Il percorso artistico dell’olandese Louis Andriessen (classe 1939, tutt’oggi attivo) appare decisamente inusuale rispetto a quello di molti compositori nord europei nati fra le due guerre. Nonostante i primi brani di Andriessen (ad esempio Séries, 1958) non lascino sospettare nulla di diverso rispetto al clima dell’epoca, ben presto, rileggendo la lezione di Stravinsky e aprendosi a una visione musicale più ampia, Andriessen si è portato su binari spesso in aperto contrasto con la logica della scuola di Boulez e di Stockhausen.
Il primo seme di quest’indipendenza di linguaggio Andriessen lo riceve durante il periodo della formazione. Dopo avere frequentato il conservatorio a L’Aja, viene a studiare con Luciano Berio in Italia. Studiare con Berio non significava solo confrontarsi con uno dei compositori più vivaci e intellettualmente curiosi di quegli anni, ma anche entrare in un circolo culturale che radunava personalità di ogni tipo: Bruno Maderna, Cathy Barberian, ma anche Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Dario Del Corno e molti altri, tutti frequentatori della casa milanese di Berio.
Tornato in Olanda, Andriessen fa il suo secondo incontro fondamentale, quello con l’America. I Paesi Bassi sono in quegli anni un importante crocevia nel panorama jazzistico, non solo fiorenti di una tradizione autoctona, ma frequentati da musicisti d’Oltreoceano che cercavano fortuna sui palchi europei, nei quali le problematiche razziali sembravano meno evidenti che negli States. Il jazz non è l’unica novità che l’America offre ad Andriessen. In quegli anni, un gruppo di musicisti proponeva un’avanguardia che sembrava virare bruscamente rispetto al percorso che la musica occidentale aveva intrapreso fino ad allora: il minimalismo.
Da questi incontri scaturisce la decisione di voltare le spalle alle istituzioni e agli organici ufficiali. Andriessen costituisce un proprio ensemble (De Volharding, “La Perseveranza”), su modello di quelli creati da compositori come Steve Reich e Philip Glass. I gruppi strumentali scelti da Andriessen sono inusuali: spesso trovano spazio sassofoni, chitarre e bassi elettrici, un organico modulato su quello della moderna Big Band. Andriessen tuttavia non si limita ad accogliere passivamente le proposte della musica americana, ma, dopo averle assimilate, fornisce una risposta dal sapore inconfondibilmente europeo. In quest’ottica si inserisce la composizione De Tijd (Il Tempo), datata 1981.
Come recita il titolo, il brano rappresenta il punto d’approdo delle riflessioni di Andriessen sul tempo, parametro di cui i minimalisti avevano offerto una radicale rilettura. La composizione è preceduta da mesi di letture alla ricerca non solo di un testo su cui strutturare il brano, ma anche di una visione filosofica profonda sul problema del tempo. Il punto di partenza è Dante con il verso diciassettesimo dal XVII canto del Paradiso: “Mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti”. Le Confessioni di Agostino sono l’ultimo e finale approdo di un lungo percorso che si snoda fra i trattati del naturalismo rinascimentale e le più moderne teorie einsteiniane. La frase che colpisce Andriessen è collocata nel libro XI al paragrafo 14.17: Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio. Tuttavia, Andriessen sceglierà, anche per una personale ossessione numerica, di musicare il paragrafo undici di quel libro, in cui si affronta il problema della relazione fra passato, presente e futuro.
L’attingere alla cultura letterario-filosofica di età antica e medievale-rinascimentale non è inusuale per Andriessen. Nella sua vasta produzione troviamo: Il Principe (1974) da Machiavelli; De Staat (1976), fondato sulla Repubblica di Platone; delle musiche di scena per un Orpheus (1977); Odysseus’ Women (1995), da Omero; Writing to Vermeer (1999), con libretto di Peter Greenaway ispirato a documenti e lettere connesse al celebre pittore olandese; Racconto dall’Inferno (2004), da Dante. Questo interesse per la cultura classica (e non solo classica) in parte riflette l’amore per i linguaggi antichi, soprattutto musicali, in parte è un lascito dei suoi anni milanesi.
