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  • Un’idea di canone II

    Un’idea di canone II

    Torno sul bel post di Isabella Canetta e sulla discussione che ha suscitato, perché mi pare che l’intervento solleciti uno dei nodi centrali dei nostri studi e dello spazio da concedere al latino e a chi insegna latino nella scuola. Chiedo scusa se farò prima un discorso musicale, il cui senso e collegamento con quanto ci interessa si spiegherà solo alla fine. A chi abbia la pazienza di leggere, chiedo, appunto, la pazienza di arrivare fino in fondo.

    Nel mese di settembre il Teatro alla Scala di Milano ha messo in scena alcune recite dell’opera Alì Babà di Luigi Maria Cherubini (1760-1842). Cherubini, fiorentino di nascita e di prima carriera, fu un cervello in fuga, attivo a Londra e a Parigi, dove si trasferì nel 1787 e dove rimase fino alla morte. Alì Babà, in realtà Ali-Baba ou les quarante voleurs, è un’opera francese, in francese, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1833. Dal 1822 al 1842, anno della morte, Cherubini fu l’amato/odiato direttore del Conservatorio parigino; ma la sua ultima composizione operistica di peso, prima dell’Ali-Baba, risaliva al 1813, ed era stata Les abencerages, su libretto ricavato da Chateaubriand. In mezzo solo due opere comiche di poco interesse e successo. Perché insistere su questo? Chi conosca Ali-Baba, da questa edizione scaligera o dalla sua sola precedente ripresa in tempi moderni, ancora alla Scala, nel 1963 (di quello spettacolo esiste, per fortuna, una registrazione dal vivo), sa che nel 1833 un’opera del genere era fuori tempo. Ali-Baba è infatti un’opera turchesca, come si usava nella seconda metà del Settecento; priva di vere arie, o quasi, con un grande impegno verso il declamato; con cori e danze inserite direttamente nel testo; con una certa seriosa austerità, alla latina direi una certa gravitas, pur nell’argomento complessivamente comico. Volendo trovare, nella mia memoria di ascoltatore, uno spettacolo affine a quello cui ho assistito alla Scala, evocherei un’opera vista alla (defunta) Piccola Scala agli inizi degli anni Ottanta, Les pèlerins de la Mecque, opera-comique di Gluck, un musicista di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Ma Les pèlerins è un’opera del 1763, andata in scena (dopo una serie di peripezie che qui non ci interessano) nel 1766. Cioè, settant’anni prima dell’operazione tentata da Cherubini. In quei settant’anni si inseriscono tutta la parabola del Mozart operista; tutta la parabola della generazione di mezzo, quella degli Spontini, dei Mayr, di Cherubini stesso; tutta la parabola del genio rossiniano, la cui carriera si chiude con il Guillaume Tell del 1829. Sei anni prima dell’Ali-Baba, nel 1827, Bellini e il suo tenore di riferimento, Giovan Battista Rubini, avevano creato, con Il Pirata, la figura dell’eroe romantico. Nel 1831, pochi mesi prima della nostra opera, Bellini aveva scritto Norma; nel 1833 Donizetti aveva già scritto Anna Bolena, Elisir d’amoreLucrezia Borgia; due anni più tardi raggiungerà la sua punta massima con Lucia di Lammermoor (da Walter Scott). Insisto su Scott, come prima ho fatto per Chateaubriand, e ora faccio ricordando che le zuffe pro o contro Hernani, il drammone romantico di Victor Hugo, risalgono al 1831, proprio per segnalare questo: il Settecento di Gluck nel 1833 era un mondo tramontato, e tramontato più volte, da più stagioni culturali e generazionali. Riproporlo sulle scene dell’Opera dovette fare uno stranissimo effetto, e infatti tradizione vuole che una voce di spettatore (poi auto-identificatosi in Hector Berlioz) a ogni alzata di sipario gridasse a gran voce la propria disponibilità a pagare un prezzo sempre maggiore in nome di qualche idea musicale da rintracciare nell’opera; salvo, all’ultimo atto, affermare sconsolata di non essere abbastanza ricca per permettersi la posta che, a quel punto, era necessario mettere in palio.

    Perché questa lunga tirata? Ali-Baba non è certo entrato nel canone, la sua vita è stata stentata sia nell’Ottocento, sia nel Novecento. Eppure, è opera gradevole, e il pubblico delle recite cui ho assistito è uscito da teatro soddisfatto e plaudente. Nella vacua eleganza dello spettacolo offerto dalla Scala, la serata è parsa povera di grandi contenuti, ma non priva di una sua dignità formale, premiata dagli applausi. Perché in musica non vige il concetto di canone; vige il concetto di repertorio. A un ascoltatore distratto, Ali-Baba suona come un’opera settecentesca, gradevole e ben fatta. La distanza che ci separa tanto dal Settecento quanto dall’Ottocento fa sì che non si avverta più la contraddizione in termini cronologici che aveva fatto indignare Berlioz e rendere freddi i primi ascoltatori dell’opera, determinandone la successiva sparizione. Certo, chi ragiona sulle date rimane, anche oggi, sconcertato; chi non vi ragiona, va a teatro e sente un’operina gradevole e relativamente ben rappresentata. E, badate bene, non è detto che si tratti di due persone differenti, un pubblico colto e un pubblico ignorante. La reazione, mista, può essere presente anche nell’animo di uno stesso spettatore.

    Questo è il repertorio: un grande contenitore dove chi vuole pesca ciò che gli interessa; e ne può fruire accostandolo a cose diverse, badando più a un godimento estetico che a una cognizione storica (proprio per questo, per soddisfare quanti più gusti possibili, qualsiasi teatro di buon senso, nel suo cartellone, mescola opere di epoche, gusti, generi diversi). Un canone, come ha giustamente scritto Isabella Canetta, è un’altra cosa, e necessita di almeno tre elementi: un’autorità che lo imponga; un numero ristretto di pezzi a costituirlo, sempre gli stessi, accettati da tutti; una obbligatorietà imposta dall’autorità di cui sopra e dal consenziente ossequio di chi a quella autorità si sottomette. Edward Sorel nella sua vignetta metteva in luce perfettamente tutto questo: c’è Bloom-Mosè, che si considera interprete diretto delle parole di Dio; ci sono le Tavole delle Leggi, dalle quali non si può tralignare; ci sono dodici nomi, e solo dodici, gli unici eletti in tutta la letteratura americana; e ci sono i lettori di Bloom/Ebrei in fuga verso la Terra Promessa, disposti, almeno per un poco, a sottostare a quelle leggi e a quelle tavole. Il repertorio ha struttura in parte diversa:  dipende anch’esso da autorità che lo impongono, ma è più inclusivo, ammette un numero maggiore di elementi e una loro maggiore mobilità. Non ha carattere obbligatorio: vige, per esso, la legge dell’auctoritas, ma anche quella della semplice  casualità. Mi spiego di nuovo con esempi musicali: di Ali-Baba fu nota, per anni (e una semplice verifica su youtube lo dimostra) la sola ouverture. La ragione di questo sta nell’esecuzione che di essa diede Arturo Toscanini in uno dei concerti radiofonici da lui tenuti in America. Con quei concerti Toscanini ha creato per anni un repertorio direttoriale: ciò che lui ha diretto, è stato diretto anche da altri, in molti casi presumibilmente ignari di come Ali-Baba si sviluppasse dopo l’ouverture, di che tipo di opera fosse, di che cosa trattasse. Ma non importava: importava l’ouverture in quanto tale, in quanto brano “toscaniniano”, da eseguire perché l’aveva eseguito Toscanini. Viceversa, ciò che Toscanini non ha diretto ha faticato ad entrare in repertorio: ad esempio Mahler, ad esempio Shostakovich. Un direttore del calibro di Herbert von Karajan, che pure fu a sua volta un dittatore del podio e delle scelte musicali per almeno trent’anni, diresse in tutta la sua vita una sola sinfonia di Shostakovich (la Decima) e solo quattro su dieci di Mahler (quarta, quinta, sesta e nona). Quando Claudio Abbado nel 1982 inaugurò la Filarmonica della Scala con la Terza di Mahler, fece scalpore. Solo una decina di anni più tardi, Riccardo Chailly, allora direttore dell’Orchestra Verdi di Milano, poté invece imporre senza difficoltà che ogni concerto inaugurale di quella orchestra comprendesse almeno una sinfonia di Mahler. Era la fine degli anni Novanta: fino a quella data, le sole discografie integrali di sinfonie mahleriane erano quelle di Kubelik e di Bernstein; oggi, quasi ogni direttore che si rispetti ha la sua. Identico discorso per Shostakovich. E il repertorio non varia solamente nel tempo, varia anche nello spazio: fuori d’Italia, centro del repertorio operistico è senz’altro Wagner, e non solo nei Paesi di lingua tedesca; in Italia, lo è Verdi, e quando la Scala si inaugura con un’opera wagneriana, per quanto eccelsa essa sia, si possono dare per scontati i mugugni e gli alti lai. A Torino, la sindachessa cittadina ha cacciato in malo modo un ottimo direttore, colpevole di non dirigere abbastanza Traviate e Barbieri di Siviglia ogni anno! La biografia di Joan Sutherland scritta da Norma Major insegna quante difficoltà abbia avuto la cantante a imporre, a Londra e in America, suoi territori d’elezione, opere come SonnambulaNormaPuritani e la stessa Lucia di Lammermoor che in Italia, pochi anni prima, Maria Callas aveva in normalissimo repertorio, e come lei un numero elevato di altre, meno eccelse cantanti. E questo perché i recensori degli spettacoli della Sutherland sottolineavano certo sempre la grandezza della cantatrice, ma anche l’inutile spreco di tante doti in composizioni di autori come Bellini, Donizetti, il primo Verdi, che in Italia erano considerati il fulcro del repertorio, ma in Inghilterra erano visti come dei poveri dilettanti, inesperti di armonia…

    Vengo a stringere il troppo lungo ragionamento. Un repertorio è più ampio; meno fisso; meno legato all’autorità che lo impone (pur essendo legato anch’esso a fenomeni di auctoritas, di cultura generale, di gusto personale), meno assertivo di un canone. Ne traggo due considerazioni. La prima, storica. Sia Isabella Canetta che Silvia Stucchi nelle loro osservazioni su Quintiliano parlano di “canone”. Io credo che quello di Quintiliano sia un “repertorio”, non un “canone”: un elenco di ciò che si può leggere, non un obbligo alla lettura, che Quintiliano voglia davvero imporre ai suoi lettori. Mancano, del canone, la misura ristretta; l’assertività assoluta e l’autorità impositiva di chi lo emana; il carattere esclusivo, anziché inclusivo, dei nomi fatti. Seconda considerazione, di interesse più pratico e immediato. La scuola italiana vive una contraddizione in materia di canone (non è la sua sola contraddizione, del resto). Da un lato, infatti, le nuove disposizioni ministeriali, che tanto nuove magari non sono più, ma che non sono mai state troppo seriamente applicate, vorrebbero un allargamento dei testi, dal canone al repertorio, nella direzione di un apprendimento della civiltà, e non della letteratura. Dall’altra parte, però, quelle stesse disposizioni stabiliscono, con formule ambigue e forse anche un po’ ipocrite, che lasciano libertà di variare, ma puniscono poi i tentativi di variazione, un canone – questo sì – di autori da privilegiare, e perfino una scaletta cronologica circa il loro approccio da parte delle classi liceali…

    Ecco allora la domanda: spostare l’accento dal canone al repertorio cosa può produrre di nuovo? quali vantaggi e quali rischi? Un rischio, lo dico subito io stesso, è l’effetto Ali-Baba, la perdita di vista, cioè, che un testo del 1833 che sembra un testo del 1763, è un testo che ha in sé qualcosa che non funziona, oppure qualcosa di provocatorio: ma perdere di vista la continuità storica vuol dire rischiare di fruire di un’opera del 1833 come se fosse un’opera del 1763, senza porsi dei problemi che invece andrebbero posti. Un vantaggio, però, sarebbe l’allargamento di testi e di possibilità di ricerca e autonoma sperimentazione, anche nelle singole classi e nelle singole scuole: in un cartellone di teatro, si sa, tutto deve convivere con tutto, se il teatro vuole sopravvivere, e sarà il pubblico a decidere a che cosa assistere e a che cosa no, scegliendo liberamente sulla base del proprio gusto; ma non può essere il teatro a scegliere per il suo pubblico, se non vuole rischiare di assottigliarlo, alienandosene ampia parte. E questo anche a scegliere ciò che tutti fanno e tutti conoscono, come una sorta di dovere imprescindibile: perché, con buona pace della sindachessa torinese (che varie volte si è espressa in questa direzione), un teatro fatto di soli Barbieri di Siviglia e di sole Traviate non è un teatro che si apre al grande repertorio popolare. E’ un teatro che si chiude, e si avvita su se stesso, e in breve muore.

    La scuola deve guardare a un livellamento sociale del sapere, e deve rispondere alle domande di chi la frequenta, e di chi valuterà un giorno chi la frequenta. Ma siamo sicuri che la metafora utilizzata per il teatro non valga anche per la scuola italiana in generale, per il canone dei testi latini in particolare? Concentrarsi sempre sugli stessi autori, gli stessi testi, leggere sempre e soltanto le poesie su Lesbia, la prima ecloga o il Carpe diem, non rischia di svilire gli autori antichi, di fornirne un’immagine parziale e dunque  errata e, nel nome di un canone da rispettare, di uccidere la libertà e l’ampiezza del repertorio? Sì, certo, a non leggere queste cose si rischia. Perché se non lo si fa, lo studente rischia che alla maturità gli venga chiesto qualcosa che non sa, rischia di non saper rispondere a domande banali, rischia di non conoscere gli autori canonici, appunto, e i passi ritenuti canonici. Ritenuti da chi? Su questo, sollecito risposte.

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

     

     

    Luigi Maria Cherubini – Ouverture da Ali-Baba, New York 1949, NBC Orchestra, dir. Arturo Toscanini (registrazione radiofonica di dominio pubblico)

     

     

  • Bernstein e Platone

    Bernstein e Platone

    Il 25 agosto 1918 nasceva a Lawrence, Massachussets, Leonard Bernstein. L’anniversario in Italia è stato abbastanza ignorato (niente paura: è successo anche a Debussy e Gounod, per restare nel campo della musica operistica di Otto/Novecento), non così all’estero. Difficile parlare di Bernstein: grande pianista, grandissimo direttore d’orchestra, importante divulgatore musicale, compositore sottovalutato dalla critica, ma amatissimo dal pubblico. Qui ricordo solo alcuni episodi molto personali: ragazzo, negli anni Settanta ascoltai le sinfonie di Beethoven nella loro continuità e completezza grazie alla serie di filmati realizzati da Bernstein con i Wiener Philarmoniker, il regista Humphrey Burton e l’attore Maximilan Schell, che recitava i testi introduttivi – uno spettacolo della Unitel poi commercializzato su DVD. In precedenza Bernstein – all’epoca, direttore principale della New York Philarmonic Orchestra – aveva realizzato già nei primi anni Sessanta una serie di concerti e di filmati televisivi, anch’essi poi fortunatamente raccolti in DVD, nei quali presentava e dirigeva numerosi capolavori del repertorio sinfonico, spiegandone la struttura, il linguaggio, il significato, con parole semplici ed esemplificazioni dal vivo. Una buona parte dei concerti era riservata a un pubblico di ragazzi, cui Bernstein sapeva parlare con semplicità, ma senza semplificazioni. Alla Scala aveva firmato due spettacoli entrati nella leggenda, Medea di Cherubini (1953, regia di Margherita Wallmann) e Sonnambula di Bellini (1955, regia di Luchino Visconti), entrambi con Maria Callas come protagonista: ma, ahimè, prima che io nascessi… (per fortuna di entrambi esiste la registrazione sonora). Nel periodo 1978-1990, l’anno della sua morte, a Milano venne poco: nel 1978, sull’onda del successo viennese del Fidelio da lui diretto a inizio anni Settanta e ripreso e inciso in quell’anno, con la regia di Otto Schenk, la dirigenza scaligera di allora (Paolo Grassi e Claudio Abbado) riuscì a organizzare una mini-tournée di tre serate alla Scala. Tornò per qualche concerto, spesso con orchestre “sue”, tedesche o americane, ma in un caso anche con la Filarmonica scaligera. Altri suoi spettacoli in giro per il mondo sono rimasti leggendari. Fra tutti, il concerto tenuto nel Natale del 1989 a Berlino, a Muro appena abbattuto, con dei complessi provenienti da entrambe le Germanie riunite e quattro solisti di nazionalità diversa, a rappresentare gli Stati che più avevano sofferto durante l’ultima guerra. Forse c’era un po’ di show-business nell’operazione; c’era certamente qualche elemento discutibile (nell’ode di Schiller che chiude la sinfonia, Bernstein faceva cantare a coro e solisti “Freiheit!”, “Libertà”, invece di “Freude!”, “Gioia”). Ma per chi aveva allora vent’anni o poco più, quello è rimasto nella memoria come uno dei momenti magici della propria generazione.

