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  • I giovani nelle Metamorfosi

    I giovani nelle Metamorfosi

    Come affrontare a scuola un poema complesso e sfuggente come le Metamorfosi di Ovidio? Inevitabilmente si tratta di selezionare, di banalizzare forse: gli spazi e i tempi dettati dai programmi scolastici non consentono a chi insegna di essere ambizioso come Ovidio e di abbracciare l’intera storia (dell’opera, e del mondo in essa rappresentato). Questa, allora, la proposta che avanzo: siccome ci si rivolge a dei giovani (gli studenti), si dedichi attenzione ai giovani che compaiono nel poema. Due sono i vantaggi di un simile approccio: il primo è occuparsi di personaggi che sono teoricamente già noti agli studenti da letture pregresse, o che non possono non essere loro noti; il secondo, potere richiamare Virgilio, punto di confronto ineludibile per i poeti epici venuti dopo di lui, e quindi anche per lo stesso Ovidio.

    Virgilio, l’ha spiegato Massimo Gioseffi in un articolo del lontano 2008, è l’autore che per primo apre le porte dell’epica a figure di adolescenti, accomunate dall’anelito a cimentarsi precocemente nella guerra, spesso per dimostrarsi all’altezza dei padri; solo che la guerra non è un gioco da ragazzi, e i giovani sono quasi sempre destinati a soccombere in una lotta che si configura impari fin dall’inizio. Ovidio riprende questa dialettica giovane-vecchio, padre-figlio, ma in maniera originale. I giovanissimi che popolano l’orizzonte delle Metamorfosi si cimentano a loro volta in azioni intempestive e non commisurate alle loro capacità; ma, a differenza di quanto avviene nell’Eneide, queste azioni non hanno nulla di eroico. Sono solo audaci (per qualsiasi mortale, figurarsi quindi per chi non ha ancora raggiunto il pieno controllo delle proprie capacità!), oppure incaute o anche solo semplicemente inconsapevoli. Da ciò deriva una seconda differenza rispetto a Virgilio,  differenza che ha a che fare con l’atteggiamento del poeta nei riguardi dei propri personaggi. Virgilio compiange simpateticamente le vittime della guerra, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, e quale che ne sia la responsabilità circa l’epilogo drammatico cui vanno incontro. Ovidio, invece, non mostra necessariamente simpatia per i “suoi” giovani: essi sono artefici della propria rovina, senza sconti e senza riscatto. La rovina è anzi, spesso, la conseguenza diretta della loro giovinezza e delle caratteristiche, in gran parte negative, associate dal mondo latino a questa età.

    Ecco allora tre proposte di lettura, dedicate ad altrettanti personaggi delle Metamorfosi: tutti (o quasi)a confronto, ideale o reale, con gli insegnamenti dei rispettivi padri. Per ognuno di essi offro qui un breve sunto, volutamente orientato, della vicenda in cui è coinvolto e la motivazione della scelta. In allegato, aggiungo una possibile “traduzione” didattica degli episodi esaminati. Alcune precisazioni: le tre proposte sono destinate, idealmente, a una classe quarta di liceo classico o scientifico. “Idealmente”, perché l’allegato può essere scaricato, modificato e riadattato a seconda dei contesti e delle intenzioni di ogni comunità entro la quale si pensi di leggere i testi. Le proposte sono concepite anche come alternative, e non necessariamente come sommative.

    Ancora, in merito ai tempi e agli spazi: tutti i percorsi prevedono una parte di lavoro da eseguire in classe, una parte a casa, a cura degli studenti. In classe si svolgono le fasi di elicitazione, di comprensione e di analisi dei testi. Le acquisizioni vengono rielaborate e riepilogate nella fase di sintesi, in un’ottica di dialogo fra insegnante e alunni. A casa viene assegnata l’analisi, per così dire, “letteraria” dei brani proposti, sulla scorta di confronti con i modelli e le rielaborazioni successive.

    Fetonte è il primo personaggio di questa rassegna dedicata ai giovani nelle Metamorfosi: il primo per collocazione nella compagine dell’opera (I e II libro), e forse anche per importanza, dato che l’episodio che lo vede protagonista è uno dei più lunghi del poema. E dei più noti: numerose sono state le interpretazioni, anche politiche (si pensi all’analisi proposta da Alessandro Barchiesi). Personalmente, intendo soffermarmi sulla interpretazione letterale del testo. Due i nuclei tematici principali della vicenda: il primo è la conferma della paternità del ragazzo, condizione preliminare – in una società spiccatamente patrilineare come quella romana – all’affermazione della propria identità. Il secondo concerne l’incapacità di Fetonte di guidare il carro del Sole. Il dio, per convincere il ragazzo che è veramente suo figlio, gli ha concesso di domandare qualsiasi cosa voglia. Fetonte chiede di essere, per un giorno, auriga del cocchio con cui il dio porta la luce sulla terra. La richiesta è densa di significato: Fetonte vuole sostituirsi al padre nel compito che gli è proprio e che più lo qualifica. Se si mostrasse all’altezza, dimostrerebbe di esserne il degno figlio. Il Sole, di fronte alla richiesta, rimpiange la propria promessa, e tenta di fare cambiare idea al figlio. Significativamente, il primo argomento a cui ricorre è proprio la giovinezza e la debolezza che ad essa è intrinseca: Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis / munera conveniant nec tam puerilibus annis (vv. 54-55). L’aggettivo puerilis, preceduto dall’avverbio rafforzativo tam, fa apparire la richiesta come il capriccio di un bambino, che non si rende conto di stare scherzando col fuoco (nel vero senso della parola). In seguito, il Sole fa notare a Fetonte che ciò che desidera non è adatto a un mortale: chiedendo di guidare il carro, infatti, pretende più di quanto perfino un dio potrebbe sperare. Le aspirazioni di Fetonte sono inadeguate e determinate dall’inconsapevolezza, come segnalato dall’attributo nescius (v. 589). In tale inconsapevolezza sarei incline a vedere, di nuovo, un riferimento alla giovane età del figlio: agli occhi del padre, Fetonte appare un ragazzetto in preda alla propria ambizione, che non sa quello che vuole. Infine, il Sole promette a Fetonte che la mancata soddisfazione della richiesta sarà compensata dall’ottenimento di qualunque altra cosa possieda l’universo ricchissimo. La risposta è prevedibile: il giovane non sa individuare il proprio ruolo nel mondo, ed è eccessivo nelle ambizioni. A questo punto, il Sole si rassegna. Fa un ultimo tentativo per convincere Fetonte a non volersi sostituire a lui: ma Fetonte conferma il suo essere inscius delle proprie forze e si butta con foga sul carro. L’epilogo è tragico, ma tutto inscritto nelle premesse del racconto: Fetonte è debole e nuovo al mestiere (l’accezione negativa sottesa all’idea di novitas nel mondo romano trova qui conferma), il cocchio non gli risponde. Quando si rende conto dell’altezza vertiginosa cui l’ha condotto la propria ambizione e che, alla prova dei fatti, non è in grado di dominare, il giovane si fa prendere dalla paura, trema e sviene. Finalmente è consapevole della propria responsabilità: adesso rimpiange di avere ottenuto dal padre ciò che voleva; preferirebbe, dice, chiamarsi figlio di Merope. Ma è troppo tardi: l’universo rischia la catastrofe e Giove interviene a salvare la situazione. Con le sue folgori colpisce Fetonte, che rotola giù dal carro tanto agognato e precipita nel fiume Eridano.      

    È lo stesso Ovidio ad accostare Fetonte e Icaro nell’elegia proemiale dei Tristia. Anche Icaro esce di rotta e finisce per volare troppo in alto; tentativo che, per entrambi, si risolve in un fallimento: Fetonte precipita nell’Eridano, Icaro nel mare che da lui prende il nome. Se il Sole si era però mostrato troppo accondiscendente nei confronti del figlio (salvo pentirsene e cercare di farlo ravvedere, quando ormai è troppo tardi), le responsabilità di Dedalo sembrano accentuarsi. È lui il colpevole dell’esilio da Atene; è sempre lui a volere fare ritorno in patria per mezzo di un volo inadatto a un mortale, e quindi a maggiore ragione tale per un puer, quale è suo figlio. Ma Ovidio non risparmia nemmeno Icaro: è Icaro che, ignarus sua se tractare pericla (met. VIII 196), si compiace dell’apparato di penne costruitogli dal padre, entro il quale si pavoneggia prima e dopo di sperimentarlo nel volo. E sempre Icaro che, inebriato dall’audacia della nuova esperienza, cum puer audaci coepit gaudere volatu (met. VIII 223), si avvicina troppo al sole, dimentico dei consigli paterni, e provoca così lo scioglimento delle ali che il padre gli aveva fabbricato. Dedalo e Icaro sono figure che dovrebbero essere già note alla classe, perché sono state incontrate nella presentazione del carme 64 di Catullo e del VI libro dell’Eneide. La rielaborazione ovidiana del mito consente di approfondire la loro vicenda. Proprio il confronto con i pochi versi virgiliani può risultare però particolarmente significativo sia del diverso modo di costruire la narrazione da parte dei due poeti, sia del diverso pathos e valore morale che ognuno di essi attribuisce alla vicenda. Un esempio di audacia punita per l’uno come per l’altro poeta: ma mentre Ovidio insiste, come s’è visto, sulle colpe umane dei suoi protagonisti, Virgilio (che pone il mito come esempio di coppia mortale che sfida le leggi della Natura, esattamente come di lì a poco faranno, con la catabasi da vivo di Enea, anche l’eroe troiano e suo padre) assegna al racconto un valore quasi “figurale”, e lo trasformazione nell’ammonizione a non volere trascendere le leggi della vita, se non si ha la sicurezza del favore divino. Facilis descensus Averno.

