Come affrontare a scuola un poema complesso e sfuggente come le Metamorfosi di Ovidio? Inevitabilmente si tratta di selezionare, di banalizzare forse: gli spazi e i tempi dettati dai programmi scolastici non consentono a chi insegna di essere ambizioso come Ovidio e di abbracciare l’intera storia (dell’opera, e del mondo in essa rappresentato). Questa, allora, la proposta che avanzo: siccome ci si rivolge a dei giovani (gli studenti), si dedichi attenzione ai giovani che compaiono nel poema. Due sono i vantaggi di un simile approccio: il primo è occuparsi di personaggi che sono teoricamente già noti agli studenti da letture pregresse, o che non possono non essere loro noti; il secondo, potere richiamare Virgilio, punto di confronto ineludibile per i poeti epici venuti dopo di lui, e quindi anche per lo stesso Ovidio.
Virgilio, l’ha spiegato Massimo Gioseffi in un articolo del lontano 2008, è l’autore che per primo apre le porte dell’epica a figure di adolescenti, accomunate dall’anelito a cimentarsi precocemente nella guerra, spesso per dimostrarsi all’altezza dei padri; solo che la guerra non è un gioco da ragazzi, e i giovani sono quasi sempre destinati a soccombere in una lotta che si configura impari fin dall’inizio. Ovidio riprende questa dialettica giovane-vecchio, padre-figlio, ma in maniera originale. I giovanissimi che popolano l’orizzonte delle Metamorfosi si cimentano a loro volta in azioni intempestive e non commisurate alle loro capacità; ma, a differenza di quanto avviene nell’Eneide, queste azioni non hanno nulla di eroico. Sono solo audaci (per qualsiasi mortale, figurarsi quindi per chi non ha ancora raggiunto il pieno controllo delle proprie capacità!), oppure incaute o anche solo semplicemente inconsapevoli. Da ciò deriva una seconda differenza rispetto a Virgilio, differenza che ha a che fare con l’atteggiamento del poeta nei riguardi dei propri personaggi. Virgilio compiange simpateticamente le vittime della guerra, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, e quale che ne sia la responsabilità circa l’epilogo drammatico cui vanno incontro. Ovidio, invece, non mostra necessariamente simpatia per i “suoi” giovani: essi sono artefici della propria rovina, senza sconti e senza riscatto. La rovina è anzi, spesso, la conseguenza diretta della loro giovinezza e delle caratteristiche, in gran parte negative, associate dal mondo latino a questa età.
Ecco allora tre proposte di lettura, dedicate ad altrettanti personaggi delle Metamorfosi: tutti (o quasi)a confronto, ideale o reale, con gli insegnamenti dei rispettivi padri. Per ognuno di essi offro qui un breve sunto, volutamente orientato, della vicenda in cui è coinvolto e la motivazione della scelta. In allegato, aggiungo una possibile “traduzione” didattica degli episodi esaminati. Alcune precisazioni: le tre proposte sono destinate, idealmente, a una classe quarta di liceo classico o scientifico. “Idealmente”, perché l’allegato può essere scaricato, modificato e riadattato a seconda dei contesti e delle intenzioni di ogni comunità entro la quale si pensi di leggere i testi. Le proposte sono concepite anche come alternative, e non necessariamente come sommative.
Ancora, in merito ai tempi e agli spazi: tutti i percorsi prevedono una parte di lavoro da eseguire in classe, una parte a casa, a cura degli studenti. In classe si svolgono le fasi di elicitazione, di comprensione e di analisi dei testi. Le acquisizioni vengono rielaborate e riepilogate nella fase di sintesi, in un’ottica di dialogo fra insegnante e alunni. A casa viene assegnata l’analisi, per così dire, “letteraria” dei brani proposti, sulla scorta di confronti con i modelli e le rielaborazioni successive.