    Qui non voglio però rievocare l’interprete, quanto il compositore. Bernstein musicista, con Steven Sondheim paroliere e Jerome Robbins coreografo, rivoluzionò il musical, con West Side Story del 1957 (come ricordava argutamente lui: “Pensa, un musical in cui il sipario a fine atto cala sempre su un morto” [West Side Story è una rivisitazione della vicenda di Romeo e Giulietta, ambientata nella New York delle bande etniche: il primo atto si chiude sulla morte di Bernardo/Tybalt, il secondo su quella di Tony/Romeo; Giulietta sopravvive e lancia il “J’accuse” finale). West Side Story e il di poco precedente Candide (1956, libretto originale di Lillian Hellman da Voltaire; il musical però ha avuto continui rifacimenti vivente l’autore) sono stati oramai adottati anche nei circuiti “colti”: alla Scala si sono visti entrambi, West Side Story a inizio anno è andata in scena anche al Teatro Regio di Torino, Candide qualche anno fa all’Opera di Roma. Non ha scritto solo musical, però, Bernstein: un’opera o forse due (Trouble in Tahiti, atto unico del 1952, poi inglobata in A Quiet Place, 1983, come spettacolo dentro lo spettacolo); tre sinfonie; diversi concerti e suite; una raccolta di Salmi in musica (Chichester Psalms, 1965); varie Messe e cantate (una, divertentissima, derivata da un flop a Broadway del 1976, intitolata originariamente 1600 Pennsylvania Avenue e poi, dopo la morte di Bernstein, circolata anche come A White House Cantata: la Casa Bianca e i suoi primi occupanti ne sono i protagonisti, fino all’impeachment di Andrew Johnson, 1869, anticipo diversissimo di quello, all’epoca appena avvenuto, di Richard Nixon, 1974); musica da camera o per strumenti solistici; musica vocale (fra cui le quattro divertenti ricette di La Bonne Cuisine, 1948); musica da film (On the Waterfront, “Fronte del porto”, 1954, di Elia Kazan, nominato al Premio Oscar del 1955).

    Fra le varie composizioni di Bernstein figura Serenade, eseguita per la prima volta alla Fenice di Venezia, diretta dall’autore, violino solista Isaac Stern (1954). Come indica il titolo è una composizione abbastanza fluida, anche se di fatto è un concerto per violino che non mantiene la canonica divisione in tre movimenti. Infatti, è pensato come una messa in musica del Simposio di Platone. Ogni movimento rappresenta perciò uno dei momenti chiave del dialogo, i cui discorsi, com’è noto, celebrano tutti l’amore. Lo stile è assolutamente tonale e si avvertono echi di altre composizioni dell’autore, incluso qualche anticipo di West Side Story. Bernstein era un uomo colto, brillante conversatore, autore di libri e trattati (nell’autunno del 1973 fu anche protagonista delle “Norton Lectures” a Harvard, quelle che da Calvino in poi siamo abituati a chiamare “Lezioni Americane”), ma le sue matrici culturali erano l’America e l’Ebraismo, non il Greco o il Latino. I movimenti sono in tutto cinque: il primo, lento e poi allegro, è dedicato agli interventi di Fedro e Pausania; il secondo, allegretto, segue lo scoppiettante, ma in fondo anche malinconico, discorso di Aristofane; il terzo, di brevissima durata, un presto, riproduce le parole di Erissimaco, il medico; il quarto e più struggente, un adagio, è dedicato ad Agatone; l’ultimo, molto tenuto e allegro molto vivace, introduce prima Socrate e poi Alcibiade, che interviene a interrompere il banchetto con una banda di amici ubriachi, che si esprimono con qualche tocco jazz. Il tono è essenzialmente lirico, come si conviene al soggetto (l’Amore) e alla situazione descritta (i banchettanti di Platone sono amici, e per una volta tanto nel dialogo non si danno gli scontri spesso presenti in altre opere socratiche). Ogni movimento riprende, sviluppa e poi modifica una parte della musica del movimento precedente, esattamente come in Platone ogni personaggio che parla si ricollega alle parole di chi l’ha preceduto. In questo modo, la composizione avanza verso il suo finale, proprio come il testo di Platone avanza verso la verità rivelata da Socrate. Gli interpreti sono Gidon Kremer e Bernstein. La registrazione risale al 1986.

    I – Fedro e Pausania

     

    II – Aristofane

     

    III – Erissimaco

     

    IV – Agatone

     

    V – Socrate e Alcibiade

     

    Un’ulteriore descrizione della composizione (che include anche le parole con le quali Bernstein ha illustrato ogni movimento) si può trovare, fino al 25 agosto del 2019, nel sito che il “Leonard Bernstein Office” ha dedicato al centenario del compositore e alle sue musiche. Questo l’indirizzo della pagina che ci riguarda:

    https://leonardbernstein.com/works/view/23/serenade-after-platos-symposium

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Nel nome di Augusto 2

    Nel nome di Augusto 2

    A ferragosto 2017 abbiamo celebrato la ricorrenza e il periodo festivo dando voce a un’avversaria (e vittima) di Augusto, Cleopatra – la Cleopatra di Samuel Barber = https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2017/08/14/nel-nome-di-augusto/. Oggi celebriamo l’agosto 2018, con qualche ritardo rispetto alla data originariamente pensata, dando voce a un’altra vittima, questa volta indiretta, di Augusto, ossia a Didone. Fra le molte morti / i molti lamenti di Didone che fanno parte del repertorio musicale, e non solo lirico, è parso giusto iniziare da Hector Berlioz, 1803-1869. Nell’opera Les Troyens, che risale al 1858 (ma che non fu mai rappresentata per intero finché rimase in vita l’autore), vistosamente ricavata da Virgilio, Berlioz non si limita infatti a musicare una vicenda narrata dal poeta antico; Les Troyens sono, a tutti gli effetti, un enorme, continuo commento al testo antico. Berlioz era persona dotta, con tenaci passioni letterarie: Virgilio, Shakespeare, Goethe e Byron costituirono per lui una galassia di autori sui quali tornare continuamente a ragionare e riflettere. Ma di questo vorrei parlare più diffusamente in un’altra occasione. Qui mi limito a riportare, come ho fatto l’anno scorso, l’addio alla vita di Didone: il recitativo accompagnato “Ah! Je vais mourir…” e l’aria “Adieu, fière cité”, che corrispondono a quella sorte di autoepitafio che la Didone virgiliana pronuncia ai vv. 651-662 del IV libro. Eccone il testo integrale:

    Ah! Je vais mourir…
    Dans ma douleur immense submergée…
    Et mourir non vengée!
    Mourons, pourtant!
    Oui, puisse-t-il frémir
    A la lueur lointaine de la flamme de mon bûcher.
    S’il reste dans son âme quelque chose d’humain,
    Peut-être il pleurera sur mon affreux destin!
    Lui, me pleurer!
    Enée! Enée! Oh! mon âme te suit,
    A son amour enchaînée,
    Esclave elle l’emporte en l’eternelle nuit.
    Vénus, rends-moi ton fils!
    Inutile prière
    D’un coeur qui se déchire…
    A la mort tout entière,
    Didon n’attend plus rien que de la mort.

    Adieu fière cité, qu’un généreux effort
    Si promptement éleva florissante!
    Ma tendre soeur qui me suivis, errante;
    Adieu, mon peuple, adieu!
    Adieu, rivage vénéré,
    Toi qui jadis m’accueillis suppliante;
    Adieu, beau ciel d’Afrique, astres que j’admirais
    Aux nuits d’ivresse et d’extase infinie;
    Je ne vous verrai plus, ma carrière est finie.

    L’esecuzione risale a un concerto del 4 gennaio 1966. L’orchestra è quella della radiotelevisione francese (Orchestre Philarmonique de l’ORTF) diretta da Jean-Claude Hartemann, 1929-1993. La voce è invece quella splendida, sensuale, e di bellissima dizione di Régine Crespin, 1927-2007, uno dei miti del canto lirico del XX secolo, donna di grande fascino ed intelligenza, anche se, come spesso succede, più nota all’estero che in Italia, nonostante fosse di madre italiana. Alla Scala, per dire, cantò solo nella Fedra di Ildebrando Pizzetti nel 1959 e come Sieglinde nella Walküre di Wagner, in quattro recite del 1968… Qui si ammireranno la chiarezza di elocuzione, le mezze voci espressive, la capacità di trasformare ogni nota in qualcosa di significativo (l’Ah! iniziale, ad esempio, o i due diversi Adieu al v. 4 dell’aria propriamente detta), la  dignità concessa alla regina cartaginese, che non contrasta con le intenzioni espressive di Virgilio (e di Berlioz). 

     

     

  • Persefone elettronica

    Persefone elettronica

    Sempre alla ricerca di riprese di miti classici nella musica del tardo Novecento o del nuovo secolo, segnalo oggi una composizione che si intitola Pulse Persephone, diciamo “Il battito di Persefone”, se ne interpreto correttamente il nome. Ne è autrice Daphne Oram (1925-2003), una pioniera della musica elettronica inglese. Educata al Royal College of Music di Londra, la Oram divenne nel 1944 un tecnico audio della BBC, con il compito, da lei progressivamente assunto (e faticosamente conquistato sul campo) di provvedere prima agli effetti sonori di specifici programmi radiofonici; poi, dal 1958 in avanti, di creare uno studio radiofonico dedicato all’elettronica, intitolato “BBC Radiophonic  Workshop” (pare che gli alti papaveri della BBC avessero posto come condizione che non venisse citata in nessun modo la parola “Music”). Negli anni di lavoro alla BBC la Oram compose la sua opera più famosa, del 1949 (data pionieristica rispetto a tutta la storia della musica elettronica che si racconta comunemente), Still Point, recentemente proposta da uno di quei magnifici concerti che la BBC offre lungo tutta l’estate alla Royal Albert Hall di Londra, con il nome di Proms (in realtà, Promenades: serie di concerti a prezzi popolari fondata nel 1895 con l’intento di consentire a chiunque di usufruire di uno spettacolo di alto livello artistico in un’atmosfera informale). Qui se ne può sentire, per chi volesse, l’esecuzione offerta il 23 luglio scorso dalla London Contemporary Orchestra diretta dal giovanissimo Robert Ames (1985-), in un concerto che – secondo l’uso inglese – mescolava “classici” della musica elettronica e composizioni realizzate apposta per l’occasione:

    https://www.youtube.com/watch?v=xxDJjHGw61U&t=205s

    La composizione sulla quale appunto il mio interesse risale invece al 1965. La Oram, poco dopo avere ottenuto lo studio radiofonico che l’interessava, abbandonò la BBC – pare, per una suggestione nata dall’incontro con Edgard Varèse – e decise di dedicarsi a una carriera in proprio di compositrice, studiosa e docente di musica, realizzando uno studio nella sua casa nel Kent. A questo periodo risale la composizione che mi interessa, sulla quale pochissimi altri dati sono riuscito a reperire. Venne presentata a Londra, nell’ambito di una mostra tenutasi alla Royal Academy of Arts, e intitolata ai “Tesori del Commonwealth”. Attraverso il richiamo al battito del cuore sotterraneo di Persefone, imprigionata nell’Ade, ma desiderosa di recuperare la Terra, la Oram utilizzò suoni di varia natura, a suo dire provenienti da varie nazioni del Commonwealth, “masterizzati” tutti assieme in un sintetizzatore elettronico – un anno più tardi, nel 1966, la Oram avrebbe realizzato il proprio strumento elettronico, chiamato “Oramics Machine”. Come scrive Curtis Roads, in Composing Electronic Music. A new Aesthetics, Oxford 2015, p. 319, la composizione si segnala per il suo tono pensoso, a dimostrazione del fatto, ben noto in tutta la storia della Musica del resto, che il suono può essere descrittivo (“representational”) e dotato di significato, e perciò, anche quando appaia del tutto astratto, è in grado di “establish a mood or atmosphere within seconds, setting the stage for narrative”. La Oram non era nuova a tentativi del genere: Jo Hutton, nell’articolo “Radiophonic Ladies”, ad esempio, ricorda come già nel radiodramma Private Dreams, Public Nightmares di Frederic Bradnum, di cui la Oram aveva curato con Desmond Briscoe gli effetti sonori nel 1957 alla BBC, la frase “darkness and the pulse of my life blood intertwined” del dramma fosse accompagnata da un effetto simile a quello prestato qui a Persefone, un battito imitativo del battito cardiaco e una scala musicale discendente. Quanto al mito di Persefone, è fra quelli preferiti dalla compositrice. Nel volume An Individual Note of Music, Sounds and Electronics (Londra 1972, repr. 2016: ma io ho consultato l’edizione originale, reperibile in internet), che raccoglie gli scritti teorici e la filosofia della compositrice, il mito di Persefone chiude le pagine del libro. Le ragioni della sua citazione sono abbastanza discutibili, poiché alla compositrice interessa soprattutto il nome del re Celeo, che offrì ospitalità a Demetra in cerca di Persefone e officiò i riti di Eleusi, per l’affinità fonica che quel nome ha con il principio fondante della musica, chiamato dalla Oram CELE, e che, in contrapposizione con il suo opposto ELEC, a dire della compositrice regola e controlla gli impulsi della vita. Molto di più non ho capito, e forse non vale la pena capire. Resta infatti la composizione, assai breve e interessante; e resta, una volta di più, la traccia, pur discutibile, della cultura classica sulla musica contemporanea. A p. 125 del volume, fra una citazione di Orazio (ars 311) e una di Francis Bacon (New Atlantis, del 1624), la Oram rievoca brevemente il mito, sottolineandone il valore di rinascita e conciliazione degli opposti: grazie al ritorno sulla terra di Persefone, propiziato dalla saggezza e dalla cordialità di Celeo, “the essence of life, in all its richness, returned”. Ma tanta felicità non era possibile senza il passaggio, angosciato, attraverso il dolore della perdita e della morte. Che è quanto la Oram credo abbia voluto rappresentare qui.