    L’ultimo personaggio che propongo in questo percorso è Proserpina. La dea si segnala rispetto ai due casi precedenti, in quanto il racconto che la riguarda mette in gioco un universo al femminile, con una figlia e una madre, e non un padre (situazione per la quale non sarebbero mancati altri possibili casi, così come numerosi sono ancora i casi di giovani inscii, uno per tutti Narciso). Ho però scelto Proserpina proprio per la possibilità di una declinazione tutta al femminile della sua vicenda, e tutta entro un ambito divino. Anche Proserpina, infatti, come Fetonte e Icaro, vanifica i tentativi del genitore (qui, una genitrice) di conservarla in vita. La ragazza viola la condizione che Giove aveva posto a Cerere perché la figlia potesse tornare stabilmente sulla terra. Cibandosi di sette chicchi di melograno mentre passeggia nei campi dell’Averno, ella sancisce la propria appartenenza a quel regno per altrettanti mesi dell’anno e compie una scelta che non è però, così come la propone il poeta, un atto voluto e meditato di affermazione di sé e della propria autonomia, ma un gesto compiuto per leggerezza, senza stare a pensarci troppo, avvenuto cultis dum simplex errat in hortis (met. V 535).

    Simplex, ignarus, nescius: l’aggettivazione messa in campo da Ovidio è ferrea e significativa. L’audacia, nel bene e nel male, è caratteristica connaturata alla giovinezza; audax era, fin dalla sua prima apparizione (Aen. VIII 110), anche il virgiliano Pallante, l’icona forse più bella dei giovani nell’Eneide. Ma audax e audacia sono, in latino, voces mediae, parole che si possono interpretare in senso tanto positivo quanto negativo. L’epica si era perciò incaricata di spiegare ai lettori come, e con quali cautele, l’audacia andasse incanalata, per diventare dote costruttiva, e non distruttiva, di sé e degli altri. Virgilio aveva posto il problema, individuando nella dinamica padri/figli e nel bisogno emulativo che i figli nutrono nei confronti dei padri l’elemento di forza, ma anche di rischio, nel rapporto fra le generazioni. Ovidio, più attento alle ragioni interiori dei suoi personaggi, evidenzia quali siano le ragioni di un possibile fallimento di quella dinamica. Ai giovani di oggi il compito di tornare a discutere sull’argomento, con le loro proposte e le loro convinzioni!

    © Valentina Chinese, 2021

  • Claudiano e Eutropio

    Claudiano e Eutropio

    Riportiamo l’audio dell’intervento tenutosi l’11 giugno 2020, su piattaforma Zoom, nell’ambito dell’incontro intitolato Extra limina. E’ un audio preso in diretta, con tutti i limiti e gli incidenti del caso, sia nell’esposizione che nella qualità sonora. Solo abbiamo “frantumato” la registrazione complessiva (della durata di poco più di trenta minuti), in modo da fare combaciare audio e schermate pdf, in occasione dell’incontro presentate a schermo condiviso. Sotto ogni immagine si trova quindi la sezione di parlato corrispondente. Tanto le immagini quanto l’audio sono scaricabili, con i procedimenti consueti.

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    © massimo gioseffi, 2020

  • Alida Airaghi – Euridice

    Alida Airaghi – Euridice

    In un convegno organizzato presso il Liceo “Gonzaga” di Milano, oggi ho assistito a una relazione che aveva per argomento la poetessa italiana Alida Airaghi, 1953-vivente. Oggetto della comunicazione era il componimento “Euridice”, risalente al 1998, ma pubblicato nel 2000, nel volume Litania Periferica, Manni Editore, Lecce, e ristampato poi nell’antologia Nuovi poeti italiani, VI, Torino, Einaudi, 2012.

    Non fingerò di avere qualche sapere specifico su questa poetessa, a me fino a oggi, lo confesso, del tutto sconosciuta (mea culpa), ma i cui versi mi hanno molto colpito. Quello che so è quanto si apprende dalla voce a lei dedicata dall’immancabile wikipedia; il poco che, per ragioni di tempo, è stato detto dalla relatrice odierna, l’ottima Alessandra Terrile, che ringrazio; quello che si apprende dal sito della poetessa, da cui ho ricavato anche il testo che trascrivo (http://www.alidaairaghi.com/). Lì si legge che Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953 e risiede a Garda. Dopo la laurea in lettere classiche a Milano, è vissuta e ha insegnato a Zurigo dal 1978 al 1992, come dipendente del Ministero degli Affari Esteri. Ha sposato il poeta friulano Siro Angeli, 1913-1991, da cui ha avuto le figlie Daria e Silvia. Collabora a diverse riviste, quotidiani e blog italiani e svizzeri. Il resto è l’elenco delle sue molte pubblicazioni, lungo un arco temporale che va dal 1984 al 2018.

    Euridice è una raccolta di nove sonetti, fortemente ritmici, nei quali viene raccontato il mito di Orfeo. A parlare è il mitico cantore che, persa la moglie, per sette sonetti progressivamente si avvicina all’idea dell’impresa mitica; nell’ottavo l’ha già compiuta, e accetta le condizioni imposte dalle divinità dell’Ade; nel nono elabora il lutto, decidendo di voltarsi a guardare Euridice.

    Ecco dunque il testo:

    EURIDICE

    I

    Niente succede a caso, niente.
    Che io ti abbia trovata, Euridice,
    che tu sia apparsa a me – felice
    di essere scoperta tra la gente –

    un giorno non qualunque
    di un non qualunque anno,
    pronta a svelarmi inganno e disinganno;
    per cui nel riconoscerti «Dunque

    sei tu», nient’altro, e basta:
    una stretta di mano, la mano
    nella mia tiepida appena, casta,

    e la voce che trema e non osa
    dire quello che sa, ma piano
    suggerisce altre cose, altra cosa.

    II

    E’ stata quindi una necessità
    incontrarti, te tra millecento
    che potevo, te pioggia sole vento
    e subito me stesso, mia metà.

    Più mia del mio sorriso e della pena,
    più mia della parola, di ogni gesto.
    Nome che chiamo, nome manifesto,
    sangue che pulsa lento nella vena.

    Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
    compagna e sposa mia, sorella mia,
    incisa nella pelle, cicatrice,

    che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
    e non capisco ancora come sia
    che perdo me nel ritrovarti, adesso.

    III

    Ascoltatemi, animali e voi piante,
    tu cielo – monti torrenti scarpate –
    voi cose sospese e interrate,
    cose che mi girate intorno, tante.

    Di certo non avrei mai creduto
    di afferrare l’esistente con un dito:
    se mi sento diventare infinito
    e poi limite e fine, sordo e muto.

    Euridice, continuo a nominare,
    Euridice che canto e che invento,
    Euridice, mio eterno pensare.

    Siamo in due, siamo due e uno solo:
    esserti fuori o dentro è tormento
    in cui affondo. E poi volo.

    IV

    Può finire un amore, può cessare
    di scorrere il sangue, così improvvisamente,
    bloccarsi un corpo, tacere una mente,
    e dicono non ci sia nulla da fare.

    Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
    non è possibile che non mi rispondi
    lì dove sei finita e ti nascondi,
    tornata sottoterra, mia radice.

    Ê uno scherzo, non può essere vero
    che rimanga di te solo il dolore:
    tutto intorno più nero del nero.

    Per questo alzati, cara, non fingere
    un silenzio adirato, accusatore.
    Non restartene lì come una sfinge.

    V

    Andrò da maghi a vendermi il destino,
    carte false farò con fattucchiere,
    annegato nell’acqua di un bicchiere
    perché non ci sei più, non ti ho vicino.

    Maledetti gli dei; quell’uno solo
    che ha deciso dall’alto del suo alto
    –  indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
    del cuore, trionfante nel suo ruolo –

    di lasciarti morire, Euridice,
    che non gli hai fatto niente,
    mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:

    lo maledico con tutto me stesso,
    dio colpevole e te innocente,
    per quello che ha voluto, che ha permesso.

    VI

    Se provassi a pregare, se riuscissi
    a convincerlo? Lui può fare
    che sia quel che non è, può fermare
    la terra, il sole, inventare un’eclissi.

    Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
    non c’è un motivo vero, una ragione
    per cui la vita mi diventi prigione,
    e quello che era mio non sia più mio.

    Ti scongiuro, signore dell’abisso,
    ti imploro, lascia che ritorni
    a fare uno di me che sono scisso.

    Del tutto vero quello che si dice:
    sono pronto a dannare i miei giorni
    per riportarla a me, Euridice.

    VII

    Verrò a prenderti, cara, verrò
    a liberarti, Euridice sprofondata
    in un sonno ingannatore; mia malata,
    rinuncerò a curarti, se vedrò

    che ti avvolgi in un buio più profondo.
    Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
    laggiù, lontana dal mio bene:
    hai paura di perderlo nel mondo?

