, che creano l’immagine dei venti che sospingono la nave di Paride dall’Asia alla Grecia. La mano sinistra, con i suoi accordi pesanti, getta però un’ombra di inquietudine sul viaggio. Il terzo movimento, rapido ma calcato, marziale, ben scandito, evoca gli eroi achei radunati a Sparta. La città lacedemone è protagonista del quarto movimento, lento e profondo, misterioso, inquietante. Con l’arrivo di Elena, quinto movimento, si apre una sorta di duetto d’amore, in pieno stile melodico.

    (Omero)
    (Venti dell’Egeo)
    (Gli eroi della Grecia)
    (Sparta)
    (Elena e Paride)

    Con il sesto movimento ci siamo spostati in Asia Minore. Il pianoforte evoca un’alba tranquilla nella città di Priamo, prima che, nel settimo movimento, faccia la sua irruzione Achille, martellante, insistente, quasi orgiastico alla fine del brano, come assorto in una specie di crudele danza della guerra. Il conflitto è al centro dell’ottavo movimento, irruente e baldanzoso. Nel nono appare il cavallo di Troia, una marcia scandita dai grandi gesti del pianista, che lascia poi spazio alla festa della presunta salvezza e al silenzio della notte fatale. Conclude l’opera un rapido epilogo.

    (Troia)
    (Achille)
    (La guerra)
    (Il cavallo)
    (Epilogo)

    © 2019

  • La cattura di Temistocle

    La cattura di Temistocle

    Impossibile resistere alla tentazione di segnalare la prima esecuzione assoluta di una novità musicale, che ancora una volta si ispira al mondo classico. Il brano viene da un concerto tenutosi a Londra nell’ottobre dell’anno scorso, che ha visto come interpreti alcuni solisti della London Symphony Orchestra, la prestigiosa istituzione inglese, che di solito si esibisce al Barbican Centre, ma che è venuta più volte anche in Italia.

    Il concerto in questione si è tenuto nell’altra location dell’orchestra, la chiesa sconsacrata di St. Luke’s, al numero 161 di Old Street, Londra: un luogo più adatto a composizioni e concerti di carattere semi-cameristico. Due le caratteristiche del programma: si trattava di brani tutti inediti, o almeno in prima esecuzione nel Regno Unito; gli autori erano, con una sola eccezione (Sohrab Uduman) tutte donne, a sconfessare quanti – e in Italia sono ancora molti, come ci insegna la cronaca recente – pensano che le donne abbiano meno valore in musica. Fra le autrici, la vedette, diciamo così, era certamente la finlandese Kaija Saariaho (1952-vivente), oggi compositrice di prima grandezza nel panorama della musica contemporanea, le cui opere sono state eseguite anche in sedi ‘museali’ come il Festival di Salisburgo o il MET di New York (non proprio dei templi assoluti della modernità teatrale). Le altre autrici erano Jasmin Kent Rodgman (per la quale è possibile consultare il sito personale, https://www.jkr-music.com/), Faye Reader e Quinta, nome d’arte di Katherine Mann.

    Proprio a Quinta si deve il brano che andiamo ad ascoltare, disponibile alla libera consultazione sul sito della London Symphony Orchestra. Si intitola Themistocles is captured e si articola in tre parti, intitolate a loro volta A Ship for Asia Minor; I have with me two Gods; The Likely and the Rich. I brani sono disponibili anche in un disco pubblicato nel 2017, con il titolo “Flux – New Music, New Dance”, dalla NMC di Londra, disponibile all’acquisto on-line. Si tratta però di una diversa esecuzione, che unisce il brano di Quinta a composizioni di altri autori.

    Il padre di Quinta era un professore di latino e greco; è possibile che da lì venga l’ispirazione per la composizione che ci interessa, messa in musica di una celebre pagina di Plutarco, relativa alla fuga e all’esilio di Temistocle in Asia Minore, dopo avere subito l’ostracismo ad Atene ed essere stato costretto dagli Spartani a lasciare il comodo rifugio presso Admeto di Tessaglia. Da lì la malinconia della composizione, percepibile in tutti e tre i suoi movimenti. Nel recensire l’album NMC, l’autorevole rivista inglese “Gramophone” , luglio 2017, ha scritto che quella di Quinta era “the most original and distinctive voice , sottolineando poi il paesaggio sonoro minimalista entro cui si articolano i tre brani, la cui vitalità è tenuta accesa dai ritmi delicatamente pulsanti di un piano elettronico e di un violino manipolato a sua volta attraverso l’elettronica.

    Quinta, va aggiunto, è nota per la sua collaborazione con la band dei Radiohead e con il musicista di punta di quella band, Philip Selway. Ha lavorato anche con la cantante inglese Natasha Khan (nota come “Bat for Lashes”) e con Patrick Wolf, il cantautore inglese che unisce l’elettronica alla musica barocca. L’album più celebre di Quinta si intitola “My sister, Boudicca” (evidente, anche qui, il riferimento classico), ed è attualmente disponibile all’ascolto su youtube, suddiviso nei brani di cui si compone

    https://www.youtube.com/watch?v=Ss6IgCGozbM&list=OLAK5uy_n8YhvVpFOrkODwU5RYOhikhdaiRJbpVLc&index=1

    Ecco invece le tre parti della composizione che ci interessa:

    I – A Ship to Asia Minor

    II – I Have two Gods With Me

    III – The Likely and the Rich

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Laudes Marianae

    Laudes Marianae

    L’imminente festività da “ponte lungo” invita a una celebrazione musicale, che riguardi anche il latino. Naturalmente, non è la festività in sé che interessa, che tocca il personale di ciascuno. Ricordiamo solo, a titolo di cronaca, che l’Immacolata Concezione è idea oggetto di disputa per tutto il Medioevo; fatta propria dalla Controriforma; molto frequente nella pittura di ambito spagnolo e italiano del Seicento (Velázquez, Murillo, Zurbarán); elevata a dogma da Pio IX nel 1854.