     

    Alla bibliografia indicata finora aggiungerei ancora il volume di Louis Niebur, Special Sound. The Creation and Legacy of the BBC Radiophonic Workshop. Alla morte della Oram, nel 2003, è stato costituita una Fondazione a lei intitolata. che detiene diritti e materiali relativi alla compositrice, il cui sito (http://daphneoram.org/) è ricco di informazioni di vario genere. Infine, ricordo che la Oram curò gli effetti sonori elettronici del film The Innocents – in italiano, Suspence, 1961 – che il regista Jack Clayton trasse dal romanzo di Henry James, The Turn of the Screw. Io lo vidi bambino e, nonostante una meravigliosa Deborah Kerr che vi recitava nel ruolo dell’Istitutrice, mi spaventai al punto di non averlo voluto rivedere mai più. James naturalmente ci faceva la sua parte. Ma anche la colonna sonora, a mio ricordo, era piuttosto agghiacciante…

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Quel che resta d’Orfeo

    Quel che resta d’Orfeo

    I miti antichi, si sa, sono duri a morire! Per questo il teatro contemporaneo continua a fare ricorso ad essi, come a una miniera inesauribile di storie sempre vere e sempre riattualizzabili. E’ quello che è successo, quest’inizio di estate, con il mito di Orfeo, messo al centro di uno spettacolo multiculturale, “Orfeo & Majnun”, andato in scena al teatro de la Monnaie (Bruxelles) a fine giugno, e al festival di Aix-en-Provence nella prima metà di luglio. La recita inaugurale del festival è disponibile, per un po’ di tempo, in streaming su youtube, e gli interessati potranno prenderne visione diretta a questo indirizzo:

    https://www.youtube.com/watch?v=6TznzgH__Ps

    L’idea di base è quella di mettere assieme due storie fondanti, rispettivamente, l’Occidente e l’Oriente (arabo): il mito di Orfeo ed Euridice e quello di Qays e Layla. Qays è un poeta che ama, ricambiato, Layla. Ma la famiglia di lei si oppone alle nozze, e il padre della ragazza la fa sposare a un ricco possidente. Layla però muore, mentre Qays impazzisce e canta il proprio dolore alle greggi di cui era pastore, fino a venir meno per il desiderio inappagato. Il nome “majnun”, che egli assume prima di morire, significa appunto “folle”. Del mito di Orfeo non metto ovviamente conto di parlare in questa sede. Il testo dello spettacolo è stato affidato a due librettisti, Airan Berg e Martina Winkel, che sono responsabili anche della messa in scena. Tre i compositori che si sono divisi il compito della parte musicale: il palestinese Moneim Adwan, classe 1970; il belga Howard Moody (1964), già autore di opere per la Monnaie e Glyndebourne, e Dick van der Harst (1959). Ognuno dei tre porta la propria esperienza alla partitura, che alterna lingue (inglese, francese, arabo) e stili differenti (musica mediorientale; musica classica propriamente detta; echi di jazz). Le due vicende sono raccontate in parallelo; una voce narrante, l’attrice Sachli Gholamalizad, interviene più volte, in francese, mettendo ordine a una rappresentazione altrimenti non sempre facile da seguire. 

    Quale il giudizio da spettatore? La discussione è aperta. Diciamo che, ovviamente, l’operazione multiculturale ha un’importanza che trascende i valori scenici e musicali del testo, e questo si avverte, ad esempio, dalle recensioni “ufficiali” dello spettacolo, tutte improntate al “politically correct” che in simili occasioni si impone come indispensabile. A mio parere – confutabile da tutti quanti avranno la pazienza di vedere l’opera e lasciare il loro giudizio – c’è però qualcosa di non perfettamente compiuto. Lo spettacolo è elegante, ma poco vivo, tanto che, contro le regole, il semplice ascolto prevale sulla visione. Proiezioni, burattini, animali semoventi (si fa per dire), come in una Zauberflöte dei poveri, sono tutte cose già viste e fanno rimpiangere la ben diversa vivacità dei Muppets, che nella lontana serie Who’s Afraid of Opera duettavano con Joan Sutherland (1972). I cantanti “arabi”, chiamiamoli così, non sono cantanti lirici propriamente detti e l’impostazione della loro voce obbliga i teatri a un’amplificazione visibile e dichiarata; stesso discorso per gli interventi della narratrice. Di conseguenza, anche Orfeo ed Euridice, un baritono e un soprano di coloratura, vengono amplificati, e questo in uno spettacolo d’opera è sempre male. L’orchestra è professionale, il coro meno – a volte si sente. Bravissimo, viceversa, il giovane direttore libanese Bassem Akiki, che tiene le fila del tutto, e non deve essere stato facile. Ma cosa dire della parte musicale propriamente detta? Intanto, dopo un inizio molto interessante (nel quale viene rievocata la creazione del mondo, per poi portare l’attenzione sul ruolo delle donne, e da qui evocare le protagoniste femminili delle storie narrate, fino a un duetto che vede mescolare le voci delle due eroine, che si sono prima presentate ciascuna a suo modo), le vicende narrate sembrano più giustapporsi che fondersi, e così gli stili della musica. Se l’intenzione era quella di realizzare un’opera multiculturale, forse l’intento è riuscito solo in parte. Nei novanta minuti circa dello spettacolo si ha l’impressione di avere acquistato due opere al prezzo di una, più che un’opera che realmente fonda stili e modi differenti. A essere sinceri, lo spettatore “occidentale” ha anche l’impressione che la parte orientale prevalga sulla propria, sia nel minutaggio ad essa concesso (a un controllo preciso non credo che risulti vero), sia nello stile, perché Orfeo ed Euridice – chiamati di norma a un declamato non melodico – finiscono per suonare più “orientali” di quanto non dovrebbe essere. Fa effetto straniante, poi, la mescolanza delle lingue, specie nei duetti fra Orfeo ed Euridice, con lui che canta sempre in inglese, lei ora in inglese ora in francese. Infine: nonostante del mito di Orfeo siano rievocati tutti i passaggi fondamentali (presentazione e duetto d’amore fra i protagonisti; scena del matrimonio; morte di Euridice; discesa all’Ade di Orfeo, che incontra Caronte e Cerbero; restituzione di Euridice e aria della di lei felicità; fallimento della risalita alla superficie terrestre e seconda morte di Euridice), l’impressione complessiva è che l’azione si risolva non in fatti, ma in commenti; e che questi manchino di una particolare novità o profondità, al di là dell’ovvia celebrazione dell’universalità dell’amore e della compenetrazione di amore e sofferenza a qualunque cultura ci si trovi ad appartenere. 

    Detto questo, non mancano certo gli elementi di forte interesse. Darei una doppia risposta, da classicista e da curioso di musica. Nella prima veste segnalo l’importanza concessa al mito di Orfeo, ritenuto il più rappresentativo dell’Occidente. Il parallelo con la storia di Qays e Layla funziona solo in parte: nel mito greco non c’è opposizione delle famiglie (meglio sarebbero andati Piramo e Tisbe o Romeo e Giulietta); viceversa, nel mito arabo vengono meno la discesa all’Ade, la sfida con l’impossibile, il canto che deve convincere e superare la Morte, la seconda prova affrontata e persa da Orfeo, spinto a voltarsi dalla passione e dal desiderio, ossia da quelle stesse molle che lo avevano condotto a tentare l’impossibile e a cercare di recuperare Euridice dall’Ade. Perché la musica e la poesia possono sì soccorrere l’essere umano, ma solo fino a un certo punto; e ciò che è forza in Orfeo (e lo spinge a scendere nell’Oltretomba) è anche la sua debolezza, che lo porta a voltarsi anzi tempo e a perdere definitivamente la partita che sembrava già vinta. Rispetto a questo mito, la vicenda araba è più semplice e lineare, ma in fondo, absit iniuria, meno significativa: una coppia contrastata, costretta alla separazione, che non elabora il lutto e sceglie la morte. Accomuna invece le due vicende il ruolo consolatorio, ma non troppo, assunto dalla Natura: sia Orfeo che Qays trovano negli animali quella sympatheia che invano spererebbero dagli uomini o dalle divinità crudeli. Ciò forse spiega l’ampio risalto concesso nello spettacolo, fin da subito, ai pupazzi animati, anche quando francamente se ne sarebbe potuto fare a meno.

    Il curioso di musica segnala, invece, la presenza di alcuni momenti “forti” nella partitura. Qui ne scelgo quattro. Il primo, cui ho già fatto riferimento, è l’inizio dell’opera, nel quale si mescolano movenze sincopate che ricordano il jazz, o forse meglio certi musical di ambientazione newyorkese realizzati negli anni Cinquanta da Leonard Bernstein, dai quali sembra provenire la ritmica del pezzo:

     

    Interessante è anche la parte di Euridice, predominante su quella di Orfeo, nonostante il ruolo eponimo di quello. Di essa propongo la scena delle nozze con Orfeo, un duetto ricco di agilità, fra stile musical e qualche reminiscenza, forse, di Tempus est iocundum (Totus floreo) di Carl Orff:

     

    Ecco invece il funerale di Euridice, con la decisione di Orfeo di scendere nell’Ade (“I’ll follow you”), la discesa, il dialogo con Caronte, qui impersonato dall’attrice che parla e irride il dolore del personaggio, prima di lasciarsene conquistare:

     

    Infine, un certo rilievo ha il finale. Prima il coro commenta il destino degli amanti; interviene poi la narratrice a raccontare, facile consolazione, dell’esistenza del pianeta Eros, intorno al quale ruotano gli asteroidi Orpheus e Majnun. La gloria che i quattro giovani non hanno trovato in vita viene loro concessa dopo la morte; passerella finale di tutti i personaggi e coro esultante. Il pubblico può tornare a casa appagato e festoso.

     

    https://en.wikipedia.org/wiki/Layla_and_Majnun

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • La matrona di Efeso in musica

    La matrona di Efeso in musica

    Riprendiamo il bel post di Silvia Stucchi dedicato alla matrona di Efeso, per segnalare una poco nota versione musicale di quel testo. Si tratta dell’opera in un atto, su libretto di Isaac Bickerstaff, musicata da Charles Dibdin (1745-1814), prolifico compositore inglese, oggi piuttosto dimenticato anche dalle sue parti, o al più ricordato per la lunga partnership con il celebre attore David Garrick (1717-1779), considerato il sospitator del teatro shakesperiano, dopo il lungo oblio che lo aveva avvolto nel XVIII secolo. Dibdin a sua volta fu musicista, attore, commediografo, impresario teatrale, con quella variabilità di ruoli che è abbastanza tipica di fine Settecento. Il mitico teatro Drury Lane, nel West End londinese, vicino al Covent Garden, fu la sede principale delle sue gesta (il teatro esiste ancora, anche se naturalmente è stato più volte rifatto: dedicato soprattutto al musical, è oggi proprietà di Andrew Lloyd Webber). The Ephesian Matron or The Widow’s Tears, il testo che ci interessa, ebbe però la sua prima rappresentazione, nel 1769, nei vicini Ranelagh Gardens, come parte di una festa teatrale estiva. Dibdin, autore di decine di composizioni, tornerà a un argomento classico solo nel 1781, dodici anni più tardi, riadattando per le scene del Covent Garden l’Amphytrion di Dryden, ovvio derivato di quello di Plauto.

    Il testo si può definire un’opera vaudeville, usando il nome di un genere ben attestato in Francia (e in realtà, di pochi anni più tardo). Si tratta di composizioni brevi, che si svolgono tutte nell’arco di un’ora circa ciascuna; a volte interamente cantate (senza, cioè, parti dialogate), a volte con un’alternanza di dialogo e musica; di carattere comico-satirico; che spesso riusano musica già nota, volutamente piegata ad altro scopo (non è questo il caso di Dibdin, però). Nel teatro inglese il massimo capolavoro del genere è, credo, Rosina (1782, ma composta circa dieci anni prima) di William Shield (1748-1829), compositore perfettamente coevo di Dibdin. Di quell’opera, riporto le due arie più celebri (When William, at eve, “Quando Guglielmo alla sera”; Light as thisledown, “Leggero come cardo”). Sono due registrazioni antiche, ma ancora bellissime:

    When William, at eve, meets me down at the stile,
    how sweet is the nightingale’s song!
    Of the day I forget all the labour and toil,
    whilst the moon plays you branches among.
    By her beams, without blushing, I hear him complain,
    and believe every word of his song:
    you know not how sweet ’tis to love the dear swain,
    whilst the moon plays you branches among.

    Light as thistledown moving which floats on the air,
    sweet gratitude’s debt to this cottage I bear:
    of autumn’s rich store I bring home my part,
    the weight on my head, but gay joy in my heart.

    Come si sente, brillantezza orchestrale e vocale, uso abbondante degli abbellimenti e degli ornamenti, situazioni comiche ma non mai volgari, trattate con un certo gusto della leggerezza, dove il dramma non sorpassa mai la misura del buon senso, ripetizioni ad libitum delle singole strofe, con continue variazioni, sono le caratteristiche principali di queste composizioni – caratteristiche che ritroviamo tutte anche nella nostra The Ephesian Matron. Si tratta, di fatto, di una composizione fatta di soli undici numeri musicali, così suddivisi: 01 – ouverture; 02 – Trio matrona/padre/ancella; 03 – Aria del padre; 04 – Aria della matrona; 05 – Aria dell’ancella; 06 – Aria del soldato (qui, un centurione); 07 – Duetto centurione-matrona; 08 – Seconda Aria della matrona; 09 – Seconda Aria del soldato; 10 – Seconda Aria dell’ancella; 11 – Vaudeville finale (alla presenza di tutti i personaggi). Rispetto a Petronio, la trama risulta leggermente modificata e semplificata. L’azione si svolge tutta nella tomba del marito della matrona, scena unica e fissa. La giovane vedova dichiara che non può vivere senza il suo sposo, e perciò rimarrà lì, a lasciarsi consumare dal dolore, senza mangiare e senza bere. L’ancella e il padre, nel trio iniziale, reagiscono violentemente a questa sua decisione (nr. 02). Nella propria aria, il padre cerca di calmare la figlia e di persuaderla a desistere, poi ci rinuncia e la lascia con l’ancella (nr. 03); rimasta sola, la giovane donna ribadisce la propria decisione, in un’aria di follia che fa il verso alle tante scene di pazzia che attraversano un po’ tutta la storia del melodramma (nr. 04). L’ancella commenta, celebrando la forza d’Amore (nr. 05). Appare il centurione, di guardia alle forche pubbliche, attirato dalla luce che filtra dalla tomba. Nella sua aria si presenta, e cerca di convincere la donna a lasciar perdere il proprio dolore (nr. 06). La giovane è subito colpita dalle parole (e dall’avvenenza) del giovane – Bickerstaff e Dibdin qui fanno la parodia degli innamoramenti violenti tipici del mondo operistico, scostandosi da Petronio. Comunque, la donna non vuole cedere troppo presto – è questo il succo del passionale duetto nr. 07. Convinto di avere ormai salvato l’amata, il centurione si allontana promettendo di tornare appena possibile; la matrona, rimasta sola, in un’aria delicata e nobile, commenta la gioia del nuovo sentimento che sente nascere in sé (nr. 08). Il centurione torna prima del previsto, e in un’aria di stile agitato annuncia la scomparsa del cadavere cui avrebbe dovuto fare la guardia (nr. 09). La matrona offre al suo posto il marito, mentre l’ancella commenta sottolineando l’abilità e l’ingegno delle donne, che a differenza degli uomini non si perdono mai d’animo (nr. 10). Durante lo spostamento del cadavere, torna il padre della matrona, che sorprende il centurione e l’accusa di saccheggiare la tomba. Il centurione è difeso dalle due donne, e il padre ne approfitta per concordare le nozze fra la figlia e il soldato. Nel vaudeville finale, i quattro personaggi celebrano la propria felicità e l’astuzia femminile, senza del quale nulla accadrebbe al mondo.

    L’opera di Dibdin ebbe discreto successo alla fine del Settecento; è stata dimenticata per tutto l’Ottocento; ha avuto una ripresa radiofonica (alla BBC) all’inizio del Novecento; ha conosciuto un’incisione ufficiale nel 1992; e un paio di esecuzioni amatoriali, nelle università anglosassoni. Sul sito della casa discografica Hyperion è disponibile nella sua interezza, a pagamento (https://www.hyperion-records.co.uk/dc.asp?dc=D_CDA66608). Questo mi impedisce di postare, come avrei voluto, tutti gli undici brani, e anche il testo delle parti cantate. Dell’opera riporto quindi solo tre spezzoni, interpretandoli come invito all’ascolto dell’intera composizione, dalle nostre parti sconosciuta perfino di nome. Il primo è, doverosamente, l’ouverture, secondo l’uso del tempo rigorosamente tripartita e fatta in sostanza per mettere in evidenza le parti solistiche dell’orchestra, senza riferimento all’opera che segue.