Fetonte è il primo personaggio di questa rassegna dedicata ai giovani nelle Metamorfosi: il primo per collocazione nella compagine dell’opera (I e II libro), e forse anche per importanza, dato che l’episodio che lo vede protagonista è uno dei più lunghi del poema. E dei più noti: numerose sono state le interpretazioni, anche politiche (si pensi all’analisi proposta da Alessandro Barchiesi). Personalmente, intendo soffermarmi sulla interpretazione letterale del testo. Due i nuclei tematici principali della vicenda: il primo è la conferma della paternità del ragazzo, condizione preliminare – in una società spiccatamente patrilineare come quella romana – all’affermazione della propria identità. Il secondo concerne l’incapacità di Fetonte di guidare il carro del Sole. Il dio, per convincere il ragazzo che è veramente suo figlio, gli ha concesso di domandare qualsiasi cosa voglia. Fetonte chiede di essere, per un giorno, auriga del cocchio con cui il dio porta la luce sulla terra. La richiesta è densa di significato: Fetonte vuole sostituirsi al padre nel compito che gli è proprio e che più lo qualifica. Se si mostrasse all’altezza, dimostrerebbe di esserne il degno figlio. Il Sole, di fronte alla richiesta, rimpiange la propria promessa, e tenta di fare cambiare idea al figlio. Significativamente, il primo argomento a cui ricorre è proprio la giovinezza e la debolezza che ad essa è intrinseca: Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis / munera conveniant nec tam puerilibus annis (vv. 54-55). L’aggettivo puerilis, preceduto dall’avverbio rafforzativo tam, fa apparire la richiesta come il capriccio di un bambino, che non si rende conto di stare scherzando col fuoco (nel vero senso della parola). In seguito, il Sole fa notare a Fetonte che ciò che desidera non è adatto a un mortale: chiedendo di guidare il carro, infatti, pretende più di quanto perfino un dio potrebbe sperare. Le aspirazioni di Fetonte sono inadeguate e determinate dall’inconsapevolezza, come segnalato dall’attributo nescius (v. 589). In tale inconsapevolezza sarei incline a vedere, di nuovo, un riferimento alla giovane età del figlio: agli occhi del padre, Fetonte appare un ragazzetto in preda alla propria ambizione, che non sa quello che vuole. Infine, il Sole promette a Fetonte che la mancata soddisfazione della richiesta sarà compensata dall’ottenimento di qualunque altra cosa possieda l’universo ricchissimo. La risposta è prevedibile: il giovane non sa individuare il proprio ruolo nel mondo, ed è eccessivo nelle ambizioni. A questo punto, il Sole si rassegna. Fa un ultimo tentativo per convincere Fetonte a non volersi sostituire a lui: ma Fetonte conferma il suo essere inscius delle proprie forze e si butta con foga sul carro. L’epilogo è tragico, ma tutto inscritto nelle premesse del racconto: Fetonte è debole e nuovo al mestiere (l’accezione negativa sottesa all’idea di novitas nel mondo romano trova qui conferma), il cocchio non gli risponde. Quando si rende conto dell’altezza vertiginosa cui l’ha condotto la propria ambizione e che, alla prova dei fatti, non è in grado di dominare, il giovane si fa prendere dalla paura, trema e sviene. Finalmente è consapevole della propria responsabilità: adesso rimpiange di avere ottenuto dal padre ciò che voleva; preferirebbe, dice, chiamarsi figlio di Merope. Ma è troppo tardi: l’universo rischia la catastrofe e Giove interviene a salvare la situazione. Con le sue folgori colpisce Fetonte, che rotola giù dal carro tanto agognato e precipita nel fiume Eridano.