    Ma io scendo, comunque, a salvarti:
    perché la vita vera è qui, è ora,
    nel mio presente, nel mio sempre pensarti.

    Non c’è assoluto che sia meglio
    di noi, del mio volerti ancora.
    Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.

    VIII

    Sono pronto a fare una promessa,
    barattando il mio sguardo col respiro
    di te viva, il mio silenzio-capogiro
    col tuo nome: Euridice principessa.

    Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
    con le mani, che non mi avvicino
    col mio corpo teso di bambino
    incantato dal paese dei balocchi:

    purché tu, semplicemente, sia
    rimarrò muto, cieco e sospeso
    vivendo viva e vera la magia

    del tuo ritorno; impazienza
    di averti, avendoti preteso,
    mia ombra inconsistente, mia esistenza.

    IX

    Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
    Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
    Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
    Euridice, mia madre e bambina.

    Come vorrei mi prendessi la mano,
    toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
    so che non devo, so cosa mi tocca
    se non resisto a starti lontano.

    Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
    oppure ti nascondi, resti indietro;
    segui ubbidiente il mio passo stanco

    e nel tuo passo leggero ti ascolto.
    Tu, trasparente pensiero di vetro:
    voglio appannarti. Ecco, mi volto.

  • Mitomania e mitomani III

    Mitomania e mitomani III

     

    I casi esaminati in precedenza possono essere ritenuti esemplari di una mitografia (Catullo crea il mito “Catullo”, ossia il mito del giovane poeta vittima di amici ed amanti, costruito da Catullo il poeta; Virgilio crea il mito del mondo bucolico tormentato da Amore, di cui Coridone è solo il primo esponente), ma non di una mitologia. Vorrei allora dedicare quest’ultimo post a personaggi mitologici, la cui possibile mitomania è svelata o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto in precedenza il narratore (come nel caso di Coridone  e “Virgilio”, il narratore della seconda egloga), o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto una tradizione mitografica precedentemente attestata con sufficiente forza per divenire agli occhi del lettore Verità.

    Parto ancora una volta da Catullo, più esattamente dal carme 64. Ne do qui per scontata la struttura: in occasione delle nozze fra Peleo e Teti, descritte realisticamente come tipiche nozze romane, al momento della presentazione dei doni per gli sposi il Narratore esterno si sofferma a descrivere una coperta fittamente ricamata. La coperta a poco a poco prende vita, o meglio prende vita la situazione narrativa delineata dai ricami, con una voce esterna, il narratore, e una interna che a un certo punto prende a sua volta la parola. Si tratta di Arianna, abbandonata da Teseo sulle coste di Nasso, che si lamenta del proprio crudele destino. Cosa ci dice di Teseo Arianna? Ovviamente, che è perfidus, ìmmemor e crudelis, cioè usa sostanzialmente gli stessi aggettivi che abbiamo visto utilizzati nel carme 30 per Alfeno. Come questi, anche Teseo, a detta di Arianna, non è stato ai patti: ha preso quello che gli serviva, ma si è liberato della zavorra non appena possibile. Ha fatto dei promissa, ha lasciato sperare qualcosa (iubere), e ha permesso poi che i venti portassero via le sue promesse (tutte espressioni ricorrenti anche nel carme 30). Lei è invece la vittima, vittima di un foedus non rispettato, un foedus che si immaginava stabile, ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo di Arianna, e facendo crollare speranze e certezze (vv. 132-142):

    “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris
    perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
    Sicine discedens neglecto numine divum,
    immemor a! devota domum periuria portas?
    Nullane res potuit crudelis flectere mentis
    consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
    immite ut nostri vellet miserescere pectus?
    At non haec quondam blanda promissa dedisti
    voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
    sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
    quae cuncta aereii discerpunt irrita venti…”.

    Nel seguito Arianna non fa che ripetere il lamento, solo dando carattere via via sempre più generale alle sue considerazioni (così non si comporta solo Teseo, ma tutti gli uomini maschi), arricchendo sempre di più anche l’elenco delle proprie passate benemerenze (vv. 143-153):

    Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
    nulla viri speret sermones esse fideles;
    quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
    nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
    sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
    dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
    Certe ego te in medio versantem turbine leti
    eripui, et potius germanum amittere crevi,
    quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
    Pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
    praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.

    Che cosa ci aveva però detto il Narratore di Teseo, e dei patti intercorsi fra i due amanti? Di Teseo, nella presentazione, si dice solo bene (vv. 81-85):

    Ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
    proicere optavit potius quam talia Cretam
    funera Cecropiae nec funera portarentur.
    Atque ita nave levi nitens ac lenibus auris
    magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.

    Di fronte alla difficoltà della patria (gli Ateniesi devono pagare un tributo di sangue a Minosse, re di Creta e padre di Arianna), Teseo si impegna in prima persona, come vuole l’etica romana; espone se stesso (suum corpus proicere optavit); pensa solo a vincere o a morire, se mai dovesse fallire. Di giochi d’amore non si fa parola, se non per dirci che è Arianna che, giovane e inesperta, non appena vede Teseo se ne innamora, perde la testa, non sa più chi sia e dove sia, exarsit e incenditur, sospirando, languendo, impallidendo, balbettando – tutti i signa amoris che ben conosciamo e ben conoscono i lettori di Catullo (vv. 86-102).

    Hunc simul ac cupido conspexit lumine virgo
    regia, quam suavis exspirans castus odores
    lectulus in molli complexu matris alebat,
    quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
    aurave distinctos educit verna colores,
    non prius ex illo flagrantia declinavit
    lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
    funditus atque imis exarsit tota medullis.
    Heu misere exagitans immiti corde furores
    sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
    quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
    qualibus incensam iactastis mente puellam
    fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
    Quantos illa tulit languenti corde timores!
    Quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
    cum saevum cupiens contra contendere monstrum
    aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!

    Anche dei patti non si fa parola. Il Narratore si limita a mettere in evidenza l’investimento forsennato, eccessivo ed unilaterale della principessa cretese, che con il suo labellum (il diminutivo assicura che sia il suo) offre doni agli dèi e fa voti per la vittoria di Teseo, fino a mettergli in mano il ben noto filo (vv. 103-104):

    Non ingrata tamen frustra munuscula divis
    promittens tacito succepit vota labello.

    Così armato, Teseo vince la lotta contro il Minotauro e vince la lotta contro il Labirinto, forse anche più difficile della prima (vv. 110-115):

    Sic domito saevum prostravit corpore Theseus
    nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
    Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
    errabunda regens tenui vestigia filo,
    ne labyrintheis e flexibus egredientem
    tecti frustraretur inobservabilis error.

    Naturalmente, il filo è stato dato ed accettato, quindi un qualche accordo ci deve essere stato. Ma quali siano i termini dell’accordo il Narratore non lo dice. Le ragioni di ciò possono essere molteplici, anche solo di tecnica narrativa (ellenistica). Resta però che i foedera pattuiti ai quali Arianna si appella nel suo lamento, nella narrazione non ci sono. C’è lei che si sbilancia; c’è un filo che viene dato ed accettato, ma non ci sono le condizioni di questa accettazione. Anche la narrazione della partenza è piuttosto sbrigativa, e anch’essa si svolge tutta dalla sola parte di Arianna (vv. 116-123):

    Sed quid ego a primo digressus carmine plura
    commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
    ut consanguineae complexum, ut denique matris,
    quae misera in gnata deperdita laeta
    omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
    aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
    aut ut eam devinctam lumina somno
    liquerit immemori discedens pectore coniunx?

    L’accoglienza  del punto di vista di Arianna, abbastanza indiscussa in tutta la critica (perché con gli occhi di Arianna la storia è stata raccontata da Catullo, naturalmente) ha determinato un passare sopra al controllo della veridicità delle parole di Arianna. Ma il poeta, in precedenza, ci ha detto che è lei a essere fuori di testa per amore. E allora, fino a che punto dobbiamo pensare che quanto ci dice sia vero, fino a che punto dovremo invece immaginare che, vittima di uno shock amoroso, di una delusione e una sovraesposizione sentimentale, non sia Arianna ad essere, più o meno coscientemente, preda della propria mitomania? Il dibattito è aperto…

    Il problema si ripresenta, anche più gravemente, con Virgilio. Nell’Eneide non mancano i narratori menzogneri: mentono di sicuro Giunone e la regina Amata, con quella che, seguendo Dupré, potremmo chiamare “mitomania maligna”; mente di sicuro Enea, che alla corte di Didone narra (o omette di narrare, a seconda dei casi) tutto ciò che gli conviene dire (o omettere), in accordo a quella che Dupré avrebbe chiamato “mitomania perversa”. Ma l’erede più diretta di Arianna è certamente Didone. Qui il narratore dice chiaramente che cosa pensa del comportamento della regina cartaginese. Nell’episodio fatale dell’incontro nella caverna, che dà inizio alla fase “attiva” dell’amore fra Didone ed Enea, egli chiama la resa di Didone una culpa (v. 172) e definisce “un pretesto” (per l’esattezza, usa il verbo praetexit) ogni riferimento successivo al coniugium. Ingannata dalle circostanze, e dal proprio stesso desiderio, Didone si crea nella propria mente una tipologia di legame che nella realtà non esiste, che è impossibile, e che Enea ha da subito indicato come tale. Questo è un passaggio che non andrebbe mai dimenticato (vv. 169-172):