     

    Faccio seguire l’aria di follia della matrona, nr. 04, che si apre con le parole “And while, grown frantic with my woes” (“E intanto, divenuta pazza con il mio dolore”), con il successivo recitativo matrona/ancella:

     

    Infine, il duetto dei due amanti, che hanno ceduto ben presto entrambi alle lusinghe d’amore (nr. 07 “By Venus, mother of desire” – “In nome di Venere, madre del desiderio amoroso”).

  • Il canto più bello

    Il canto più bello

    Tra poco meno di un mese, il 24 febbraio, andrà in scena al teatro alla Scala di Milano l’opera Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck (1714-1787), nell’allestimento, datato settembre 2015, proveniente dalla Royal Opera House, Covent Garden, di Londra, e firmato da John Fulljames per la regia e Hofesh Shechter per le coreografie. Leggermente diverso il cast rispetto allo spettacolo londinese di due anni fa, a suo tempo ampiamente pubblicizzato dalla diretta streaming ancora recuperabile in molti canali musicali. Lo spettacolo fu molto applaudito anche per alcune novità tecniche, che bisogna vedere come saranno risolte alla Scala: la presenza, ad esempio, abbastanza ingombrante di ballerini sulla scena; oppure, la disposizione dell’orchestra sul palcoscenico, e non nel golfo mistico, così da non stare davanti ai cantanti e rendere l’idea che la musica è lo strumento con il quale Orfeo cerca di vincere le inesorabili divinità dell’Ade.

    Proprio su questo punto vorrei incentrare il mio post. Il mito di Orfeo ha, com’è noto, radici antichissime in Grecia, e connessioni religiose che non intendo qui esaminare. Ciò non toglie infatti che le due più ampie narrazioni del mito siano considerabili quelle contenute nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio. Questi due testi vorrei mettere a raffronto, su un dettaglio specifico e particolare. Procediamo con ordine. Secondo tradizione, Orfeo perde la moglie, Euridice, morsa da una vipera o un serpente. Disperato, lui, che è un grande cantore capace di commuovere i sassi (letteralmente, e non solo come modo di dire) o di piegare a sé le piante, decide di recuperare l’amata consorte scendendo nell’Ade e cercando di impietosire le divinità che vi regnano. In un primo momento l’impresa sembrerebbe riuscire. Euridice gli viene restituita, ma alla condizione che durante tutto il tragitto di ritorno verso la superficie terrestre lui non le rivolga mai lo sguardo. Così non avviene, ed Euridice muore una seconda volta, e definitivamente. Orfeo, disperato, la piange rifiutando ogni contatto con altre donne (in Virgilio; accettando solo quello con altri uomini, in Ovidio), finché le donne (o le Baccanti) della Tracia, la sua regione di provenienza, esasperate lo assalgono e lo fanno a pezzi.

    Rappresentare la scena del canto di Orfeo, nell’epos come a teatro, comporta una sfida non da poco: Orfeo deve poter essere l’autore di una musica tanto bella e commovente da piegare ai propri desideri perfino le divinità dell’Oltretomba. L’opera lirica ha sentito subito il valore di una simile sfida: che si faccia iniziare la storia del genere dalla Euridice di Jacopo Peri (Firenze 1600) o da quella di Giulio Caccini (Firenze 1602, entrambe sul libretto di Ottavio Rinuccini), oppure dall’Orfeo di Claudio Monteverdi (Mantova 1607, su libretto di Alessandro Striggio; questo è, fra i tre titoli, il solo che ancora sia rimasto in repertorio) – questione che qui lascerò irrisolta – è evidente infatti come il mito abbia affascinato librettisti e compositori fin dalle primissime origini. Ed era ovvio che fosse così. Fra l’Orfeo di Monteverdi e quello di Gluck (I edizione, Vienna 1762, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi; II edizione, Parigi 1774, in francese, su libretto di Pierre Louis Moline, in teoria la versione che si dovrebbe sentire alla Scala. Va detto però che l’opera subì vari rimaneggiamenti dopo la morte di Gluck, nel 1859 da parte di Hector Berlioz che ne fece un veicolo di successo per il contralto Pauline Viardot; nel 1889 dall’editore Giulio Ricordi, che stampò un’edizione che mescolava pezzi delle diverse versioni precedenti – ed è questo fra l’altro l’Orfeo che più spesso si è sentito nei teatri e nelle sale di incisione, benché fra tutti sia certamente il più fasullo) – fra i due Orfei, dicevo, corrono poco più di 150 anni ma almeno un centinaio di rifacimenti diversi. Non è però nemmeno questa la storia che vorrei seguire.

    Quello che mi interessa, come dicevo, è la sfida di rappresentare un canto che commuova gli dèi della morte. Virgilio risolse la cosa da par suo. Ecco i versi che si riferiscono alla scena che ci interessa, subito dopo che il narratore (non Virgilio, ma l’indovino Proteo) ci ha ricordato l’immenso dolore provato dal celebre cantore, cui si riferisce il participio ingressus nella terza riga del testo riportato (= georg. IV 467-486):

    Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
    et caligantem nigra formidine lucum
    ingressus Manesque adiit regemque tremendum
    nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
    At cantu commotae Erebi de sedibus imis
    umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
    quam multa in foliis avium se milia condunt
    vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
    matres atque viri defunctaque corpora vita
    magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
    impositique rogis iuvenes ante ora parentum,
    quos circum limus niger et deformis harundo
    Cocyti tardaque palus inamabilis unda
    alligat et noviens Styx interfusa coercet.
    Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
    Tartara caeruleosque implexae crinibus angues
    Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
    atque Ixionii vento rota constitit orbis.
    Iamque pedem referens casus evaserat omnes…

    In pratica, Virgilio sceglie l’ellissi. Orfeo entra nell’Aldilà attraverso le fauci del Tenaro, porta dell’Oltretomba; raggiunge le profondità della terra e le divinità che vi risiedono (Mani; ombre dei defunti; Plutone, il re che non conosce umana pietà) e li commuove tutti quanti. Introdotto da un At avversativo, noi vediamo l’effetto del canto, ma non udiamo il canto. Tutte le anime che popolano questo regno, esseri umani, mostri implacabili (le Furie e Cerbero), perfino gli inanimati strumenti di tortura che affollano il Tartaro (come la ruota su cui viene suppliziato Issione, colpevole di empietà) si addolciscono e si commuovono. Orfeo può così riportare indietro i propri passi, superando ogni ostacolo, salvo – come ci dicono i versi immediatamente successivi a questi – quello costituito da se stesso, la propria incapacità di obbedire fino in fondo all’imposizione divina. In tutto questo, noi non udiamo mai la sua voce. Da grande poeta qual era, Virgilio ha capito che la sfida era persa in partenza, e ha aggirato l’ostacolo con grande dignità e finezza, attraverso un escamotage che dà comunque l’idea di quello che è avvenuto, senza rischiare di scadere nel patetico, nel ridicolo, nell’insufficiente.

    Eccoci ora ad Ovidio. L’imitazione del passo virgiliano in lui è evidente, e anche la gara con il modello, come si riconosce nell’incipit del racconto, che fa cenno alla rapida discesa agli Inferi di Orfeo, e nella parte immediatamente successiva al canto vero e proprio, che descrive, esattamente come in Virgilio ma in meno versi che in lui, e con più preciso e pedante catalogo, gli effetti del canto (met. X 40-47):

    Talia dicentem nervosque ad verba moventem               
    exsangues flebant animae; nec Tantalus undam
    captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,
    nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt
    Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.
    Tunc primum lacrimis victarum carmine fama est               
    Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx
    sustinet oranti nec, qui regit ima, negare.

    Come si vede, qui è dato poco risalto alle anime dei comuni defunti (che non hanno diritto di voto nella faccenda, e quindi sono messe da parte con un’espressione rapida e generica). Prima delle Furie/Eumenidi già presenti in Virgilio, sono elencati con maggiore precisione i tormenti, ora sospesi, del Tartaro: non il solo Issione, ma anche Tantalo, le Danaidi, Tizio il cui nome si cela nell’espressione nec carpsere iecur volucres, quasi un indovinello rivolto al lettore, e infine Sisifo. Gli dèi dell’Oltretomba sono alla fine dell’elenco, in bella evidenza, perché è a loro che spetta la decisione ultima, con tanto di belluria stilistica di separare la moglie (Proserpina) dal marito (Plutone), ad entrambi assegnando però una pari azione e una pari commozione. Ecco invece che cosa succedeva all’inizio dell’episodio (met. X 11-39; il relativo iniziale si riferisce, ovviamente, a Euridice):

    Quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras
    deflevit vates, ne non temptaret et umbras,
    ad Styga Taenaria est ausus descendere porta
    perque leves populos simulacraque functa sepulcro
    Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem
    umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis
    sic ait: “O positi sub terra numina mundi,
    in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,
    si licet et falsi positis ambagibus oris
    vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem
    Tartara, descendi, nec uti villosa colubris
    terna Medusaei vincirem guttura monstri:
    causa viae est coniunx, in quam calcata venenum
    vipera diffudit crescentesque abstulit annos.
    Posse pati volui nec me temptasse negabo:
    vicit Amor. Supera deus hic bene notus in ora est;
    an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,
    famaque si veteris non est mentita rapinae,
    vos quoque iunxit Amor. Per ego haec loca plena timoris,
    per Chaos hoc ingens vastique silentia regni,
    Eurydices, oro, properata retexite fata.
    Omnia debemur vobis, paulumque morati
    serius aut citius sedem properamus ad unam.
    Tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
    humani generis longissima regna tenetis.
    haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,
    iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;
    quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est
    nolle redire mihi: leto gaudete duorum”.

    Ovidio non rinuncia a mettere in bocca al suo Orfeo un canto; e questo canto è costruito secondo tutte le regole del genere “richiesta sacrale”: giustificazione iniziale della propria ragione di presentarsi al cospetto dei numi (non vengo per compiere un atto illegale di rapina dei vostri beni; vengo alla ricerca della mia consorte, spinto a ciò da Amore); celebrazione della divinità che Orfeo ritiene sua guida e protezione, ricordando quanto essa abbia interferito anche nella vita dei suoi ascoltatori (Proserpina e Plutone); richiesta concreta della restituzione della consorte, accompagnata dalla celebrazione sotto forma di giuramento della potenza dei luoghi inferi presso i quali il cantore si trova (Eduard Norden, in un bel libro del 1913, Agnostos theos, tradotto in italiano nel 2002 dalla Morcelliana di Brescia con titolo Dio Ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, ha ben studiato le varie parti costitutive di questa forma di richiesta); infine, celebrazione dell’autorità e della potenza di chi gli deve concedere il favore implorato, e cioè gli dèi inferi, attraverso il tema omnia debemur vobis, “tutti – ma il neutro omnia rinforza l’idea, includendo persone e cose assieme, e anzi parificandole fra loro – siamo soggetti a voi”, “vi siamo prima o poi dovuti”. Una captatio benevolentiae che si rinforza subito dopo nella formula huc tendimus omnes, che serve a sua volta a titillare l’orgoglio dei sovrani che ascoltano. Orfeo chiude il canto con una minaccia di suicidio: se gli sarà negata Euridice, farà in modo di restare ugualmente al fianco di lei, senza più abbandonare i luoghi in cui si trova. Di fronte a questa possibilità, gli dèi, come sappiamo, si commuovono e cedono. La forma, il perfetto rispetto della forma e delle forme (burocratiche) della preghiera, qui si fanno elementi salvifici, nonostante il contenuto non suoni così sublime come ci saremmo potuti aspettare, data la situazione eccezionale ed il cantore, a sua volta eccezionale, che il mito metteva in gioco. Quanto però conti, specie nei contesti sacrali, il rispetto della forma per gli antichi non è argomento che posso sviluppare qui, ma neanche che abbia bisogno di molte parole per essere richiamato alla memoria dei lettori.

    Vengo ora alle note musicali. Delle molte intonazioni del mito (così si chiamano le messe in musica di un testo letterario), ne scelgo due, che hanno in comune il libretto, ossia quel testo di Ranieri de’ Calzabigi musicato nel 1762 da Gluck e rimesso in musica qualche anno più tardi, nel 1776, a Londra, da Ferdinando Bertoni (1725-1813). Bertoni oggi è ricordato quasi esclusivamente per quest’opera, e non tanto per il valore della musica in sé, quanto per il suo ruolo di cartina al tornasole del testo di Gluck e perché illustri cantanti (una fra tutte, Marilyn Horne) amarono mescolare i due testi, trovando in Bertoni occasioni musicali magari meno felici, ma più appaganti al proprio narcisismo virtuosistico (con il che, naturalmente, “ridateci la Horne!”)

    Ecco allora Gluck. Chiaro che la via dell’ellissi non poteva essere praticata a teatro, per il quale questa scena è il nocciolo dell’intera vicenda. Franz Joseph Haydn, che pochi anni più tardi, nel 1791, scrisse a sua volta un’opera sul tema, peraltro mai rappresentata fino al 1951, scelse sì la via dell’ellissi, ma per una sorta di compensazione dovette poi complicare la trama del resto dell’opera, con inutili divagazioni narrative che soddisfacessero in qualche misura lo spettatore. Non potendo percorrere quella dell’ellissi, Gluck sceglie allora la via della semplicità. Partiamo dal testo che sentiremo intonato. Siamo all’inizio del II atto. Alla fine del precedente, Orfeo ha preso la decisione di scendere nell’Ade e ora il punto di vista si capovolge e ci troviamo trasportati nell’Aldilà:

    Orrida e cavernosa al di là del fiume Cocito, offuscata poi in lontananza da un tenebroso fumo illuminato a fiamme che ingombrano tutta quella orribile abitazione. Appena aperta la scena, al suono di orribile sinfonia comincia il ballo di Furie e Spettri, che viene interrotto dalle armonie della lira d’Orfeo, il quale comparendo poi sulla scena, tutta quella turba infernale intuona il seguente Coro:
    FURIE Chi mai dell’Erebo
    fra le caligini,
    sull’orme d’Ercole
    e di Piritoo
    conduce il piè?
    D’orror l’ingombrino
    le fiere Eumenidi,
    e lo spaventino
    gli urli di Cerbero,
    se un dio non è.
    Ripigliano le Furie il ballo girando intorno ad Orfeo per spaventarlo.
    ORFEO Deh! placatevi con me,
    furie, larve, ombre sdegnose.
    FURIE  No.
    ORFEO Vi renda almen pietose
    il mio barbaro dolor.
    FURIE (raddolcito e con espressione di qualche compatimento)
    Misero giovine!
    che vuoi, che mediti?
    Altro non abita
    che lutto e gemito
    in queste orribili
    soglie funeste.
    ORFEO Mille pene, ombre moleste,
    come voi sopporto anch’io;
    ho con me l’inferno mio,
    me lo sento in mezzo al cor.
    FURIE (con maggior dolcezza)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor.
    ORFEO Men tiranne, ah! voi sareste
    al mio pianto, al mio lamento,
    se provaste un sol momento
    cosa sia languir d’amor.
    FURIE (sempre più raddolcito)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor!
    Le porte stridano
    su’ neri cardini
    e il passo lascino
    sicuro e libero
    al vincitor.
    Cominciano a ritirarsi le Furie ed i Mostri e, dileguandosi per entro le scene, ripetono l’ultima strofa di coro che, continuando sempre frattanto che si allontanano, finisce finalmente in un confuso mormorio. Sparite le Furie, sgombrati i Mostri, Orfeo s’avanza nell’inferno.