    Qui vorrei proporre alcuni testi mariani, in latino, musicati da musicisti attivi in Gran Bretagna, in un ambiente quindi a maggioranza anglicana e perciò ostile al dogma, che è accolto solo dalla Chiesa Cattolica (dei compositori che citeremo, però, MacMillan è sicuramente cattolico, Howells è sicuramente anglicano). Un buon esempio, mi pare, di convivenza, se non proprio di ecumenismo, convivenza facilitata probabilmente dal latino, il veicolo in cui questi testi si esprimono,  ma anche dalla forza inerziale che il latino e la musica portano con sé, e che probabilmente spiega il perché di una maggiore conservazione di legami tra questa lingua e questa Arte, fra tutte le Arti oggi riconosciute: un tema su cui riflettere anche successivamente.

    Il primo brano che propongo viene dal cosiddetto “Novecento storico” e risale al 1916. Ne è autore Herbert Howells, 1892-1983, celebre organista prima a Salisbury, poi al St. John’s College di Cambridge. La sua composizione più importante si intitola Hymnus Paradisi, e risale al 1950. La Laus che qui presento si intitola Salve Regina, e fa parte di una raccolta di quattro Anthems in onore di Maria, cui sono stati poi dedicati anche un Magnificat del 1950 e uno Stabat Mater del 1963. Ecco prima il testo della Laus, poi la composizione che ci interessa:

    Salve, Regina, Mater misericordiae, / vita, dulcedo, et spes nostra, salve. / Ad te clamamus, exsules filii Hevae, / ad te suspiramus, gementes et flentes / in hac lacrimarum valle. / Eia ergo, advocata nostra, illos tuos / misericordes oculos ad nos converte. / Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, / nobis, post hoc exsilium, ostende. / O clemens, O pia, O dulcis Virgo Maria.

     

    I prossimi brani sono tutti opera di compositori ancora viventi. Incomincio con due messe in musica della celebre Laus dal titolo Ave maris stella. Ne riporto il testo: 

    Ave maris stella, / Dei Mater alma / atque semper virgo / felix coeli porta. // Sumens illud ave / Gabrielis ore / funda nos in pace / mutans Evae nomen. // Solve vincla reis, / profer lumen caecis, / mala nostra pelle, / bona cuncta posce. // Monstra te esse matrem, / sumat per te preces / qui pro nobis natus / tulit esse tuus. // Virgo singularis / inter omnes mitis, / nos culpis solutos / mites fac et castos. // Vitam praesta puram, / iter para tutum / ut videntes Jesum / semper collaetemur. // Sit laus Deo Patri, / summo Christo decus, / Spiritui Sancto / tribus honor unus. // Amen.

    Autore della prima intonazione è Owain Park. Nato a Bristol nel 1993, laureato in composizione ed orchestrazione a Cambridge; già corista nella sua città natale, è autore di numerosi testi, fra i quali l’opera da camera “The Snow Child”, rappresentata al Festival di Edimburgo del 2016.

     

    Autore del secondo brano è il più celebre James MacMillan, scozzese, nato nel 1959. Dopo gli studi a Edimburgo e Durham, è divenuto famoso a partire dai primi anni Novanta. E’ autore di opere liriche, concerti, sinfonie e brani genericamente sinfonici, fra i quali spiccano Britannia! (del 1994) e il concerto per percussioni Veni, veni, Emmanuel, del 1992. Ai Proms del 2017 (i concerti estivi della BBC) è stato eseguito un suo European Requiem, appositamente commissionato per l’occasione e dedicato alle vittime dei diversi attentati degli ultimi anni. Ecco la Laus che ci interessa:

     

    Chiudo questa carrellata con Matthew Martin. Nato nel 1976, ha studiato a Oxford (dove attualmente insegna composizione al Magdalen College) e a Londra; ha vinto importanti premi; è autore di uno Stabat Mater del 2014 piuttosto eseguito, e di un ciclo di composizioni su testi di Petrarca, risalente al 2016. Qui presento il suo Magnificat, di cui riporto, come di norma, prima il testo e poi l’esecuzione:

    Magnificat / anima mea Dominum / et exultavit spiritus meus / in Deo salutari meo / quia respexit humilitatem ancillae suae, / ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes / quia fecit mihi magna, qui potens est: / et Sanctum nomen eius / et misericordia eius a progenie in progenies / timentibus eum. / Fecit potentiam in brachio suo, / dispersit superbos mente cordis sui, / deposuit potentes de sede, / et exaltavit humiles; / esurientes implevit bonis, / et divites dimisit inanes. / Suscepit Israel, puerum suum,  / recordatus misericordiae suae, / sicut locutus est ad patres nostros, /  Abraham et semini eius in saecula. / Gloria Patri et Filio / et Spiritui Sancto / sicut erat in principio et nunc et semper / et in saecula saeculorum. Amen.