    Ille dies primus leti primusque malorum
    causa fuit; neque enim specie famave movetur  
    nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
    coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

    Il dettaglio invece viene spesso trascurato, per l’adesione sentimentale ed emotiva al punto di vista di Didone, che Virgilio ha voluto ci fosse, e nella quale normalmente cadiamo irretiti noi tutti. Ora, il problema è lungo e complesso, e non intendo sviscerarlo qui. Però c’è un dato significativo: il narratore ha espresso un esplicito giudizio; l’ha espresso quando l’irreparabile è appena avvenuto, e ancora non se ne conoscono appieno le conseguenze. La scelta di raccontare la vicenda successiva dal punto di vista della donna ci dice che Virgilio non assolve Enea; ma il verso in questione ci invita anche a dubitare di tutte le asserzioni successive di Didone. La regina cartaginese è senz’altro in torto, le sue pretese e argomentazioni sono nulle, rispetto alla verità della Storia (= Enea deve arrivare nel Lazio). Tutto quello che dice è fonte di suggestione ed auto-convincimento, reazione a uno shock emotivo non completamente gestito. Dunque, mitomania? Enea potrà ribattere, a ragione, vv. 358-359, nec coniugis umquam / praetendi taedas aut haec in foedera veni.  Su questo dettaglio il narratore non lo smentisce, e non lo smentisce nemmeno Didone nella sua replica, che pure lo rintuzza circa le altre parti del discorso. Certo, Virgilio è sempre un poeta sfuggente a troppo facili schematizzazioni: e la narrazione accosta questa verità, confermata dal giudizio di prima del Narratore, a quella che invece è una palese bugia di Enea, che nella stessa battuta dice (vv. 357-358): Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto / speravi (ne finge) fugam. E questo mentre invece noi lettori sappiamo che la fuga Enea aveva tentato sì di nasconderla, eccome!, vv. 288-295. Enea non è però un mitomane, è un (semi)bugiardo, con una verità certa e tante piccole bugie al servizio di quella; ma questo non cambia la situazione di Didone.

    Chi però meglio di tutti ha sviluppato il tema della mitomania “mitologica”, chiamiamola così, è certamente Ovidio. L’opera da prendere in considerazione sono, ovviamente, le Heroides. Come sappiamo, si tratta di lettere di eroine, quindici in tutto (le lettere doppie appartengono a una diversa tipologia, e qui non mi interessano). Tutte le eroine che scrivono appartengono al mondo del mito – tale è per me anche Saffo, la Saffo di Ovidio, quanto meno. Ognuna di loro si relaziona a fonti precedenti (Omero, Callimaco, Apollonio Rodio, Euripide e i tragici tutti, ma anche gli stessi Catullo e Virgilio, cui le lettere di Arianna e Didone chiaramente si rivolgono) e a miti ben attestati e sicuri – resi tali comunque dalla fonte precedente cui Ovidio guarda – e ognuna di loro cerca di convincere il suo uomo lontano, e spesso fedifrago (ma non sempre: Laodamia e Ipermestra, ad esempio, fanno eccezione, in parte anche Penelope) a tornare da lei. Vengo però alla mitomania, intesa come invenzione continuata e continua di bugie mitologiche. Le lettere sono lettere, non hanno quindi una cornice o un narratore che ci dica come dobbiamo leggerle. Ma i miti sono preesistenti. E preesistenti in una forma letteraria precisa, alla quale Ovidio guarda e con i cui interstizi si diverte a giocare. Veniamo a un  caso specifico. Ho scelto la lettera di Issipile a Giasone, la numero VI della raccolta. Siamo nel mito delle Argonautiche: Giasone a Lemno si è unito a Issipile, ha concepito con lei due gemelli (ma non lo sa), è partito spronato dai compagni per riprendere l’impresa del Vello d’oro. L’impresa è riuscita grazie all’aiuto di Medea, con la quale Giasone fugge verso la propria casa in Tessaglia. Il ritorno è lungo, lento, travagliato, e certamente non ripassa da Lemno. Dalla Tessaglia giunge sull’isola un hospes, che racconta a Issipile del ritorno dell’eroe in patria; lui sta ben attento a quello che dice, ma prima della fine si tradisce: Giasone è tornato con Medea, tenendosi ben lontano dall’isola. Ciò significa che Issipile per Giasone rappresenta ora, al massimo, un lontano ricordo. La donna decide perciò di prendere lo stilo in mano, e scrive la sua lettera.

    Le eroine di Ovidio sono tutte grafomani, raccontano molte cose… Issipile racconta la vicenda del suo incontro con Giasone. Le donne di Lemno avevano ucciso tutti gli uomini dell’isola. Quando vedono avvicinarsi gli Argonauti non sanno bene come accoglierli. C’è un’assemblea, in cui prevale il parere di lasciarli sbarcare e fare finta di nulla, mentendo circa l’assenza di abitanti maschi. Non è però questa la posizione di Issipile, che sarebbe a favore del rifiutare lo sbarco ai marinai (vv. 51-54):

    Certa fui primo—sed me mala fata trahebant—
         hospita feminea pellere castra manu
    Lemniadesque viros—nimium quoque!—vincere norunt:
         milite tam forti vita tuenda fuit! 

    Questo dettaglio non è unico e sicuro in tutte le attestazioni della leggenda: Igino, ad esempio, non vi fa cenno, in Valerio Flacco, invece, le donne combattono contro gli Argonauti che si avvicinano all’isola. La notizia cui allude l’Issipile di Ovidio si ritrova solo in Apollonio Rodio, per quanto ne sappiamo: ed è perciò questo il segnale che, come l’epistola VII va letta sulla falsariga dell’Eneide, o la X su quella di Catullo (e la I su Omero ecc.), così questa dipende da Apollonio. Issipile, peraltro, è una signora facile alla costruzione mitografica anche nel resto dell’epistola. L’impresa di Giasone, della quale naturalmente lei ha solo notizie lontane e di riporto, la racconta nel testo per ben tre volte, in termini sempre diversi: la prima, di cui assegna la conoscenza a una generica fama, è tutta favorevole a Giasone (vv. 9-14): i buoi sputa-fuoco di Marte si sono lasciati aggiogare dall’eroe, i giganti si sono uccisi fra loro, il serpente/dragone, pur sempre vigile, è stato vinto dalla destra del giovane. La seconda, assegnata all’hospes tessalo è una ricostruzione un po’ meno gloriosa (vv. 31-40): ritroviamo le stesse azioni di prima, solo amplificate nella misura, con i boves Martis che arano il terreno docili, i terrigenae che si uccidono civili Marte, il serpente che si lascia incantare… Solo che, chiaramente, l’ultima e più gloriosa azione non è più merito di Giasone, mentre fa capolino, sia pure con un ruolo non ancora ben definito, la venefica paelex che lo accompagna, cioè Medea. La terza ricostruzione è, per Giasone, la meno onorifica di tutte. Qui l’eroe non solo è scomparso da qualsiasi azione gloriosa; ma ogni azione è assegnata all’intervento di Medea (vv. 97-98): è lei che coegit tauros iuga ferre, è lei che feros angues mulsit, in maniera oramai aperta e definitiva.

    Torno però, per concludere, a quanto avevo lasciato in sospeso, cioè la descrizione del soggiorno di Giasone a Lemno. Dopo il dettaglio che avevo segnalato (l’assemblea delle donne che decidono se e come accogliere gli Argonauti), dettaglio che – lo ripeto – serve sostanzialmente a mettere in evidenza la fedeltà di Ovidio ad Apollonio, Issipile rievoca la partenza degli Argonauti da Lemno, e in particolare l’atteggiamento tenuto da Giasone. In Apollonio la scena è questa: c’è un breve discorso di commiato, in cui l’eroe non promette nulla, ma ringrazia e saluta Issipile e le fa promettere che, in caso di nascita di un figlio, lo manderà appena possibile in Tessaglia, dai genitori dell’eroe, a Iolco. Poi Giasone sale sulla nave, primo di tutti gli Argonauti, dando il buon esempio agli altri. Quindi, la nave salpa, senza che nessuno dei suoi marinai si volti mai indietro. Ecco invece la descrizione che del soggiorno di Giasone a Lemno e della partenza del giovane fa ora Issipile (vv. 55-72):

    Urbe virum vidi tectoque animoque recepi.
         Hic tibi bisque aestas bisque cucurrit hiems. 
    Tertia messis erat, cum tu dare vela coactus 
         inplesti lacrimis talia verba tuis: 
    “Abstrahor, Hypsipyle. sed dent modo fata recursus;
         vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero. 
    Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo, 
         vivat et eiusdem simus uterque parens!”
    Hactenus. et lacrimis in falsa cadentibus ora 
         cetera te memini non potuisse loqui. 
    Ultimus e sociis sacram conscendis in Argon; 
         illa volat, ventus concava vela tenet.
    Caerula propulsae subducitur unda carinae:
         terra tibi, nobis adspiciuntur aquae. 
    In latus omne patens turris circumspicit undas; 
         huc feror et lacrimis osque sinusque madent. 
    Per lacrimas specto cupidaeque faventia menti 
         longius adsueto lumina nostra vident. 