È lo stesso Ovidio ad accostare Fetonte e Icaro nell’elegia proemiale dei Tristia. Anche Icaro esce di rotta e finisce per volare troppo in alto; tentativo che, per entrambi, si risolve in un fallimento: Fetonte precipita nell’Eridano, Icaro nel mare che da lui prende il nome. Se il Sole si era però mostrato troppo accondiscendente nei confronti del figlio (salvo pentirsene e cercare di farlo ravvedere, quando ormai è troppo tardi), le responsabilità di Dedalo sembrano accentuarsi. È lui il colpevole dell’esilio da Atene; è sempre lui a volere fare ritorno in patria per mezzo di un volo inadatto a un mortale, e quindi a maggiore ragione tale per un puer, quale è suo figlio. Ma Ovidio non risparmia nemmeno Icaro: è Icaro che, ignarus sua se tractare pericla (met. VIII 196), si compiace dell’apparato di penne costruitogli dal padre, entro il quale si pavoneggia prima e dopo di sperimentarlo nel volo. E sempre Icaro che, inebriato dall’audacia della nuova esperienza, cum puer audaci coepit gaudere volatu (met. VIII 223), si avvicina troppo al sole, dimentico dei consigli paterni, e provoca così lo scioglimento delle ali che il padre gli aveva fabbricato. Dedalo e Icaro sono figure che dovrebbero essere già note alla classe, perché sono state incontrate nella presentazione del carme 64 di Catullo e del VI libro dell’Eneide. La rielaborazione ovidiana del mito consente di approfondire la loro vicenda. Proprio il confronto con i pochi versi virgiliani può risultare però particolarmente significativo sia del diverso modo di costruire la narrazione da parte dei due poeti, sia del diverso pathos e valore morale che ognuno di essi attribuisce alla vicenda. Un esempio di audacia punita per l’uno come per l’altro poeta: ma mentre Ovidio insiste, come s’è visto, sulle colpe umane dei suoi protagonisti, Virgilio (che pone il mito come esempio di coppia mortale che sfida le leggi della Natura, esattamente come di lì a poco faranno, con la catabasi da vivo di Enea, anche l’eroe troiano e suo padre) assegna al racconto un valore quasi “figurale”, e lo trasformazione nell’ammonizione a non volere trascendere le leggi della vita, se non si ha la sicurezza del favore divino. Facilis descensus Averno.
L’ultimo personaggio che propongo in questo percorso è Proserpina. La dea si segnala rispetto ai due casi precedenti, in quanto il racconto che la riguarda mette in gioco un universo al femminile, con una figlia e una madre, e non un padre (situazione per la quale non sarebbero mancati altri possibili casi, così come numerosi sono ancora i casi di giovani inscii, uno per tutti Narciso). Ho però scelto Proserpina proprio per la possibilità di una declinazione tutta al femminile della sua vicenda, e tutta entro un ambito divino. Anche Proserpina, infatti, come Fetonte e Icaro, vanifica i tentativi del genitore (qui, una genitrice) di conservarla in vita. La ragazza viola la condizione che Giove aveva posto a Cerere perché la figlia potesse tornare stabilmente sulla terra. Cibandosi di sette chicchi di melograno mentre passeggia nei campi dell’Averno, ella sancisce la propria appartenenza a quel regno per altrettanti mesi dell’anno e compie una scelta che non è però, così come la propone il poeta, un atto voluto e meditato di affermazione di sé e della propria autonomia, ma un gesto compiuto per leggerezza, senza stare a pensarci troppo, avvenuto cultis dum simplex errat in hortis (met. V 535).
Simplex, ignarus, nescius: l’aggettivazione messa in campo da Ovidio è ferrea e significativa. L’audacia, nel bene e nel male, è caratteristica connaturata alla giovinezza; audax era, fin dalla sua prima apparizione (Aen. VIII 110), anche il virgiliano Pallante, l’icona forse più bella dei giovani nell’Eneide. Ma audax e audacia sono, in latino, voces mediae, parole che si possono interpretare in senso tanto positivo quanto negativo. L’epica si era perciò incaricata di spiegare ai lettori come, e con quali cautele, l’audacia andasse incanalata, per diventare dote costruttiva, e non distruttiva, di sé e degli altri. Virgilio aveva posto il problema, individuando nella dinamica padri/figli e nel bisogno emulativo che i figli nutrono nei confronti dei padri l’elemento di forza, ma anche di rischio, nel rapporto fra le generazioni. Ovidio, più attento alle ragioni interiori dei suoi personaggi, evidenzia quali siano le ragioni di un possibile fallimento di quella dinamica. Ai giovani di oggi il compito di tornare a discutere sull’argomento, con le loro proposte e le loro convinzioni!
© Valentina Chinese, 2021