    In  corsivo ho messo le didascalie del librettista, in grassetto l’indicazione dei personaggi parlanti, in nero le battute. Gluck risolve la scena dando a Orfeo un canto ritmato e identico su più strofe, ma che di fatto si limita a due soli, semplicissimi versi (sbaglia qui, secondo me, l’interprete ad eccedere in abbellimenti non scritti intorno all’espressione il mio barbaro dolor). L’arpa si sostituisce alla cetra del mito e scandisce il ritmo delle parole, consentendo di riempire gli spazi ampi di un teatro. Le Furie si presentano con una ridda disordinata di suoni, messa in movimento dal primo apparire della cetra di Orfeo, come se quella turbasse lo stare precedente. Una volta in movimento, esse rispondono all’emozione provocata dal cantore prima a monosillabi (“No!”), poi con frasi più elaborate, che aprono una sorta di compassionevole dialogo, con un tono che tende a farsi sempre più dolce e vicino al cedimento (il coro qui è molto bravo, e invito ad ascoltare i diversi “No!” pronunciati con enfasi decrescente ed emozione via via maggiore). Nella scena successiva, che non sentiremo, Orfeo arriva nell’atmosfera rarefatta dei Campi Elisi fra gli Spiriti Beati, dove incontra Euridice.

    Prima di passare all’ascolto, ancora una notazione pratica. A Vienna nel 1762 il personaggio di Orfeo venne interpretato dal celebre cantore evirato (come si usava al tempo) Gaetano Gaudagni. Oggi, ovviamente, non disponiamo più di simili voci che, per la mescolanza di ormoni maschili e femminili (questi ultimi rafforzati dall’operazione subita di solito in tenerissima età), erano ritenute particolarmente adatte ad esprimere l’adolescenza in musica, un miscuglio di toni maschili e femminili non ancora ben organizzati (ma le voci dei castrati erano educate e melodiose, a detta di tutti i testimoni del tempo), un po’ come delle voci bianche, prive però di quella tendenza ad emettere suoni fissi e non vibrati che è propria delle voci bianche. Impossibile riprodurre quel canto: da Berlioz in poi le voci femminili si sono perciò appropriate di questo repertorio. Negli ultimi anni, e anche nella registrazione che qui allego, resa di pubblico dominio da Radio France, che l’ha offerta in open source, si sentono voci maschili “costruite” ad arte per suonare femminili, ma che per quanto brave sono probabilmente solo una pallida eco di quello che doveva essere l’effetto originario. Alla Scala sentiremo la versione parigina dell’opera, scritta per tenore acuto (haute-contre) e tradotta in francese, con aggiunte di versi qui inesistenti, di balli per le Furie, di abbellimenti canori di vario genere. Ecco intanto la registrazione:

    Chiudo infine con Bertoni. Testo e struttura complessiva della scena rimangono identici, anche se la forza penetrativa della musica, proprio perché è più elaborata, finisce per risultare complessivamente minore. Ma quello su cui vorrei portare l’attenzione è un dettaglio. Il dialogo che Gluck aveva costruito fra Orfeo e il coro delle Furie qui diventa una sorta di grande rondò (rondeau) di Orfeo, con interventi sporadici del coro, come appunto succede spesso nella tradizione dei rondò musicali. Diciamo che la scena, che in Gluck si segnalava per la sua semplicità persuasiva, viene così normalizzata secondo le regole dell’opera di fine Settecento, un dato evidente soprattutto nella seconda parte dell’ascolto che propongo. Usando un termine della letteratura, è come se Gluck venisse “grammaticalizzato” o, ancora meglio, come se fosse normalizzato attraverso forme e strutture retoriche più usuali e definite, che rispettano in pieno le regole del genere e tranquillizzano quindi l’ascoltatore. Evidente, a mio parere, il parallelo con quanto avevamo visto in poesia. Ecco comunque il brano di Bertoni:

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • La Natura in similitudine

    La Natura in similitudine

    La Natura è un campo privilegiato per le similitudini; le fa parziale concorrenza solo il mondo quotidiano. L’una e l’altro offrono infatti qualcosa di noto che viene usato per spiegare qualcosa di ignoto, o di insolito, o comunque di presente solo nella finzione narrativa, basandosi sulla riconoscibilità dei comportamenti evocati nella similitudine. Dire similitudine, però, può significare tante cose diverse tra loro: quando di un personaggio si dice che si muove serpens, oppure inrepens, già si dice, implicitamente, che è come un serpente, l’animale al quale si adattano comunemente i due verbi; allo stesso modo, se dei ragazzi garriunt si intende che sono dei rondinotti, e così via. In questo post citerò solo similitudini esplicite, quelle cioè con tutti i “modalizzatori” ben evidenti (“modalizzatori” chiama Genette le formule che introducono una similitudine, i “come…così, quale…così, allo stesso modo che…” ecc.). Le similitudini, ovviamente, sono state molto studiate, sia come figure in sé, sia nell’uso che ogni singolo poeta ne ha fatto, e questo fin dall’antichità. Qui vorrei però considerare un aspetto specifico delle similitudini epiche, cioè il loro appartenere a una tradizione piuttosto coesa, entro la quale ogni nuovo poeta ha quindi l’obbligo di inserirsi, ma la difficoltà di trovare una propria individualità e novità.

    Prima qualche dato a carattere generale. Le similitudini, come s’è detto, si fondano su un accostamento che permette di mettere assieme, attraverso un elemento comune, due oggetti che non avrebbero di per sé nessun rapporto reciproco. L’elemento da cui si parte, quello di cui si vuole mettere in evidenza qualche qualità specifica attraverso l’accostamento a qualcos’altro di più noto al lettore, si chiama di solito comparandum (o primum comparandum); l’elemento che viene associato è il comparatum o secundum comparatum. Il legame che si instaura fra i due (e che può rimanere implicito) è il tertium comparationis. Altri usano altri nomi, di poco differenti, ma non è quello che importa. Quello che vorrei sottolineare è che la Natura offre, per le ragioni indicate prima, molti secunda comparata; ogni essere/fenomeno di Natura può svolgere questa funzione in virtù di una caratteristica che appare sua propria e specifica, oltre che immutabile e ripetuta ogni qualvolta si ripresentino le medesime circostanze. Questa caratteristica costituisce il tertium comparationis: il leone, per intenderci, sarà sempre feroce, il toro combattivo, il cinghiale selvaggio, l’aquila predatrice ecc. Quello che varia, normalmente, è il primum comparandum, offerto dalla trama dei diversi racconti.

    Nella tradizione epica, come ho già ricordato, si stabilisce abbastanza presto, diciamo a partire sin dall’Iliade, una serie di possibili similitudini e di termini di comparazione che vengono a costituire una tradizione abbastanza fissa. Prima comparanda sono di norma i guerrieri in lotta; secunda comparata dei fenomeni a carattere selvaggio (ad esempio il fuoco, in Iliade II 456-483; ma poi nembi, tempeste, venti, fiumi e torrenti in piena ecc.) e/o animali particolarmente fieri e feroci (i tre preferiti: leone, toro e cinghiale, seguiti a distanza dal lupo e a più lunga distanza dall’orso e da volatili vari). Il tertium comparationis è, di volta in volta, la forza, la ferocia, l’audacia, l’indomabilità nella lotta e così via. Detto questo, vorrei concentrarmi ora su alcuni meccanismi messi in atto dai poeti per ottenere un effetto di novità, pur dentro questo quadro unitario, creato già dalla tradizione omerica. Ne elenco in tutto nove, anche se sicuramente ne esistono altri, già nello stesso Omero. Ciò che vorrei fare non è però una storia delle similitudini né un loro repertorio, ma indagare alcune possibilità da esse offerte, da utilizzare poi in classe come cartina al tornasole per qualsiasi similitudine a base naturalistica, e non solo per quelle presenti nei classici.

    Primo procedimento. La similitudine multipla. Un  medesimo elemento (primum comparandum) viene paragonato non a un solo secundum comparatum, ma a una serie di termini, fra loro omogenei quanto a tertium comparationis. Il procedimento è in atto già in Omero, e proprio a partire dalla similitudine ricordata prima, in Iliade II 456ss., allorché l’esercito acheo è fuoco, ma anche vari volatili [oche, cigni e gru], sciame di api e pastore di guardia al gregge.

    Secondo procedimento. Lo sviluppo autonomo del comparatum a discapito del comparandum. Ossia, l’immagine usata come secondo termine di paragone cresce fino a diventare un bozzetto che perde di vista il rapporto con il primo elemento della similitudine, si fa situazione a sé stante, oltrepassa le necessità della messa in evidenza del tertium comparationis che dovrebbe spiegare la situazione di partenza. La similitudine si fa così una sorta di racconto nel racconto, divagante rispetto allla narrazione principale. Stazio, Tebaide VII 390-397, paragona Eteocle che dispone i sette capi del suo esercito presso le sette porte di Tebe (una scena di sapore eschileo) a un pastore che governa il suo gregge, lo divide, lo segue, si prende cura dei piccoli agnellini, protegge le giovani mamme che hanno appena partorito e le pecore che invece sono ancora gravide ecc. Dunque, da una situazione iniziale in cui comparandum e comparatum sono assimilabili, si passa a una sorta di compendio delle azioni bucoliche; da Eschilo si arriva a Teocrito e Virgilio.

    Terzo procedimento. Un tertium comparationis insolito. Le immagini prescelte disattendono le aspettative sull’animale/sul fenomeno di Natura utilizzato, o mettono in rilievo l’animale/il fenomeno di Natura in un momento inatteso di un suo pur naturale comportamento. Ad esempio, se il leone di norma appare combattivo, crudele, feroce, in queste similitudini si sottolinea invece la sua attenzione amorosa alla prole e la ferocia, quand’anche esibita, viene giustificata dalla difesa dei cuccioli, non dall’aggressività di Natura. E’ il caso, ad esempio, di Stazio X 414-419. L’arcade Dimante, sorpreso da una ronda tebana fuori dall’accampamento argivo mentre cerca di riportarvi il cadavere del suo signore, il giovane Partenopeo, non sa bene se combattere o implorare pietà dai nemici ed è ut lea, quam saevo fetam pressere cubili / venantes Numidae, natos erecta superstat, / mente sub incerta torvum ac miserabile frendens; / illa quidem turbare globos et frangere morsu / tela queat, sed prolis amor crudelia vincit / pectora, et a media catulos circumspicit ira. Sempre in Stazio, XI 739-749, Edipo per cui Antigone supplica Creonte è come un vecchio leone, pigro e disarmato dall’età. In Claudiano, Bellum Gothicum 342-349, Stilicone che valica le Alpi in inverno per raggiungere le armate che gli sono necessarie a proteggere Milano (cfr. “Una gita per l’estate. II”) è come un leone affamato, messosi in cerca di cibo in mezzo alla neve per amore della sua prole: [Stilicho] scandit inaccessos brumali sidere montes / nil hiemis caelive memor. Sic ille relinquens / ieiunos antro catulos inmanior exit / hiberna sub nocte leo tacitusque per altas / incedit furiale nives; stant colla pruinis / aspera; flaventes adstringit stiria saetas; / nec meminit leti nimbosve aut frigora curat, / dum natis alimenta parat…

    Quarto procedimento. Un comparandum inatteso o improprio. Il quale, essendo tale, dà origine a similitudini del tutto normali come forma e struttura, ma con animali o fenomeni insoliti, visto il carattere insolito del soggetto che devono illustrare. Claudiano nel 399 d.C. scrive un’invettiva contro il console della parte orientale dell’impero, l’eunuco Eutropio. Eutropio era un eunuco, quindi un ex-schiavo che aveva fatto carriera, divenendo Gran Ciambellano di corte (praepositus sacri cubiculi). Comunque, un ex-schiavo e un eunuco consoli non si erano mai visti: da qui, oltre che da ragioni politiche, l’opposizione dell’Occidente e l’invettiva di Claudiano. Il poeta raffigura perciò il suo personaggio attraverso similitudini con animali di tradizione non epica: una scimmia, che vuole essere ciò che non è e non può essere; uno struzzo, che si segnala per viltà e stupidità; una cagna invecchiata, della quale, ahimè, ci si sbarazza senza troppi rimorsi; una rondine morta in inverno ai piedi dell’albero in cui aveva invano cercato riparo (la rondine invernale è, dalla Rhetorica ad Herennium in poi, un simbolo di cosa assurda e fuori da ogni logica, un po’ come il nostro “asino che vola”). Con uguale procedimento, chi ha dato corda all’eunuco è un cavallo senza fantino o una balena arenatasi sulla spiaggia dopo aver perso la guida del musculus (un’immagine, quest’ultima, che viene da Oppiano: ma che in Oppiano, autore di Halieutica, è un dato scientifico, mentre qui diviene una costruzione retorica, ad indicare la condizione di “fuori di testa” dei sostenitori di Eutropio).

    Quinto procedimento. Un comparatum ricercato. In questo caso, le similitudini non mettono infatti assieme una cosa ignota spiegandola con una nota, come avviene di solito, ma fanno l’esatto contrario. La situazione più comune è quella del paragone di una figura umana con una figura divina. Nausicaa è come Artemide e le sue compagne sono le ninfe del suo seguito (Odissea, VI); Giasone si muove come Apollo (Apollonio Rodio, libro I); Didone ed Enea sono l’una e l’altra divinità, e proprio per questo appaiono simili fra loro, come se fossero divinità gemelle (risp. libro I e libro IV dell’Eneide). Poi ci sono gli animali esotici, difficilmente noti ai lettori, se non per via letteraria: tigri, elefanti, balene, l’orso di Pannonia (Lucano, VI). E ancora: luoghi geografici altrettanto esotici, che danno origine a fenomeni naturali che si realizzano solo lì, conosciuti magari anch’essi per tradizione letteraria e scientifica, ma difficilmente sperimentati di persona: l’Egitto, il Po, l’Etna con le sue eruzioni, cui Valerio Flacco, III 208, scrivendo dopo il 79 d.C., sostituisce significativamente il Vesuvio ecc. Infine, avvenimenti inconsueti, forse mai sperimentati di persona dai lettori: il sangue che sgorga dalla ferita di Piramo steso a terra moribondo, in Ovidio, Metamorfosi IV 212-124, è come l’acqua che zampilla da una tubatura forata (a quanti mai è capitato di avere/vedere le tubature forate?); sempre in Ovidio, Metamorfosi IX 659-665, Biblide che si consuma nel pianto è come resina che trasuda da una conifera o ghiaccio che si scioglie ai primi tepori del vento primaverile, ma anche come nafta che sgorga dalla terra (un fenomeno comune solo in Caldea)…

    Sesto procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni entro l’opera dell’autore. Le similitudini non sono cioè autonome, ma richiamano altre similitudini presenti nell’opera dello stesso poeta. Torno a citare Claudiano, l’autore in cui la cosa si percepisce meglio. Protagonista dell’opera di Claudiano, nominalmente suddivisa in panegirici, invettive e poemetti autonomi gli uni dagli altri, è Stilicone, del quale il poeta celebra a più riprese la grandezza. Protagonista ufficiale dell’opera claudianea è però, per ovvie ragioni d’etichetta, l’imperatore Onorio, seguito da quando era ancora bambino (394 d.C., a dieci anni non ancora compiuti) a quando è ormai un giovane nel pieno delle sue possibilità di comando (404), uomo già sposato e in teoria libero da qualsiasi tutela. Ora, è significativo che in Claudiano Onorio sia costruito come un personaggio che si evolve progressivamente; e i modi e i temi dei testi claudianei (che restano formalmente panegirici, invettive o poemetti storico-politici autonomi gli uni dagli all’altri) si adattano all’età di Onorio stesso, al suo farsi progressivamente adulto, al suo cambiare di interessi, possibilità, sviluppi narrativi. Anche le similitudini si adeguano a questo: Onorio è sempre insignito di similitudini eroiche e nobilitanti, come quelle con il toro e con il leone, ma è evidente che Onorio viene paragonato a un toro e a un leone in crescita, a seconda della crescita di Onorio stesso. Nelle prime opere di Claudiano, Onorio è un cucciolo di toro o di leone, ansioso di combattere e misurare le proprie forze, ma trattenuto sotto l’amorosa ala paterna; man mano che il giovane cresce, diventa un giovane toro o un giovane leone in grado di saggiare le proprie forze in assalti simulati e di poca pericolosità, che però già lasciano intravedere le sue capacità future; nelle ultime opere di Claudiano, Onorio è un toro e un leone ormai adulto, capace di farsi pieno difensore della mandria (o della famiglia leonina) che gli viene affidata.

    Settimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso un’opportuna selezione dei comparata. Quanto dico ora era già implicito, in certa misura, negli esempi precedenti. Mentre Omero usa gli stessi termini di comparazione (ad esempio: toro, leone e cinghiale) per qualsiasi eroe per il quale sia conveniente la similitudine – e toro è ad esempio Agamennone nel II libro dell’Iliade, leone Menelao nel III e Aiace nel XV, cinghiale Odisseo nell’XI; ma cinghiale o leone è anche Ettore nel XII, che poi è leone per ben tre volte, nel XV, nel XVI (quando uccide Patroclo cinghiale) e nel XVIII libro (quando lotta intorno al cadavere di Patroclo) – Virgilio seleziona le sue similitudini, e non usa certe immagini per certi personaggi, ritenendole sconvenienti. Rimaniamo pure a leone e toro: animali eroici ma dalla forza bruta, essi non sono mai utilizzati come termine di confronto per Enea. Paragonati a un leone si ritrovano piuttosto Turno (IX 791-798 e XII 4-9) e Mezenzio (X 723-729), al massimo Niso che compie strage indiscriminata e improvvida dentro l’accampamento nemico (IX 339-340); a un toro, di nuovo Turno (XII 103-106), Laocoonte (II, 223-224, ma in questo caso è un toro da sacrificio, non da combattimento) e Pallante (X 454-456), parificato però a un toro vittima di un leone, quindi destinato a divenire preda di un animale più forte di lui, in parallelo al discorso di Virgilio su Pallante, bravo combattente ma vittima della forza superiore del leone/Turno. Solo in una scena del poema il toro è associato ad Enea: siamo alla fine dell’opera, XII, 715-724, e i due duellanti, Turno ed Enea, sono come due tori in lotta per la supremazia entro la mandria. Una situazione che riporta alle Georgiche, dove l’avvenimento non era similitudine, ma un hic et nunc narrativo (III 219-223), proprio perché si tratta di un fatto consueto e ripetuto ciclicamente in Natura. Ma è anche un parallelo che la dice lunga, credo, sul poema e sulla sua fine, sulla trasformazione che in essa subisce Enea e, con Enea, l’impiego (ora divenuto degradante) della forza bruta di tradizione omerica.

    Ottavo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso la connessione con quanto ancora deve avvenire nel testo. Anche questo è un fenomeno che abbiamo visto, sia pure en passant, negli esempi virgiliani fatti prima. Nell’Eneide la similitudine crea più volte una sorta di cortocircuito con la narrazione. La similitudine, cioè, non si limita a segnalare quanto già sta succedendo, ma anticipa qualcosa relativo al seguito della narrazione, e addirittura spesso lo commenta. In un certo senso, Laocoonte diventa il toro sacrificale cui è paragonato, l’uno e l’altro malamente uccisi sotto gli occhi di tutti. La similitudine si fa qui realtà della narrazione, spiegazione di ciò che sta avvenendo e anticipo e commento del destino dei personaggi in gioco (tanto Laocoonte quanto i suoi spettatori). Questo in Omero non c’è. In Omero le similitudini al massimo possono anticipare qualcosa che si vedrà nel seguito, come succede per quella che, nel XXII libro dell’Iliade, parifica Achille ed Ettore che corrono intorno alle mura di Troia a cavalli e cocchi che girano intorno alla meta in una gara di corsa (la gara, com’è noto, si svolgerà per davvero nel libro successivo, come parte dei giochi funebri in onore di Patroclo; ma fra similitudine e sua attuazione non c’è nessuna relazione di causa/effetto). Invece, dopo Virgilio il meccanismo diventa abbastanza comune. In Ovidio, Metamorfosi I, 492-496, l’amore di Apollo per Dafni è come ignis in stipula, un’espressione proverbiale per indicare un fuoco impetuoso ma di breve durata; e in effetti gli amori di Apollo nelle Metamorfosi saranno tanti, a partire già dal libro immediatamente successivo… Eco si consuma d’amore come uno zolfanello acceso, Metamorfosi III, 372-374, dell’uno come dell’altra essendo destino che rimanga poco più che una tenue traccia. Rifacendomi ancora una volta a Claudiano, ricordo che l’uomo forte cui Eutropio si appoggia, il condottiero che mette alla guida dell’esercito, si chiama Leone – leone di nome, ma non di fatto. Le similitudini che si riferiscono a lui sono perciò altrettanto significative di quelle in uso per Eutropio: non animali nobili, ma il daino – l’animale che per tradizione fugge –  e una sus cucinata nella mensa imperiale, e che lancia grandi strida, intuendo il proprio destino. Leone, inutile dirlo, alla prima spedizione militare non solo viene sconfitto, ma muore durante la fuga – a detta di Claudiano, che probabilmente sta inventando, muore di paura, al solo sentire stormire le fronde alle spalle, temendo di essere raggiunto dai nemici.

    Nono e ultimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni intertestuali. Ho ricordato come in Virgilio si osservi un caso evidente di intratestualità, per cui quella che nelle Georgiche è una realtà di fatto  – la lotta dei tori per il controllo della mandria – diventa nell’Eneide una similitudine alla quale si può fare ricorso. Ciò si avverte nella intra- ma, com’è ovvio, ancor più nella intertestualità. Anche qui Virgilio fa scuola: nel V libro, entro i ludi in onore di Anchise, egli sostituisce alla gara con i cocchi di Omero una regata nautica, che però costruisce ed atteggia come se fosse una gara con i cocchi; perfino in similitudine, visto che ai vv. 139-150 le navi sono paragonate proprio a cocchi che compiano la gara omerica. In Lucano, II, 601-609, Pompeo che abbandona l’Italia per riprendere altrove la lotta contro Cesare è assimilato al toro sconfitto da un rivale, che si ritira in disparte per recuperare le forze, prima di tornare alla mandria e sfidare di nuovo il rivale. E’ il seguito del racconto virgiliano delle Georgiche, il passo che Virgilio aveva riutilizzato di suo nell’Eneide, concentrandosi però solo sulla lotta tra i tori. Qui Lucano attraverso la similitudine recupera invece l’intero contesto virgiliano e così rende omaggio al suo predecessore; ma nello stesso tempo sottolinea anche le speranze e il punto di vista di Pompeo al momento della partenza, gli alibi, se vogliamo, con i quali egli giustifica la propria scelta. Com’è noto, Pompeo non tornerà mai più in Italia, e quella lotta ad armi pari, fra tori/combattenti perfettamente allenati, che la similitudine gli augura, di fatto non avrà luogo, o quanto meno non avrà luogo nei termini previsti dal racconto virgiliano. L’immagine dei tori in lotta ha però ancora un seguito, in Stazio, II, 323-332. I due tori sono, ovviamente, Eteocle e Polinice – fatto salvo che, al momento, i due non si stanno davvero affrontando: il loro duello è ritardato fino all’XI libro e, come tutti sappiamo, si concluderà in modo insolito e improbabile per il paragone proposto, ossia con la morte di entrambi i contendenti. Protagonista della similitudine è Polinice lontano da Tebe, che ad Argo si sta sposando con la figlia di Adrasto, il re della città:

                                            veluti dux taurus amata
    valle carens, pulsum solito quem gramine victor
    iussit ab erepta longe mugire iuvenca,                              

    cum profugo placuere tori cervixque recepto
    sanguine magna redit fractaeque in pectora quercus,
    bella cupit pastusque et capta armenta reposcit
    iam pede, iam cornu melior (pavet ipse reversum
    victor, et attoniti vix agnovere magistri):                            

    non alias tacita iuvenis Teumesius iras
    mente acuit…

    Anche qui quella che originariamente era un’immagine di Natura diviene una similitudine, con lo stesso procedimento adottato prima da Virgilio nell’Eneide, poi da Lucano. Come in quest’ultimo, tutti i dettagli del racconto georgico sono introdotti nella similitudine, a partire dall’esercizio preparatorio per arrivare alla vittoria conseguita dall’animale inizialmente sconfitto, il cui ritorno incute spavento perfino al momentaneo vincitore – due dettagli che, applicati alla situazione contingente di Polinice, il iuvenis Teumesius del testo, esprimono ancora una volta più una proiezione delle sue speranze future che l’attualità del racconto (Polinice si sta sposando, non esercitando; il ritorno a Tebe è stato deciso, ma deve ancora avere inizio). Rispetto ai poeti che l’hanno preceduto, in Stazio evidenzierei la maggiore insistenza sui dettagli violenti della scena, che riprendono ed enfatizzano dei tratti presenti solo in nuce in Virgilio, ora invece esposti alla vista di tutti. Da ultimo, segnalerei la progressiva risemantizzazione della similitudine: “scena d’amore” nelle Georgiche, essa diviene similitudine entro una lotta per la conquista della mano della figlia del re (e dunque, con un tratto amoroso non disgiunto però da uno politico) nell’Eneide; per farsi poi similitudine di valore puramente politico in Lucano e nella Tebaide. Come a dire che la passione reale, di Pompeo, ma soprattutto di Polinice (che pure si starebbe sposando), quella per cui ognuno di loro vive e lotta, è il potere, non l’amore. In fondo, è una cosa che sapevamo già; ma che la similitudine, con il suo carico di storia, ci dice con una chiarezza assoluta.

    © Massimo Gioseffi, 2017

    Gioseffi – Similitudini animali nell’In Eutropium di Claudiano, 2008

  • Immagini di Natura

    Immagini di Natura

    La letteratura è stata sempre un campo ideale per pensare alla Natura, della quale non ha fatto solo un oggetto di contemplazione o di ambientazione delle diverse fabulae, ma anche l’occasione per una riflessione in grado di distanziarsi da essa quel tanto necessario a far sentire l’uomo in sicurezza (la Natura, come la cronaca tristemente insegna, è una forza che si cerca spesso di dominare, ma non sempre si riesce a controllare). Questo post vuol presentare due esempi di siffatto distanziamento, mostrando il procedimento che ha reso possibile trasformare la Natura e i suoi fenomeni in strumenti retorici. Proprio la retorica antica insegna, nella teoria come nella pratica (ma io mi occuperò solo della pratica), a sfruttare la Natura a fini diversi da quelli contemplativi o di una sua raffigurazione pittorica.

    Semplificando un poco il discorso, direi che la Natura in quanto fenomeno complessivo si caratterizza sostanzialmente per due tratti. Il primo è la ciclicità – in Natura tutto si ripete uguale, a regolare distanza di tempo, nella successione degli anni e delle stagioni. In questa ripetizione i singoli si possono perdere, ma poco importa. Per la Natura, l’affermazione e la sopravvivenza del genere e della specie contano più dell’affermazione e della sopravvivenza dell’individuo, che pure incarna nella sua generazione quel genere e quella specie. D’altra parte, se guardiamo le cose dal punto di vista del singolo individuo, questi trova una ragione d’essere proprio nell’affermarsi del genere e della specie, affermarsi che passa solo in minima parte attraverso l’affermazione di sé e solo in minima parte coincide con essa – l’affermazione di sé può essere perciò un mezzo, ma non è mai un fine. Ciò è fonte di rassicurazione per l’uomo (le cose assumono così un senso, anche quando i destini individuali sembrino insensati), ma è anche fonte di preoccupazione e di timore (l’uomo è fortemente individualista e tende a sopravvalutare se stesso; la cultura occidentale nel suo complesso esalta questo culto dell’individualità).

    Il secondo tratto caratteristico, che poi in realtà è solo in parte differente e differenziabile dal primo, consiste nella ripetitività – specie animali e piante, in una data situazione, si comportano sempre allo stesso modo, fatti salvi, come abbiamo imparato negli ultimi cento anni ca., i pochi casi di variazione genetica o di lento adattamento a mutate circostanze ambientali. Anche questo è tranquillizzante, ma nello stesso tempo è fonte di timore e di preoccupazione, e per le stesse ragioni indicate prima: l’idea offre una certa sicurezza, perché si sa come comportarsi quando si incontrano i diversi fenomeni di Natura, e si sa come si comporteranno essi; ma questo è anche la negazione dell’individualismo e del libero arbitrio, poiché le scelte comportamentali dipendono ora più dall’appartenenza del singolo a un determinato genere o specie, che non dalla sua volontà.

    Di queste idee offro qui due esempi.

    Partiamo dal ciclo della vita: la prima, notissima affermazione, si trova in Omero, Iliade VI, vv. 119ss. Diomede incontra sul campo di battaglia un guerriero a lui sconosciuto, con il quale pensa di combattere, e gli chiede con ampio giro di parole chi sia. Il guerriero è Glauco, figlio di Ippoloco, che così risponde (vv. 145-149): “Tidide magnanimo, perché chiedi chi io sia? Come è la stirpe delle foglie [in greco, γενεὴ], così è quella degli uomini. Delle foglie il vento ne può gettare a terra alcune, ma altre la selva [noi diremmo: la forza intrinseca della Natura] ne mette fuori di nuove, e fa primavera. Così è anche per gli uomini: una generazione nasce, una muore”. È la γενεὴ¸ la stirpe, quello che conta; il destino dei singoli in questa linea si può anche perdere. Glauco vanta un’ascendenza che risale fino a Sisifo e a Bellerofonte, e di essa si compiace (vv. 150-206); ma proprio questa ascendenza lo obbliga a dover essere degno dei suoi avi e superiore quindi a tutti coloro che vengano da Efira o dalla Lidia dai ricchi pascoli, come dice ai vv. 207-210. Nel complesso della battuta di solito si enfatizza la prima parte del discorso e della similitudine (l’immagine della foglia che si fa simbolo di precarietà, Leopardi e Ungaretti docent), perdendo di vista, credo, il complesso del passo. Quello che dice Glauco è che chi è lui, come singolo, conta solo relativamente, perché il suo destino di singolo è relativamente ininfluente: poco importa che muoia per mano di Diomede o di qualche altro eroe (secondo la tradizione, morirà ucciso da Aiace, lottando per conquistare le armi di Achille; ma questo avviene fuori dallo spazio narrativo dell’Iliade); quello che Glauco sa è che, se deve morire in battaglia, morirà per mano di un eroe, combattendo eroicamente; e nella stirpe di Sisifo e Bellerofonte verrà rimpiazzato da qualche altro guerriero, pronto a sua volta a lanciarsi eroicamente in battaglia se appena se ne darà l’occasione, e a morirvi se sarà necessario, ma combattendo eroicamente contro qualche grande guerriero. Il che è dote di Glauco, ma è dote anche della sua stirpe. Ogni discendente di Sisifo e Bellerofonte è fatto così e non può che essere fatto così, e andare quindi incontro a identico destino, se necessario, proprio perché discende da Sisifo e da Bellerofonte; così come le foglie dell’albero sono foglie di quell’albero, che potranno anche essere prima o poi scosse dal vento, ma che sanno di essere sostituite nella primavera successiva da altre foglie, diverse eppure simili a loro, pronte a resistere eroicamente fino a quando non siano scosse a loro volta dal vento. Mimnermo è, per quanto ne sappiamo, il primo che ha riutilizzato la similitudine e ne ha fatto qualcosa di diverso; come spesso avviene in letteratura, questo mutamento ha poi condizionato la lettura del passo omerico – ma questa è una vicenda che qui non ci interessa.