    Giasone è costretto a partire, non volendolo (in effetti, anche in Apollonio è Eracle, unico a non avere legami sentimentali sull’isola, che spinge alla partenza; ma Giasone accoglie prontamente l’invito), e viene molto rimarcata la mancanza di entusiasmo dell’eroe (coactus, abstrahor, implesti lacrimis sinum ecc.). Nel suo discorso, Giasone dà per certa l’esistenza di un figlio, pur non ancora partorito. Il figlio, naturalmente, rinforza il legame familiare fra i due, facendone dei veri coniuges. Giasone si allontana proclamandosi per sempre vir di Issipile (in Apollonio si guarda bene dal fare alcuna promessa). Egli, nel complesso, mostra quindi una grande emozione, mentre è piuttosto freddo e burocratico in Apollonio. Giasone sale inoltre sulla nave per ultimo, anziché non per primo, e dopo la partenza continua a tenere lo sguardo fisso verso terra e verso Issipile. Fra i due si instaura così un lungo legame di sguardi, che ricorda le coppie di più teneri amanti (nelle Metamorfosi Ovidio recupera questo dettaglio per la coppia di sposi ideali, Alcione e Ceice; nella poesia decadente ricordo solo il caso parallelo de LAmore dei tre re di Sem Benelli).

    Sono queste delle semplici varianti mitografiche? È una risposta possibile. Siamo di fronte a quel processo di trasformazione del materiale epico in materiale elegiaco che è tipico di Ovidio? Certamente anche questo, ma senza dimenticare che la trasformazione qui non la compie il narratore/Ovidio, ma un personaggio che parla. E Issipile vive, soffre, scrive la sua lettera, e nella lettera scrive cose di fuoco in nome della scena che abbiamo appena letto. Del suo essersi impressa nel (sub?)cosciente della donna. Del di lei crederla vera. Della convinzione di Issipile di essere, grazie ad essa, la legittima uxor di Giasone, e come tale di potersi presentare. In altre parole: di una verità “altra” che la donna si è costruita, cosciente o incosciente, senza che il confine fra le due cose possa essere delineato con troppa sicurezza – una verità “altra” che nel momento in cui lei scrive si è rivelata chiaramente fasulla (e infatti Issipile scrive la sua lettera), ma che diventa il falso (o la bugia?) nella quale Issipile fin lì si è rifugiata, costruendo attorno ad essa tutto un mondo, in cui cercare la sopravvivenza. Effetto, ancora una volta, di uno shock, e di quella che per la poesia di primo secolo a.C. mi sembra la sola, possibile ragione di shock: l’amore, che è furor, morbus, ignis, e che proprio per questo tutto spiega e tutto giustifica. In questa ottica andrà inserito dunque il discorso sulla mitomania dei personaggi catulliani, virgiliani, ovidiani. 

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Il canto più bello

    Il canto più bello

    Tra poco meno di un mese, il 24 febbraio, andrà in scena al teatro alla Scala di Milano l’opera Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck (1714-1787), nell’allestimento, datato settembre 2015, proveniente dalla Royal Opera House, Covent Garden, di Londra, e firmato da John Fulljames per la regia e Hofesh Shechter per le coreografie. Leggermente diverso il cast rispetto allo spettacolo londinese di due anni fa, a suo tempo ampiamente pubblicizzato dalla diretta streaming ancora recuperabile in molti canali musicali. Lo spettacolo fu molto applaudito anche per alcune novità tecniche, che bisogna vedere come saranno risolte alla Scala: la presenza, ad esempio, abbastanza ingombrante di ballerini sulla scena; oppure, la disposizione dell’orchestra sul palcoscenico, e non nel golfo mistico, così da non stare davanti ai cantanti e rendere l’idea che la musica è lo strumento con il quale Orfeo cerca di vincere le inesorabili divinità dell’Ade.

    Proprio su questo punto vorrei incentrare il mio post. Il mito di Orfeo ha, com’è noto, radici antichissime in Grecia, e connessioni religiose che non intendo qui esaminare. Ciò non toglie infatti che le due più ampie narrazioni del mito siano considerabili quelle contenute nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio. Questi due testi vorrei mettere a raffronto, su un dettaglio specifico e particolare. Procediamo con ordine. Secondo tradizione, Orfeo perde la moglie, Euridice, morsa da una vipera o un serpente. Disperato, lui, che è un grande cantore capace di commuovere i sassi (letteralmente, e non solo come modo di dire) o di piegare a sé le piante, decide di recuperare l’amata consorte scendendo nell’Ade e cercando di impietosire le divinità che vi regnano. In un primo momento l’impresa sembrerebbe riuscire. Euridice gli viene restituita, ma alla condizione che durante tutto il tragitto di ritorno verso la superficie terrestre lui non le rivolga mai lo sguardo. Così non avviene, ed Euridice muore una seconda volta, e definitivamente. Orfeo, disperato, la piange rifiutando ogni contatto con altre donne (in Virgilio; accettando solo quello con altri uomini, in Ovidio), finché le donne (o le Baccanti) della Tracia, la sua regione di provenienza, esasperate lo assalgono e lo fanno a pezzi.

    Rappresentare la scena del canto di Orfeo, nell’epos come a teatro, comporta una sfida non da poco: Orfeo deve poter essere l’autore di una musica tanto bella e commovente da piegare ai propri desideri perfino le divinità dell’Oltretomba. L’opera lirica ha sentito subito il valore di una simile sfida: che si faccia iniziare la storia del genere dalla Euridice di Jacopo Peri (Firenze 1600) o da quella di Giulio Caccini (Firenze 1602, entrambe sul libretto di Ottavio Rinuccini), oppure dall’Orfeo di Claudio Monteverdi (Mantova 1607, su libretto di Alessandro Striggio; questo è, fra i tre titoli, il solo che ancora sia rimasto in repertorio) – questione che qui lascerò irrisolta – è evidente infatti come il mito abbia affascinato librettisti e compositori fin dalle primissime origini. Ed era ovvio che fosse così. Fra l’Orfeo di Monteverdi e quello di Gluck (I edizione, Vienna 1762, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi; II edizione, Parigi 1774, in francese, su libretto di Pierre Louis Moline, in teoria la versione che si dovrebbe sentire alla Scala. Va detto però che l’opera subì vari rimaneggiamenti dopo la morte di Gluck, nel 1859 da parte di Hector Berlioz che ne fece un veicolo di successo per il contralto Pauline Viardot; nel 1889 dall’editore Giulio Ricordi, che stampò un’edizione che mescolava pezzi delle diverse versioni precedenti – ed è questo fra l’altro l’Orfeo che più spesso si è sentito nei teatri e nelle sale di incisione, benché fra tutti sia certamente il più fasullo) – fra i due Orfei, dicevo, corrono poco più di 150 anni ma almeno un centinaio di rifacimenti diversi. Non è però nemmeno questa la storia che vorrei seguire.

    Quello che mi interessa, come dicevo, è la sfida di rappresentare un canto che commuova gli dèi della morte. Virgilio risolse la cosa da par suo. Ecco i versi che si riferiscono alla scena che ci interessa, subito dopo che il narratore (non Virgilio, ma l’indovino Proteo) ci ha ricordato l’immenso dolore provato dal celebre cantore, cui si riferisce il participio ingressus nella terza riga del testo riportato (= georg. IV 467-486):

    Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
    et caligantem nigra formidine lucum
    ingressus Manesque adiit regemque tremendum
    nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
    At cantu commotae Erebi de sedibus imis
    umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
    quam multa in foliis avium se milia condunt
    vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
    matres atque viri defunctaque corpora vita
    magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
    impositique rogis iuvenes ante ora parentum,
    quos circum limus niger et deformis harundo
    Cocyti tardaque palus inamabilis unda
    alligat et noviens Styx interfusa coercet.
    Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
    Tartara caeruleosque implexae crinibus angues
    Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
    atque Ixionii vento rota constitit orbis.
    Iamque pedem referens casus evaserat omnes…

    In pratica, Virgilio sceglie l’ellissi. Orfeo entra nell’Aldilà attraverso le fauci del Tenaro, porta dell’Oltretomba; raggiunge le profondità della terra e le divinità che vi risiedono (Mani; ombre dei defunti; Plutone, il re che non conosce umana pietà) e li commuove tutti quanti. Introdotto da un At avversativo, noi vediamo l’effetto del canto, ma non udiamo il canto. Tutte le anime che popolano questo regno, esseri umani, mostri implacabili (le Furie e Cerbero), perfino gli inanimati strumenti di tortura che affollano il Tartaro (come la ruota su cui viene suppliziato Issione, colpevole di empietà) si addolciscono e si commuovono. Orfeo può così riportare indietro i propri passi, superando ogni ostacolo, salvo – come ci dicono i versi immediatamente successivi a questi – quello costituito da se stesso, la propria incapacità di obbedire fino in fondo all’imposizione divina. In tutto questo, noi non udiamo mai la sua voce. Da grande poeta qual era, Virgilio ha capito che la sfida era persa in partenza, e ha aggirato l’ostacolo con grande dignità e finezza, attraverso un escamotage che dà comunque l’idea di quello che è avvenuto, senza rischiare di scadere nel patetico, nel ridicolo, nell’insufficiente.