Andriessen con De Tijd vuole esprimere l’idea dell’eterno presente in cui si annullano passato e futuro. Implicitamente, la composizione è anche una risposta alla ripetitività del minimalismo. De Tijd offre l’illusione di essere una musica statica, sempre uguale e ripetitiva ma in realtà, nella sua apparente immobilità, muta sempre senza mai risultare uguale a se stessa. Il materiale musicale di partenza è estremamente semplice (fig. 1), due accordi di settima di dominante (senza la quinta), collocati alla distanza di un intervallo di quinta giusta: mi, sol#, re, cui si aggiunge si, re#, la. Si tratta di una sovrapposizione accordale che si rispecchia in continuazione dentro se stessa. Entrambe le settime di dominante, accordo di tensione che necessita di una risoluzione, contengono la nota verso cui tende l’altro accordo, il mi e il la. L’ascoltatore è immerso in una dimensione temporale non lineare, ma circolare. Proprio il cerchio è il simbolo che indica nella musica medievale il tempus perfectum, la scansione metrica basata sul 3, a cui si contrappone il tempus imperfectum, basato sul 2. La simbologia numerica del 2 e del 3 e i rapporti matematici scaturiti dalla loro relazione intrecciano l’intero brano.
Il testo di Agostino è affidato a un coro di voci femminili. L’uso dell’elemento testuale si richiama, in modo molto semplice, alla tecnica medievale del Cantus Firmus, per cui ogni sillaba è intonata su una lunga nota tenuta. Si tratta di un principio che, rivisitato rispetto alla sua antica origine, appare più fonetico che semantico. A sostenere il coro troviamo la sezione degli archi (curiosamente priva dei violoncelli), che delinea le statiche armonie del pezzo. Su questi due elementi si innestano gli interventi del resto del grande Ensemble , che prevede: 6 flauti, 2 flauti contralti, 3 clarinetti bassi, un clarinetto contrabbasso, 6 trombe, due arpe, l’organo Hammond, due chitarre basse, più una nutrita sezione di percussioni.
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Il brano appare all’ascolto come un immobile flusso musicale che scorre con estrema lentezza (si tratta di 248 battute che si estendono per la durata di circa 40 minuti). Per la prima parte del brano non si verifica alcun avvenimento significativo, la percezione fatica a cogliere movimenti o mutamenti, che in realtà sono continuamente presenti. Con l’avanzare della composizione, i Pattern ritmici, all’inizio estremamente dilatati, si accorciano progressivamente e l’entrata della sezione dei fiati rende maggiormente percepibile la cangiante struttura ideata da Andriessen. La staticità di coro e archi, raffiguranti l’atemporalità, impatta con i materiali dei fiati e delle percussioni, che realizzano eventi temporalmente connotati.
Andriessen con quest’ampia e disorientante struttura sonora restituisce il senso del testo di Agostino, dove eternità e temporalità sono poste in confronto dialettico fra di loro, la prima segno di una realtà ultraterrena, la seconda dell’ineludibile condizione umana. Tuttavia, il brano non sembra suggerire una risposta al dilemma agostiniano, ma ne prende semplicemente atto. L’edificio sonoro si spegne nel nulla, resta solo una rapida cellula ritmica percossa dai legnetti, forse il ticchettio di un orologio, forse il nescio dell’uomo di fronte all’enigma del tempo.
© Mattia Sonzogni, 2020
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Per chi fosse interessato a Andriessen, ricordiamo il volume miscellaneo, Andriessen a cura di Enzo Restagno, edizioni EDT, Torino, 1996; un’intervista realizzata da Carlo Boccadoro in Musica coelestis. Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Einaudi, Torino 1999; l’articolo di Tom Service, A guide to Louis Andriessen’s music, all’indirizzo https://www.theguardian.com/music/tomserviceblog/2012/oct/15/louis-andriessen-classical-music-guide; il sito http://musicinmovement.eu/composers/louis-andriessen.