    Più utile è forse mostrare un’altra manifestazione, in pieno Novecento, dello stesso concetto, e creare così una catena da collegare a Omero, affiancandola, se non addirittura sostituendola, a quella tradizionale. Mi rifaccio a qualcosa che non ha diretta relazione con il testo omerico, ma proprio per questo è ancora più importante, perché dimostra come Omero non abbia fatto altro che applicare per primo un sentire che è dell’umanità, indipendentemente dalle epoche e dalle collocazioni culturali e geografiche. Si tratta di una fortunata serie a fumetti, divenuta poi un romanzo per ragazzi di qualche successo e infine una composizione musicale in grado di valicare i limiti e i confini di tempo, di spazio e di lingua (da lì ne ho ricavato notizia). Da aprile a giugno dell’anno 1920, su un quotidiano edito a Brno e intitolato Lidové noviny, venne pubblicata una striscia pressoché giornaliera, a firma di Rudolf Těsnohlídek [1882-1924] e illustrata da Stanislav Lolek [1873-1936], che aveva nome “La volpe Bystroushka” (Liška Bystrouška). Ne riproduco qui una vignetta:

    liska bystroushka

    L’anno dopo la striscia divenne un romanzo per ragazzi che, dai dati ricavabili via internet, risulta godere di un certo successo editoriale ancora oggi:

    bystroushka

    Nel 1924 il romanzo fu trasformato in opera lirica, autore di libretto e musica Leoš Janáček, che usò il titolo “Le avventure della volpe Bystroushka” (Příhody lišky Bystroušky). Come è successo a quasi tutto il patrimonio artistico ceco, musicale e no, la sua diffusione in Europa avvenne attraverso la Germania e la traduzione in tedesco. A tradurre il testo di Janáček fu Max Brod, amico, biografo ed esecutore testamentario (infedele) di Kafka, che chiamò l’opera “La piccola volpe astuta”; e con questo nome essa è nota in Italia, dove si è vista più volte. È la storia di una volpe, Bystroushka appunto, catturata da un guardiacaccia che, mentre stava dormendo nel bosco, è stato svegliato da una piccola rana cui la volpe dava la caccia e che, per sfuggire all’agguato, gli era saltata sul naso. La scelta del guardiacaccia di prendere la volpe con sé e portarla a casa per farne dono alla moglie rompe la normalità della Natura, dove è usuale che vivano rane e volpi e che le prime siano vittime delle seconde. Il guardiacaccia, che è un uomo e agisce con mentalità tipicamente umana, vuole invece imporre un proprio ordine alle cose, prendendo una decisione che sovverte le regole; non si limita a uccidere la volpe, fatalità possibile e prevedibile in Natura, ma, colpito dalla bellezza dell’animale, pensa di poterlo addomesticare. Non andrà così: la volpe, che è davvero astutissima, alla fine mette disordine in tutta l’abitazione del guardiacaccia; riconquista la libertà; e nel bosco trova un bel volpacchiotto al quale si unisce. La striscia a fumetti e il romanzo finiscono qui, ricomponendo un’unità che era stata spezzata dall’intervento umano. Janáček aggiunge invece due scene, in una delle quali la volpe rimane ugualmente uccisa, abbattuta da altri cacciatori. Nella scena finale, a un anno esatto di distanza dall’inizio, si ripete la situazione di partenza: il guardiacaccia si trova ancora a dormire nel bosco, più stanco e più vecchio (ma anche più saggio). Svegliato di nuovo da una rana, si accorge della presenza di una bellissima volpe dalla coda argentata, che riconosce come la figlia della precedente, della cui morte è al corrente; fa per catturarla, ma, fattosi riflessivo, la lascia andare, e si tiene piuttosto vicina la rana, che subito gracida: “Non sono la stessa, non sono la stessa. Era mio nonno, era mio nonno. Mi hanno parlato di voi, mi hanno parlato di voi”.

    Riporto qui il preludio dell’opera, che descrive la vita sotterranea della foresta in termini propri alla temperie tardoromantica; in fondo al post lascio invece il link per la suite in due tempi, ambedue marcati “Andante”, che Janáček ricavò dall’opera (per i diritti di copyright rinvio alla pagina di youtube che ha reso l’incisione di pubblico dominio).

     

    La Natura si ripete nelle diverse generazioni (più rapide quelle della rana: due in un anno; più lente quelle di una volpe: una sola; lentissime, a paragone, quelle dell’uomo, che a un anno di distanza è ancora lo stesso individuo). Il singolo può sentirsi ed apparire effettivamente unico e irripetibile: Bystroushka è davvero bellissima e intelligentissima, come vuole il titolo tedesco dell’opera. Ma alla Natura poco importa; importa che a primavera ci siano una volpe e una rana. In questo quadro, l’uomo è l’elemento che stona, perché non sa inserirsi con semplicità entro quest’ordine e vuole imporre un proprio ordine. Esperienza, vecchiaia, amarezza (parallelamente alla storia principale si inseriscono, nelle vignette del fumetto come nelle scene dell’opera, anche delle riflessioni tutte giocate sul piano dell’esperienza umana del guardiacaccia, della sua famiglia, dei suoi amici) insegnano a volte la giusta lezione – l’uomo deve saper accettare di essere parte di un tutto che ha andamento ciclico e che sempre si rinnova, senza intervenire su di esso. Queste considerazioni le fa, da par suo, applicandole alla vita, alla filosofia e all’arte, ma sempre partendo dal testo di Janáček, anche un romanziere e saggista  come Milan Kundera, il cui padre – musicologo – era stato allievo di Janáček. In Italia le ha pubblicate Adelphi (I testamenti traditi), e ad esse quindi rinvio. C’è, come si vede, una catena, diversa e complementare da quella che comunemente si associa al passo omerico dal quale siamo partiti, ma che mi sembra possa funzionare come commento non banale della similitudine famosa e come suo completamento. A dimostrazione, fra l’altro, anche di una delle ragioni essenziali per lo studio dei classici, ossia il loro carattere archetipico rispetto a molte parti del sentire e del pensare moderno, perfino quando esso non sia direttamente derivato da loro.

    Vengo al secondo esempio promesso. Fin qui, ho parlato di ciclicità. Ora vorrei sottolineare la ripetizione immancabile dei comportamenti, che ovviamente è già implicita nella ciclicità (queste distinzioni sono più di comodo che reali, come ho detto all’inizio). Parto anche qui da un passo famoso: nella II egloga di Virgilio, Coridone vuole convincere Alessi dell’inevitabilità e dell’eternità del suo amore, ricordando come esso risponda a una legge di Natura. Siamo sul finire della suasoria, e Coridone esprime il concetto con una catena ben nota (vv. 63-65): Torva leaena lupum sequitur, lupus ipse capellam, /  florentem cytisum sequitur lasciva capella, /  te Corydon, o Alexi: trahit sua quemque voluptas. Coridone segue e seguirà sempre Alessi con la stessa ovvietà, insistenza e naturalezza con la quale ogni animale è attratto dal cibo preferito, al quale dà la caccia e che prima o poi, si immagina, raggiunge. Alle spalle della struttura c’è, come sempre nelle Bucoliche, un passo di Teocrito, da Virgilio completamente rifatto. Si tratta dell’idillio X, vv. 30-31, dal titolo I mietitori. Buceo e Milone stanno mietendo un campo di grano, il primo con meno lena del dovuto. Il secondo lo irride: è amore che lo infiacchisce, e per di più per una ragazza che non vale tanto. Su invito dell’amico, Buceo canta una canzone (Milone risponderà con un’altra, di carattere ironico): O graziosa Bombìca, sei chiamata da tutti Sira, magra, arsa dal sole, da me soltanto del color del miele. Anche la viola è nera, anche il giacinto segnato dalle lettere, eppure nelle corone sono i primi ad essere scelti. La capra va dietro al citiso, alla capra va dietro il lupo, la gru segue l’aratro, e io per te son diventato folle. Come Buceo ha detto precedentemente, non solo Pluto è cieco: lo è anche Eros, e non riflette mai su quello che fa (vv. 19-20). Messi a confronto i due testi, in Teocrito manca la gnome conclusiva, che si ricava semmai dal contesto; non c’è nemmeno la situazione struggente dell’egloga virgiliana (in Teocrito siamo all’interno di un canto, in un idillio dal tono scherzoso; in Virgilio la sequenza proposta è una forma di convincimento, in un’egloga di carattere drammatico); la successione degli animali è meno strutturata in Teocrito, chiasmo e poliptoto non sono strettamente connessi. Ma a me interessa soprattutto questo: la leonessa va a caccia, come il lupo e, a modo suo, la capretta, ognuno alla ricerca di quanto è per loro normale e naturale inseguire e raggiungere. Coridone crea una catena di similitudini dove un termine del confronto – quello di Natura – si impone come certo e reale, proprio per quei caratteri che, lo dicevo all’inizio, sono tipici del mondo di Natura. Per l’uomo le cose vanno diversamente: Alessi non è lì e non sarà persuaso dalla suasoria che neppure sente, non verrà mai raggiunto da Coridone, che di lì a pochi versi riconosce questa verità nell’amaro finale dell’egloga. Ora vorrei leggere poche righe di un racconto russo, autore Nikolai Leskov [1831-1895], titolo Una lady Macbeth del distretto di Mtsensk [1865]. Anche in questo caso a portarmi al testo è stata una composizione musicale, l’omonima opera che ne trasse Dmitrij Šostakovič [1906-1975] nel 1934, libretto suo e di Alexander Preis.  Così traduce Laura Micheletti: Il puledro rincorre la giumenta, il gattino cerca la gattina, il colombo si precipita dalla colombella. Soltanto da me nessuno si affretta. Il vento accarezza la betulla,  col suo tepore il sole la riscalda; per tutti c’è un sorriso. Soltanto da me nessuno si affretta, nessuno avvolgerà con il suo braccio il mio corpo, nessuno accosterà le sue labbra alle mie, nessuno accarezzerà il mio petto, nessuno mi sposserà con le sue focose carezze. Come si vede, la struttura è meno precisa nella forma, ma identica nella concezione di fondo. Questi sono i pensieri di Katerina Izmailova, la protagonista del racconto, donna piacente e malmaritata, che in assenza del marito soffre di solitudine (ma non è che il marito le sia di gran compagnia), e si avvolge sempre di più in una spirale di autoerotismo – è tarda sera, Katerina è nella sua stanza, in attesa non sa bene nemmeno lei di che (o di chi), convinta di una ripetitività della Natura che condanna lei sola all’essere diversa. Katerina dalla catena si chiama fuori: tutti rincorrono e raggiungono qualcosa; soltanto io non sono rincorsa e raggiunta da nessuno. Ebbene, alla fine non sarà così. Appena finito il ragionamento, alla finestra della donna batte Sergej, un lavorante al servizio del marito, che ha già avuto occasione di farsi notare anche da Katerina. Braccia, labbra, carezze: non mancherà nulla, e altro ancora (anche se, ovviamente, questo è per entrambi l’inizio della fine: il romanzo ottocentesco, si sa, è un genere moralista).

     

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    Leoš Janáček, Suite dall’opera “La piccola volpe astuta”

     

     

  • Nel nome di Augusto

    Nel nome di Augusto

    Nel giorno che la tradizione riconosce come sacro alle Feriae Augusti (una serie di giorni festivi istituiti da Ottaviano nel 18 a.C., ma fissati intorno al 15 agosto solo in età medievale), ecco un piccolo omaggio musicale ad Augusto, nel nome di quella continuità fra classici e contemporanei e dei processi – complessi e mai banali – che collegano gli antichi a noi, attraverso i secoli e le culture. Si tratta del finale dell’opera Antony and Cleopatra di Samuel Barber (1910-1981), prolifico musicista americano, noto in Italia soprattutto per il suo Adagio per archi, in realtà parte di un quartetto trasformata poi in composizione autonoma per orchestra d’archi su consiglio di Gian Carlo Menotti (1911-2007) e spesso utilizzata come colonna sonora in numerosi film – in particolare, citerei Platoon di Oliver Stone, 1986.

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    Barber scrisse il testo che ci interessa nel 1966, su commissione della Metropolitan Opera di New York. La mia scelta è volutamente polemica: Ottaviano, come tutti i componenti della dinastia giulio-claudia, è personaggio di diversi drammi musicali, già a partire dal XVII secolo; ma le composizioni più interessanti sono, a mio parere, quelle dedicate ai suoi antagonisti. Dal punto di vista del metodo, Barber ci mette invece in guardia dai facili accostamenti fra ciò che antico e ciò che è moderno, senza tenere conto degli infiniti passaggi intermedi. Nella fattispecie, il passaggio intermedio si riconosce senza problemi: l’opera ha ambientazione antica e segue, con qualche licenza, i fatti storici e le fonti che ce li narrano; ma la sua fonte prima è, ovviamente, l’omonima tragedia di William Shakespeare (1607 ca.).

    Con pragmatismo tutto americano, il pur austriaco di nascita Rudolf Bing (1902-1997), allora General Manager del MET (come è comunemente chiamata la Metropolitan Opera), era riuscito a convincere i finanziatori del teatro della necessità di riformare l’antica costruzione del 1883, già rifatta dopo un incendio nel 1903 e modificata ulteriormente nel 1940. Anziché limitarsi a una serie di adeguamenti tecnici, questa volta si decise però di abbattere al suolo l’intero edificio sito all’altezza della 40th West di Manhattan, per costruirne uno tutto nuovo poco più a nord, all’altezza della 65th West, fra Columbus Avenue e Amsterdam Avenue, dove l’arteria di Broadway interseca trasversalmente la prima delle due. Il blocco di terreno edificabile divenne così il Lincoln Center (dal nome della vicina Lincoln Square), una serie di costruzioni dove hanno casa, ognuna indipendente dall’altra, eppure ognuna collegata all’altra, sia pure in edifici propri, la New York Philharmonic Orchestra; il New York City Ballet; fino a qualche anno fa anche la New York City Opera, ora chiusa per fallimento; vari teatri per il musical (come il Vivian Beaumont Theatre) o per eventi estemporanei (Damrosch Park); una cineteca (Elinor Bunin Monroe Film Center); una biblioteca musicale (New York Public Library for the Performing Arts); e, accostati a questi, la Fordham University e la Juilliard School, il più celebre Conservatorio del nuovo continente. Al centro di tutto sta l’Opera, costruita su disegno di Wallace Kirkman Harrison (1895-1981), abbellita dalle grandi vetrate da cui si affacciano i murales di Marc Chagall (1887-1985), ben visibili nella foto di copertina (quello rosso, a sinistra, dal titolo Il trionfo della musica; quello giallo, a destra, dal titolo Le fonti della musica). Il nuovo teatro, grandissimo (ca. 4000 posti), e multifunzionale (durante la stagione, da settembre a maggio, vanno in scena ca. 30 titoli, con sette rappresentazioni a settimana, due al sabato, riposo alla domenica), venne inaugurato nel 1966 con un’opera che si volle appositamente composta per l’evento, da un compositore americano. Si tratta, appunto, della nostra Antony and Cleopatra. Direttore della serata, prescelto da subito (anzi, si dice che sia stata sua l’idea di scegliere questo testo di Shakespeare, all’inizio si era pensato al romanzo americano per eccellenza, Moby Dick), l’allora giovanissimo Thomas Schippers (1930-1977), cioè di nuovo un direttore americano, uno dei massimi direttori americani, da tempo attivo al Met. Nei ruoli principali Leontyne Price (1927-vivente) e Justino Diaz (1940-vivente), lei una leggenda del canto e della vita sociale statunitense (cantante di colore affermatissima anche in Europa, aveva rifiutato il debutto al Met con Aida, per non interpretare una parte assegnatela, come disse spiritosamente, solo perché “già indossava il costume necessario” – Aida è un’etiope, e quindi la si immagina donna di colore); lui un giovanissimo basso-baritono portoricano, cioè nativo di quell’isola che per tutto il Novecento è stata e non è stata parte degli States (dal 1917 i cittadini di Portorico erano cittadini statunitensi, pur non facendo parte Portorico dell’Unione; nel 1967 si sarebbe tenuto un referendum ca. la definizione di Portorico – che scelse l’indipendenza, mantenuta poi fino al 2002): ed è probabile che la scelta di Diaz come interprete di Antonio abbia quindi avuto anche una sfumatura politica.