    Eccoci ora ad Ovidio. L’imitazione del passo virgiliano in lui è evidente, e anche la gara con il modello, come si riconosce nell’incipit del racconto, che fa cenno alla rapida discesa agli Inferi di Orfeo, e nella parte immediatamente successiva al canto vero e proprio, che descrive, esattamente come in Virgilio ma in meno versi che in lui, e con più preciso e pedante catalogo, gli effetti del canto (met. X 40-47):

    Talia dicentem nervosque ad verba moventem               
    exsangues flebant animae; nec Tantalus undam
    captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,
    nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt
    Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.
    Tunc primum lacrimis victarum carmine fama est               
    Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx
    sustinet oranti nec, qui regit ima, negare.

    Come si vede, qui è dato poco risalto alle anime dei comuni defunti (che non hanno diritto di voto nella faccenda, e quindi sono messe da parte con un’espressione rapida e generica). Prima delle Furie/Eumenidi già presenti in Virgilio, sono elencati con maggiore precisione i tormenti, ora sospesi, del Tartaro: non il solo Issione, ma anche Tantalo, le Danaidi, Tizio il cui nome si cela nell’espressione nec carpsere iecur volucres, quasi un indovinello rivolto al lettore, e infine Sisifo. Gli dèi dell’Oltretomba sono alla fine dell’elenco, in bella evidenza, perché è a loro che spetta la decisione ultima, con tanto di belluria stilistica di separare la moglie (Proserpina) dal marito (Plutone), ad entrambi assegnando però una pari azione e una pari commozione. Ecco invece che cosa succedeva all’inizio dell’episodio (met. X 11-39; il relativo iniziale si riferisce, ovviamente, a Euridice):

    Quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras
    deflevit vates, ne non temptaret et umbras,
    ad Styga Taenaria est ausus descendere porta
    perque leves populos simulacraque functa sepulcro
    Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem
    umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis
    sic ait: “O positi sub terra numina mundi,
    in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,
    si licet et falsi positis ambagibus oris
    vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem
    Tartara, descendi, nec uti villosa colubris
    terna Medusaei vincirem guttura monstri:
    causa viae est coniunx, in quam calcata venenum
    vipera diffudit crescentesque abstulit annos.
    Posse pati volui nec me temptasse negabo:
    vicit Amor. Supera deus hic bene notus in ora est;
    an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,
    famaque si veteris non est mentita rapinae,
    vos quoque iunxit Amor. Per ego haec loca plena timoris,
    per Chaos hoc ingens vastique silentia regni,
    Eurydices, oro, properata retexite fata.
    Omnia debemur vobis, paulumque morati
    serius aut citius sedem properamus ad unam.
    Tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
    humani generis longissima regna tenetis.
    haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,
    iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;
    quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est
    nolle redire mihi: leto gaudete duorum”.

    Ovidio non rinuncia a mettere in bocca al suo Orfeo un canto; e questo canto è costruito secondo tutte le regole del genere “richiesta sacrale”: giustificazione iniziale della propria ragione di presentarsi al cospetto dei numi (non vengo per compiere un atto illegale di rapina dei vostri beni; vengo alla ricerca della mia consorte, spinto a ciò da Amore); celebrazione della divinità che Orfeo ritiene sua guida e protezione, ricordando quanto essa abbia interferito anche nella vita dei suoi ascoltatori (Proserpina e Plutone); richiesta concreta della restituzione della consorte, accompagnata dalla celebrazione sotto forma di giuramento della potenza dei luoghi inferi presso i quali il cantore si trova (Eduard Norden, in un bel libro del 1913, Agnostos theos, tradotto in italiano nel 2002 dalla Morcelliana di Brescia con titolo Dio Ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, ha ben studiato le varie parti costitutive di questa forma di richiesta); infine, celebrazione dell’autorità e della potenza di chi gli deve concedere il favore implorato, e cioè gli dèi inferi, attraverso il tema omnia debemur vobis, “tutti – ma il neutro omnia rinforza l’idea, includendo persone e cose assieme, e anzi parificandole fra loro – siamo soggetti a voi”, “vi siamo prima o poi dovuti”. Una captatio benevolentiae che si rinforza subito dopo nella formula huc tendimus omnes, che serve a sua volta a titillare l’orgoglio dei sovrani che ascoltano. Orfeo chiude il canto con una minaccia di suicidio: se gli sarà negata Euridice, farà in modo di restare ugualmente al fianco di lei, senza più abbandonare i luoghi in cui si trova. Di fronte a questa possibilità, gli dèi, come sappiamo, si commuovono e cedono. La forma, il perfetto rispetto della forma e delle forme (burocratiche) della preghiera, qui si fanno elementi salvifici, nonostante il contenuto non suoni così sublime come ci saremmo potuti aspettare, data la situazione eccezionale ed il cantore, a sua volta eccezionale, che il mito metteva in gioco. Quanto però conti, specie nei contesti sacrali, il rispetto della forma per gli antichi non è argomento che posso sviluppare qui, ma neanche che abbia bisogno di molte parole per essere richiamato alla memoria dei lettori.

    Vengo ora alle note musicali. Delle molte intonazioni del mito (così si chiamano le messe in musica di un testo letterario), ne scelgo due, che hanno in comune il libretto, ossia quel testo di Ranieri de’ Calzabigi musicato nel 1762 da Gluck e rimesso in musica qualche anno più tardi, nel 1776, a Londra, da Ferdinando Bertoni (1725-1813). Bertoni oggi è ricordato quasi esclusivamente per quest’opera, e non tanto per il valore della musica in sé, quanto per il suo ruolo di cartina al tornasole del testo di Gluck e perché illustri cantanti (una fra tutte, Marilyn Horne) amarono mescolare i due testi, trovando in Bertoni occasioni musicali magari meno felici, ma più appaganti al proprio narcisismo virtuosistico (con il che, naturalmente, “ridateci la Horne!”)

    Ecco allora Gluck. Chiaro che la via dell’ellissi non poteva essere praticata a teatro, per il quale questa scena è il nocciolo dell’intera vicenda. Franz Joseph Haydn, che pochi anni più tardi, nel 1791, scrisse a sua volta un’opera sul tema, peraltro mai rappresentata fino al 1951, scelse sì la via dell’ellissi, ma per una sorta di compensazione dovette poi complicare la trama del resto dell’opera, con inutili divagazioni narrative che soddisfacessero in qualche misura lo spettatore. Non potendo percorrere quella dell’ellissi, Gluck sceglie allora la via della semplicità. Partiamo dal testo che sentiremo intonato. Siamo all’inizio del II atto. Alla fine del precedente, Orfeo ha preso la decisione di scendere nell’Ade e ora il punto di vista si capovolge e ci troviamo trasportati nell’Aldilà:

    Orrida e cavernosa al di là del fiume Cocito, offuscata poi in lontananza da un tenebroso fumo illuminato a fiamme che ingombrano tutta quella orribile abitazione. Appena aperta la scena, al suono di orribile sinfonia comincia il ballo di Furie e Spettri, che viene interrotto dalle armonie della lira d’Orfeo, il quale comparendo poi sulla scena, tutta quella turba infernale intuona il seguente Coro:
    FURIE Chi mai dell’Erebo
    fra le caligini,
    sull’orme d’Ercole
    e di Piritoo
    conduce il piè?
    D’orror l’ingombrino
    le fiere Eumenidi,
    e lo spaventino
    gli urli di Cerbero,
    se un dio non è.
    Ripigliano le Furie il ballo girando intorno ad Orfeo per spaventarlo.
    ORFEO Deh! placatevi con me,
    furie, larve, ombre sdegnose.
    FURIE  No.
    ORFEO Vi renda almen pietose
    il mio barbaro dolor.
    FURIE (raddolcito e con espressione di qualche compatimento)
    Misero giovine!
    che vuoi, che mediti?
    Altro non abita
    che lutto e gemito
    in queste orribili
    soglie funeste.
    ORFEO Mille pene, ombre moleste,
    come voi sopporto anch’io;
    ho con me l’inferno mio,
    me lo sento in mezzo al cor.
    FURIE (con maggior dolcezza)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor.
    ORFEO Men tiranne, ah! voi sareste
    al mio pianto, al mio lamento,
    se provaste un sol momento
    cosa sia languir d’amor.
    FURIE (sempre più raddolcito)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor!
    Le porte stridano
    su’ neri cardini
    e il passo lascino
    sicuro e libero
    al vincitor.
    Cominciano a ritirarsi le Furie ed i Mostri e, dileguandosi per entro le scene, ripetono l’ultima strofa di coro che, continuando sempre frattanto che si allontanano, finisce finalmente in un confuso mormorio. Sparite le Furie, sgombrati i Mostri, Orfeo s’avanza nell’inferno.

    In  corsivo ho messo le didascalie del librettista, in grassetto l’indicazione dei personaggi parlanti, in nero le battute. Gluck risolve la scena dando a Orfeo un canto ritmato e identico su più strofe, ma che di fatto si limita a due soli, semplicissimi versi (sbaglia qui, secondo me, l’interprete ad eccedere in abbellimenti non scritti intorno all’espressione il mio barbaro dolor). L’arpa si sostituisce alla cetra del mito e scandisce il ritmo delle parole, consentendo di riempire gli spazi ampi di un teatro. Le Furie si presentano con una ridda disordinata di suoni, messa in movimento dal primo apparire della cetra di Orfeo, come se quella turbasse lo stare precedente. Una volta in movimento, esse rispondono all’emozione provocata dal cantore prima a monosillabi (“No!”), poi con frasi più elaborate, che aprono una sorta di compassionevole dialogo, con un tono che tende a farsi sempre più dolce e vicino al cedimento (il coro qui è molto bravo, e invito ad ascoltare i diversi “No!” pronunciati con enfasi decrescente ed emozione via via maggiore). Nella scena successiva, che non sentiremo, Orfeo arriva nell’atmosfera rarefatta dei Campi Elisi fra gli Spiriti Beati, dove incontra Euridice.

    Prima di passare all’ascolto, ancora una notazione pratica. A Vienna nel 1762 il personaggio di Orfeo venne interpretato dal celebre cantore evirato (come si usava al tempo) Gaetano Gaudagni. Oggi, ovviamente, non disponiamo più di simili voci che, per la mescolanza di ormoni maschili e femminili (questi ultimi rafforzati dall’operazione subita di solito in tenerissima età), erano ritenute particolarmente adatte ad esprimere l’adolescenza in musica, un miscuglio di toni maschili e femminili non ancora ben organizzati (ma le voci dei castrati erano educate e melodiose, a detta di tutti i testimoni del tempo), un po’ come delle voci bianche, prive però di quella tendenza ad emettere suoni fissi e non vibrati che è propria delle voci bianche. Impossibile riprodurre quel canto: da Berlioz in poi le voci femminili si sono perciò appropriate di questo repertorio. Negli ultimi anni, e anche nella registrazione che qui allego, resa di pubblico dominio da Radio France, che l’ha offerta in open source, si sentono voci maschili “costruite” ad arte per suonare femminili, ma che per quanto brave sono probabilmente solo una pallida eco di quello che doveva essere l’effetto originario. Alla Scala sentiremo la versione parigina dell’opera, scritta per tenore acuto (haute-contre) e tradotta in francese, con aggiunte di versi qui inesistenti, di balli per le Furie, di abbellimenti canori di vario genere. Ecco intanto la registrazione:

    Chiudo infine con Bertoni. Testo e struttura complessiva della scena rimangono identici, anche se la forza penetrativa della musica, proprio perché è più elaborata, finisce per risultare complessivamente minore. Ma quello su cui vorrei portare l’attenzione è un dettaglio. Il dialogo che Gluck aveva costruito fra Orfeo e il coro delle Furie qui diventa una sorta di grande rondò (rondeau) di Orfeo, con interventi sporadici del coro, come appunto succede spesso nella tradizione dei rondò musicali. Diciamo che la scena, che in Gluck si segnalava per la sua semplicità persuasiva, viene così normalizzata secondo le regole dell’opera di fine Settecento, un dato evidente soprattutto nella seconda parte dell’ascolto che propongo. Usando un termine della letteratura, è come se Gluck venisse “grammaticalizzato” o, ancora meglio, come se fosse normalizzato attraverso forme e strutture retoriche più usuali e definite, che rispettano in pieno le regole del genere e tranquillizzano quindi l’ascoltatore. Evidente, a mio parere, il parallelo con quanto avevamo visto in poesia. Ecco comunque il brano di Bertoni:

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Nella Postfazione a I nostri antenati (1960) Italo Calvino delinea una storia dell’umanità che vede l’essere umano passare dallo stato primitivo, in cui è ancora organico con l’universo che lo circonda, all’uomo artificiale (che sarebbe poi l’uomo contemporaneo), alienato, dimidiato, inesistente, costretto a vivere fuori dal proprio ambiente, ridotto a puro funzionamento, perché incapace di fare attrito con quanto lo circonda, Natura e Storia (maiuscole mie; p. 1216 nel primo volume de “I meridiani”). A fondamento dell’affermazione si riconoscono molti luoghi comuni circa la diversità di cui la contemporaneità si è sempre gloriata. Non voglio però discutere l’affermazione. Piuttosto, in procinto di completare con questa puntata la carrellata attraverso le metamorfosi ovidiane e la musica del Novecento, a me sembra che a Calvino si possa tranquillamente ‘rubare’ l’immagine dell’attrito dell’uomo con la Natura e la Storia. Questo attrito è proprio ciò che il poema ovidiano colloca in primo piano e fa oggetto di narrazione. Elemento probabilmente sconosciuto ai diversi precedenti messi a frutto dal poeta latino (tranne, forse, che alla sesta egloga virgiliana), questa lotta dell’uomo contro due forze ostili a lui, ma nello stesso tempo anche fra di loro, è, in fondo, ciò che Ovidio ha davvero trasmesso ai secoli a venire, incluso il nostro. Ed è ciò che, assieme all’idea della metamorfosi come momento di massima esibizione di questa tensione, la musica del Novecento ha interiorizzato e fatto suo.

    Nelle puntate precedenti abbiamo visto come la metamorfosi possa ridursi a semplice concetto filosofico o avere tragica evidenza; come se ne possa studiare il momento dello svolgimento, oppure le conseguenze che lascia dietro di sé; come possa essere determinata dalle forze oscure della Storia, che tutto distruggono lasciando solo cumuli di macerie alle proprie spalle, oppure dalla crudeltà della Natura, che non ha tempo per voltarsi a guardare le creature che distrugge. Abbiamo anche visto come l’uomo possa subire la metamorfosi, oppure cercala, come mezzo per sottrarsi al reale che lo circonda, oppure come annullamento di sé in un eterno ritorno all’ordine che, per essere tale, non può comprendere quell’elemento di perenne disordine che è, appunto, l’umanità. Oggi voglio proporre un’ulteriore immagine della metamorfosi, e delle Metamorfosi: le quali, al di là di tutti i giochi di distanziamento che vi si possono e vi sono stati ritrovati, sono pur sempre un poema epico, dunque celebrativo, di una casta e di un’epoca. E che si chiudono, com’è noto, con una doppia significativa trasformazione: quella che vede Augusto (ancora vivo) trasformarsi in stella, e quella che vede il poeta assurgere all’empireo in virtù della propria arte.

    Al di là delle possibilità di leggere doppi, tripli sensi nelle parole di Ovidio, formalmente le Metamorfosi si presentano quindi come un poema che celebra la grandezza dell’imperatore in carica, il suo ruolo e la sua funzione. Il percorso storico delineato dal poeta, che si era aperto con la formazione del mondo – nato da materia sempiterna ma non ancora formata – si chiude con la celebrazione della propria contemporaneità e di chi quella contemporaneità aveva fortemente impregnato di sé. La Storia parte dalla Natura e realizza ciò che la Natura conteneva in potenza, ma non in atto.

    Anche questo non è però un tema che vorrei dibattere qui. Ora mi interessa di più osservare che questa lettura ‘positiva’ delle Metamorfosi, per cui l’elemento metamorfico trova celebrazione nel divenire storico – si identifica anzi con il divenire storico; e questo divenire punta, immancabilmente, verso la nostra contemporaneità – si trova fortemente evidenziata in un pressoché sconosciuto testo musicale, che infatti si intitola, significativamente, come il poema ovidiano (pur non richiamandosi sprecificamente ad esso). Si tratta della composizione sinfonica per orchestra Metamorfózy (1953), opera di Eugen Suchoň (1908-1993), compositore slovacco pressoché sconosciuto, credo, dalle nostre parti. Nato in una cittadina poco lontana da Bratislava, da famiglia di musicisti, Suchoň ha vissuto la maggior parte della sua esistenza entro i confini della patria, fra Praga e Bratislava. Alla nascita, e per tutti gli anni della fanciullezza, fu suddito dell’impero austroungarico; poi divenne cittadino cecoslovacco, nello stato libero ma ibrido formatosi al termine della prima guerra mondiale. Dopo la seconda guerra e l’occupazione nazista, visse nella Cecoslovacchia del Patto di Varsavia; conobbe la primavera di Praga del 1968, gli anni della repressione, il disgelo dei tardi anni ’80, la caduta del muro di Berlino e l’allontanamento delle truppe sovietiche (1989); infine, intravide la scissione delle due anime dello stato in repubbliche autonome e federali, scissione che infine portò alla proclamazione della Repubblica Slovacca indipendente, nata dalla dissociazione dalla componente ceca dell’antica repubblica unitaria (1993). In mezzo a tutti questi rivolgimenti, Suchoň è passato pressoché indenne, studiando, insegnando, componendo. Piuttosto vasto il catalogo delle sue composizioni, che include due opere liriche (che pochi conoscono fuori dai confini patrii), molta musica vocale e corale, composizioni da camera e sinfoniche a pieno titolo. Nel 1953, dopo una gestazione pluriennale, Suchoň licenziò la composizione sinfonica Metamorfózy, in cinque parti e varia successione di tempi.

    La misura è insolita, specie per una composizione di una trentina circa di minuti, e ricorda (anche nello sbilanciamento interno fra le singole parti, di durata progressivamente maggiore, così da passare dai poco meno di tre minuti del primo movimento ai quasi dodici dell’ultimo) le composizioni del grande musicista boemo – allora austriaco, ma oggi sarebbe ceco – Gustav Mahler (1860-1911). La similitudine però finisce lì. La musica di Suchoň è tradizionale quanto a fattura e tipologia, e ricorda piuttosto i lunghi e articolati poemi sinfonici di tardo Ottocento, sul tipo di Mà Vlast (La mia patria, 1879), l’opera più famosa del compositore – ceco pure lui – Bedřich Smetana (1824-1884).