    Come regista dello spettacolo, che si voleva faraonico, fu designato Franco Zeffirelli, il quale “scrisse” pure il libretto. Le virgolette sono d’obbligo, perché in realtà Zeffirelli potò qua e là la tragedia di Shakespeare, eliminando scene e personaggi, spostando battute, togliendo parti troppo lunghe; ma ogni parola del libretto è una parola di Shakespeare, al massimo mutata di posizione. Nel brano che propongo, il grido finale (rivolto ad Antonio) My man of men!, ad esempio, viene sì dal testo originale, ma da una scena del primo atto. Inoltre, nel libretto gli atti da cinque sono ridotti a quattro; la morte di Cleopatra in Shakespeare non chiude la tragedia, il cui finale è lasciato a Ottaviano; infine, in Shakespeare Cleopatra muore a mezzo di una frase (Why should I stay…), completata poi da una delle ancelle fedeli, che si uccidono con lei (Iras, qui chiamata Iris, e Charmian: il completamento suona …in this vile world?), mentre Zeffirelli assegna tutta la battuta a Cleopatra e anzi le offre anche alcune ulteriori parole, facendola morire su una frase compiuta e pensando ad Antonio. Infine, le due ancelle nell’opera muoiono prima della loro padrona, in silenzio, così da non rubarle la scena; in Shakespeare solo Iras muore prima, e ambedue frappongono le loro parole a quelle della regina. Come si vede, tutti mutamenti che vanno nella direzione di una maggiore “teatralità operistica” della situazione.

    L’opera, di cui esiste una registrazione mai ufficialmente messa in circolazione, fu un fiasco colossale, tanto di critica quanto di pubblico. Eppure Barber era riuscito, oltre a non tradire troppo lo spirito shakespeariano, nell’impresa, non facile, di caratterizzare in modo diverso Ottaviano e i suo accoliti, dotati di una musica molto militaresca, nella quale dominano gli ottoni e le dissonanze, da Antonio e Cleopatra, con i loro modi greci e orientali, molto soffici, languidi, a tratti perfino languorosi. Forse fu proprio questo schematismo una delle cause dell’insuccesso; le critiche si appuntarono però soprattutto sullo spettacolo e sul libretto di Zeffirelli, ritenuti troppo pomposi, complicati, difficili da seguire anche nel continuo passare (molto shakespeariano anch’esso, a dire il vero) da una scena ambientata nel campo “romano” a una scena ambientata nel campo “orientale”.  Barber non si rassegnò alla scarsa riuscita. Poco meno di dieci anni dopo, riprese in mano la composizione, affidando a Menotti il compito di risistemarne il testo e la scansione drammaturgica, riducendo drasticamente i quattro atti a tre e aumentando gli spazi lirici concessi ai due amanti. La nuova edizione andò in scena nel 1975, alla Juilliard School; su un vero palcoscenico, nel 1983 a Spoleto. Di quest’ultima rappresentazione esiste una registrazione audio diffusa dalla casa inglese New World Records.

    Io qui offro la scena finale dell’opera, il monologo di Cleopatra (in realtà, alla presenza delle due ancelle che moriranno con lei), in una versione da concerto del 1985; protagonista Leontyne Price, che rimane fedele all’edizione originale. L’orchestra è quella della Juilliard School, che festeggiava così i suoi ottanta anni di fondazione. L’origine del materiale è televisiva, e si sente.

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    Questo il testo cantato (in grassetto le parole “spostate” da Zeffirelli):

    CLEOPATRA

    Give me my robe, put on my crown; I have
    Immortal longings in me: now no more
    The juice of Egypt’s grape shall moist this lip:
    Yare, yare, good Iris; quick. Methinks I hear
    Antony call; I see him rouse himself
    To praise my noble act. Husband, I come:
    Now to that name my courage prove my title!
    I am fire and air; my other elements
    I give to baser life. So; have you done?
    Come then, and take the last warmth of my lips.
    Farewell, kind Charmian; Iris, long farewell.

    Kisses them. IRIS falls and dies

    Have I the aspic in my lips? Dost fall?
    If thou and nature can so gently part,
    The stroke of death is as a lover’s pinch,
    Which hurts, and is desired.

    To an asp, which she applies to her breast

    Come, I am not worried!

    With thy sharp teeth this knot intrinsicate
    Of life at once untie…

    Peace, peace!
    Dost thou not see my baby at my breast,
    That sucks the nurse asleep?

    As sweet as balm, as soft as air, as gentle,–
    O Antony!–Nay, I will take thee too.

    Applying another asp to her arm

    Why should I stay… in this vile world?
    Now I feed myself with most delicious poison
    That I might sleep out this great gap of time.

    My man of men!

    She dies

     

    http://www.americancomposers.org/notes20030406.htm

     

  • Socrate in musica

    Socrate in musica

    Non so se i post dedicati alla musica che riprende temi classici suscitino o no interesse nei lettori di questo sito, se lettori ci sono. Credo però che, al di là della passione personale per la musica, che mi ha accompagnato e guidato per tutta la vita, insistere sull’argomento sia un modo importante per far conoscere la vitalità del mondo antico anche ai nostri allievi, destinatari ultimi, ancorché spesso mediati, del materiale che qui si cerca di organizzare. il fatto che oggi il mondo antico sia oggetto di ripensamento continuo soprattutto da parte dei musicisti, più che dei pittori e degli scrittori, prevalenti o comunque altrettanto presenti nel mondo di ieri, è un dato incontrovertibile. Su questo vorrei tornare in un altro post, chiedendomi (e chiedendo ai lettori) perché proprio i musicisti continuino a trarre ispirazioni da miti e personaggi dell’antichità. Per il momento mi accontento di dedicare qualche parola a Socrate, protagonista di un oratorio laico del 2013. Sottolineo la data: il personaggio Socrate aveva già conosciuto gli onori del palcoscenico musicale nel Settecento, con Telemann (Der geduldige Socrates, 1721, in realtà traduzione/rifacimento di un precedente libretto italiano di ugual titolo, La pazienza di Socrate, opera di Nicolò Minato, intonata fra gli altri da Antonio Caldara) e con Paisiello (Il Socrate immaginario, 1775: come indica il titolo, non si tratta del vero Socrate, ma di un suo moderno imitatore); a inizio Novecento, aveva scritto un dramma musicale su Socrate anche Erik Satie (1918-1920: ci torneremo sopra). Per ora ho preferito un testo più recente, per sottolineare la vitalità del tema anche nel contemporaneo, il vero contemporaneo (troppo spesso confuso, nelle scuole e nell’accademia, con un Novecento storico).

    Autore della musica è il compositore australiano (1961-) Brett Dean, in questi giorni agli onori della cronaca perché al Festival di Glyndebourne è in scena la sua ultima opera, Hamlet. Nel 2010 Dean, già autore di una serie piuttosto cospicua di composizioni, per il teatro, le compagini sinfoniche, gruppi da camera o singoli strumenti (Dean è, nella vita, anche direttore d’orchestra e solista di viola), aveva pensato di scrivere una nuova opera; poi, l’opera si è ridotta a un poema sinfonico con coro, della durata di circa mezz’ora. Alla fine è uscito The Last Days of Socrates, composizione per orchestra, coro e basso-baritono, come recita la partitura (in realtà c’è un ruolo secondario anche per un tenore solista). La composizione, della durata di un’ora circa, è un vero proprio oratorio laico in tre parti, intitolate rispettivamente La dea Atena (Goddess Athena); Il processo (The Trial); La cicuta (The Hemlock Cup). L’ispirazione viene ovviamente da Platone, ma il testo è di un poeta australiano, Graeme William Ellis (1944-), autore di un paio di raccolte poetiche (Words fall like rain, 2009; Ned Kelly Verse, 2011), che a dire il vero, stante il sito della World Catalogue Library, non sembrano avere avuto molta diffusione fuori dal continente oceanico. Purtroppo, per questioni di diritti editoriali, non lo posso riprodurre in questo sito; la casa editrice consente di prendere visione solo delle prime pagine della partitura di Dean, per chi fosse interessato alla sua scrittura. L’oratorio è stato eseguito nel 2013 a Berlino, sotto la direzione di Simon Rattle, e poi a Melbourne e Los Angeles (direttori Simone Young e Gustavo Dudamel). Nella parte di Socrate si sono esibiti John Tomlinson, che a detta del compositore ha anche aiutato nella realizzazione della scrittura vocale del ruolo, e Peter Coleman-Wright. Qui l’orchestra è diretta da John Storgårds; solisti, il grande John Tomlinson (voce sonora e pronuncia impeccabile, anche se affetto da un fastidioso vibrato che ne compromette più volte l’intonazione) e Robert Johnston. L’ho divisa nelle sue tre parti, la seconda e la terza dividendole a loro volta in due. Dean è autore tardo novecentesco, che ama mescolare la musica elettronica alle sue composizioni; capace di sprazzi lirici, per il suo oratorio prevede un organico fatto di fiati, archi, ottoni, percussioni, arpa, celesta, ma anche di piano, chitarra elettrica e fisarmonica, oltre a pezzi di terracotta e metallo sbattuti gli uni contro gli altri, a imitare il suono degli ostraka che votano la condanna di Socrate. Il basso baritono protagonista dà voce al filosofo; il coro interpreta gli Ateniesi, le voci maschili dando corpo agli accusatori di Socrate, le femminili alla parte compassionevole del popolo. Il tenore assolve, di volta in volta, il ruolo di un giudice (II parte) e del carnefice che prepara la cicuta (III parte). La prima parte ha carattere introduttivo; la seconda trae il suo testo dall’Apologia di Platone; la terza dal Fedone. Dean in molte interviste ha paragonato Socrate a importanti figure controcorrente del nostro tempo, alle quali in certo modo la composizione sarebbe dedicata: l’artista cinese Ai Weiwei, noto dissidente politico; oppure Edward Snowden e Julian Assange.

     

    Parte I – La dea Atena

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    La musica inizia dolcemente (la qualità sonora non è impeccabile), quasi impercettibile, attraverso strumenti  fuori scena. Il coro invoca a gran voce, e più volte, “So-kra-tes”: prevalgono le voci maschili, ostili, dure, mentre l’orchestra si trasforma in un uragano sonoro. Dal minuto 2’40” la furia si placa: nel coro ora si sentono le voci femminili, fuori scena (al Barbican erano su una piattaforma elevata). In questo quadro idilliaco inizia, ca. al minuto 4’25”, l’invocazione alla dea Atena (“Goddess Athena”), che prima assume il carattere di litania, poi pian piano prende forza (7’23” ca.), e dopo un paio abbondante di minuti torna a farsi più dolce, finché la celesta pone fine all’invocazione.

     

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    Parte II – Il processo

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    Una lunga introduzione nella quale svetta il corno solista prelude a una climax sonora, sulla quale irrompe il coro, senza pronunciare parola fino al minuto 3’33”. Tenori e bassi danno poi sostanza alle accuse contro Socrate, che inizia a sua volta una breve rhesis concitata (4’33”), alla quale il coro risponde ribadendo le accuse, su una melodia sempre più saltellante (5’30”). Al minuto 7’50” il coro, dato sfogo a tutta la rabbia di gruppo che vede messe in pericolo le proprie certezze, erompe più volte nel suo “Enough! Enough! Sokratès”, che Dean riconosce in molte interviste come il momento cruciale della situazione (l’opinione comune non accoglie chi la obbliga a dubitare di sé). Socrate inizia un lungo discorso, 8’40”, lento e pacato, ribadendo alle accuse con le parole dell’Apologia. “What difence is this?” si chiede il coro (12’45”). Socrate ribadisce il suo credo (“I believe”, 13’57”) e introduce l’immagine del cigno, che canta profetico al momento della morte.

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    “Therefore, I don’t regard my end as a misfortune” conclude sereno Socrate, ma tanta sicurezza irrita ulteriormente il popolo ateniese contro di lui: sotto la spinta martellante del pianoforte (2’09”) si forma la parola “Danger!” a riconoscere la pericolosità di chi vive coerente con se stesso. Socrate ribadisce la sua calma (4’20”): “All that I know is that I know nothing… It is your fear that which speaks”, mentre la sicumera del coro è “imitation of wisdom, not real wisdom”.  Nell’imbarazzato silenzio che segue, il corifeo invita alla votazione, riconoscendo che le parole di Socrate hanno valore finale (5’14”): su un ritmo quasi jazzistico, ognuno getta il suo voto nel vaso che contiene gli ostraka (si sentono uno di seguito all’altro i colpi di metallo che corrispondono ai voti fatti cadere nel recipiente), mentre il coro si divide fra tenori e bassi, che ripetono minacciosi la loro ostilità al protagonista, e le voci femminili, alla fine prevalenti, nel loro lamento per l’imminente condanna, anticipata dai colpi delle percussioni (6’20”). Alla fine restano solo le donne a piangere (7’25”).

     

    Parte III – La cicuta

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    Il brano si apre con una lunga introduzione per violoncello solo, omaggio di Dean a Jan Diesselhorst, celebre violoncellista dei Berliner Philharmoniker (compagine orchestrale nella quale anche Dean ha suonato per una dozzina d’anni), già ricordato in un’altra composizione dell’autore, Epitaphs, 2010, un quintetto cameristico di cui un movimento rievoca l’amico e collega. Al minuto 2’04”  inizia il lamento del coro femminile, fuori scena. Siamo così immessi a poco a poco nella stanza dove Socrate attende la morte, in un’atmosfera cupa, tenebrosa, amplificata da un suono funereo di tromba e dalle percussioni. Un inserviente presenta a Socrate la coppa della cicuta, riconoscendo nello stesso tempo in lui il più grande degli uomini (5’08”). Socrate prende la parola rievocando ancora il cigno (“The swan!… The swan!…”, 6’40”), accompagnato dalla celesta che – un po’ come in Death in Venice di Britten, dove dava visibilità a Tadzo e al suo ruolo di involontario psicopompo – sembra progressivamente rafforzare il pensiero della morte imminente.

     

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    Quando il lamento si fa troppo forte, Socrate interviene a rassicurare gli amici (0’59” “Calm yourself, and be brave!”). Le donne appaiono più rassegnate, mentre torna a farsi sentire il violoncello (2’59”). Socrate può così riappropriarsi della metafora del cigno: è lui, naturalmente, l’animale che muore, ma muore cantando e – come aveva detto al processo – nessuno canta se sta soffrendo, nemmeno l’usignolo. Come il cigno, Socrate vede ora dunque la propria morte, ma vede anche chiaramente che è solo il nostro terrore dell’ignoto che ci spinge a temerla. Dopo un attimo di meditazione, il coro riprende e fa sua l’idea (“The swan, the swan sings”, 5’39”) e accompagna Socrate nell’ultima celebrazione di sé e della propria coerenza interiore. Le parole si fanno sempre più lente, cadenzate: “The swan sings” ripete infine ancora una volta anche Socrate, con il ritmo di chi è ormai preda della paralisi e della morte. Alle donne il compito di dare l’ultima risonanza al lutto.