    Quello che però interessa al mio discorso è che qui la musica celebra la Storia della repubblica cecoslovacca. Definito nelle note di copertina delle (rare) incisioni come un “riflettere sulla Storia durante gli anni di guerra”, alla maniera di Strauss, la composizione passa dal tono idilliaco e moderato dell’inizio a tempi più rapidi e vorticosi, per poi ristabilre nei movimenti finali prima l’idea di un regno della pace, poi il trionfo della rinata nazione (in un movimento che si intitola “Allegro feroce”). In anni di realismo socialista, Suchoň celebra così il divenire degli avvenimenti, che hanno portato la Nazione a trionfare, sia pure a prezzo di lotte e difficoltà, contro chi voleva destabilizzarne la tranquillità. Il tono, alla fine, è celebrativo: attraverso la trasformazione e il divenire, la Storia ha (ri)trovato la forma ideale.

    Simile idea si ritrova anche nelle composizioni operistiche di Suchoň. Non tanto la prima e più famosa, Krútňava (qualcosa come “Il mulinello”), che narra di un omicidio compiuto per gelosia e dell’eterna lotta fra bene e male nell’animo umano – l’opera, rappresentata per la prima volta nel 1949, ebbe infatti i suoi guai con la censura socialista. Ma la seconda, Kral’ Svätopluk, del 1960, racconta una vicenda legata alla disgregazione del regno di Moravia nel IX secolo d.C. (Svätopluk è il nome del protagonista; Kral’ è un titolo nobiliare, qualcosa come “principe”), e rivela un’identica idea del divenire storico che non solo non può essere interrotto, ma che trova in ogni caso la sua via, quali che possano essere i tentativi umani di impedirlo e di impedire la metamorfosi che esso sempre porta con sé.

    Movimenti I-III (Andante con moto; istesso tempo; Allegro moderato)

     

    Movimento IV (Larghetto)

     

    Movimento V (Allegro feroce)

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Il nome di Thea Musgrave (1928-) probabilmente non dirà molto ai lettori di questi post, se lettori ci sono. Eppure è un nome che dovrebbe suscitare qualche interesse, per molte ragioni. Intanto, come si vede dall’indicazione fornita all’inizio, al momento in cui scrivo è ancora in vita, sia pure in età avanzata. Poi, è una donna. Donne compositrici non sono mancate già nell’Ottocento (più rare prima), ma sempre in circostanze particolari: erano parenti di musicisti affermati, come Fanny Hensel née Mendelsshon (sorella di Felix); oppure figure già affermate nel campo musicale, come Pauline Viardot (cantante di primissimo piano); infine, donne comunque inserite in un milieu particolare, come Louise Bertin, amica di Hector Berlioz e di Victor Hugo (che le scrisse il libretto per La Esmeralda [1836], libero rifacimento di Notre-Dame de Paris). Erano quindi tutti casi eccezionali. Il Novecento, a partire dagli anni Trenta ha visto invece un sempre più deciso affermarsi di donne compositrici, anche se restano una minoranza. La Musgrave, scozzese di nascita, fu allieva di una famosa insegnante di Conservatorio, che la introdusse al “modernismo” delle avanguardie del tempo (si tratta di Nadia Boulanger, alle cui lezioni tutti i più importanti compositori e direttori d’orchestra hanno prima o poi assistito). Nel 1958, dopo alcuni successi in patria – in particolare con il ciclo di poemi Tryptich, di quello stesso anno – Musgrave si è trasferita in America, dove ha lavorato con un altro illustre compositore, Aaron Copland e ha insegnato prima all’Università della California, poi a CUNY (la City University of New York), in quei ruoli – da noi sconosciuti – di compositori e musicisti in servizio entro il mondo accademico. Ricchissimo il suo catalogo, che comprende pezzi per strumenti solistici, concerti, composizioni orchestrali e una decina di opere, due delle quali (Mary Queen of Scozia, del 1977; e A Christmas Carol, del 1979) hanno avuto l’onore di una registrazione ufficiale.

    Per dare un saggio della sua abilità compositiva, prima di passare ai testi propriamente metamorfici, voglio presentare una composizione orchestrale del 1990, Song of the Enchanter, ispirata a un episodio del Kalevala (il poema epico finlandese per eccellenza), ma di fatto commissionata per celebrare il 125mo anniversario della nascita del compositore finlandese Jean Sibelius, 1865-1957 – a sua volta autore di poemi sinfonici e una sinfonia corale (Kullervo, 1891) ricavati da quel poema. Chi conosce la musica di Sibelius sarà in grado di apprezzare il gioco di allusioni e rifacimenti che la Musgrave introduce a partire dalle composizioni del celebrando; altrimenti, valga il piacere di pochi minuti di musica ben fatta.

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    Il medesimo procedimento si avverte anche più chiaramente in un’altra composizione, Echoes of Time Past, del 1999, tutto un inno alla memoria e alla tradizione della musica occidentale, a cominciare da Verdi e Wagner (come ha indicato la stessa autrice); ma – essendo la Musgrave al momento della composizione in America – il brano vuole omaggiare anche i classici che hanno fondato l’immagine musicale dell’America nella mente europea, a cominciare da quella Sinfonia nr. 9 in mi minore di Antonin Dvořák, detta appunto Del nuovo mondo (1893). Chi ha avuto occasione di sentire quel testo, riconoscerà nell’assolo iniziale del corno inglese e poi, verso la fine, anche in quello della tromba, lunghe citazioni dei temi principali utilizzati da  Dvořák, temi che la tradizione vuole derivino da spirituals e musica nativa americana.

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    Veniamo però ai brani che più ci interessano. La Musgrave non ha scritto (a differenza di Britten o di Strauss) nulla che rechi in sé il titolo di Metamorfosi o un richiamo esplicito ad Ovidio, almeno che io sappia. E’ tuttavia autrice di una serie di brani – nati indipendentemente l’uno dall’altro – che hanno come argomento l’illustrazione di un mito antico: e si tratta sempre, naturalmente, di un mito compreso nel poema ovidiano, che pertanto offre sia la traccia del racconto che quella della sua interpretazione. In questi brani, di norma, uno strumento solista dialoga con un nastro pre-registrato, secondo una tecnica di moda negli anni Settanta/primi Ottanta (ora il nastro è comunemente sostituito dal computer). Quello che riesce alla Musgrave è di rendere questa tecnica espressiva ai fini del mito trattato, e non una pura esibizione di virtuosismo compositivo. Ne offro tre esempi. Nel primo il mito rievocato è quello di Niobe (1987). Come nell’analoga composizione di Britten ricordata in un post precedente, la voce della donna è qui affidata all’oboe solista, strumento che ben si presta a dare corpo al lamento disperato; sul nastro preregistrato una campana scandisce, implacabile e feroce, l’uccisione dei quattordici figli, uno di seguito all’altro.

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    In Narcissus (1987) il nastro fa invece da eco al flauto; è cioè l’immagine allo specchio di quanto il flauto solista affaccia nella sua melodia, il doppio della voce di Narciso, identico e speculare ad esso. In Helios (1994) torna di scena l’oboe, ma questa volta per affermare tutta la solare bellezza del dio cui dà vita; in Orfeo I, 1975, commissionato dal celebre James Galway (1939-), l’esecutore sulla scena dovrebbe dare voce al mitico cantore che scende nell’Ade, mentre sul nastro Galway gli fa eco, suggerendo un ripercuotersi cupo e misterioso delle note verso oscure profondità che si perdono lontano, nelle viscere della terra. Alla fine, quando la catabasi si sta compiendo, i suoni del nastro sembrano quasi inghiottire e voler togliere voce al flauto solista, una sorta di Zauberflöte che fatica a passare la sua prova dell’acqua e del fuoco.

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    Chiudo infine questa rassegna con Lamenting with Ariadne, del 1999. Lo strumento solista qui è una viola, che si confronta con un’orchestra di formato ridotto, cameristico, fatta di soli sette strumenti: violino, violoncello, arpa, percussioni, flauto, clarinetto e tromba. All’inizio predomina la viola, che alterna i suoi stati d’animo fra l’ira e la disperazione, seguendo i moti psicologici di Arianna. Poi, una tromba fuori scena annuncia l’arrivo di Bacco; le percussioni lasciano il posto alla marimba; il ritmo cambia e si fa festoso, orgiastico, esotico.

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    L’immagine di copertina viene da un sito della BBC, che ne detiene i diritti; le esecuzioni caricate sono, al momento in cui scrivo, di pubblico dominio. Chi ne dovesse rivendicare il copyright può rivolgersi agli amministratori del sito. Sulla Musgrave molto ho imparato (oltre che dagli scritti della compositrice) da Ph. Rupprecht, British Musical Modernism. The Manchester Group and their Contemporaries, Cambridge 2015.

  • Ovidio tra gli Sciti

    Ovidio tra gli Sciti

    Un dipinto di Eugène Delacroix può fornire un utile spunto didattico per introdurre il tema dell’esilio, e in particolare la poesia ovidiana dell’esilio. Si tratta di un olio di dimensioni medie (90 x 130), esposto a Parigi nel 1859 e ora al British Museum di Londra; una seconda versione, oggi a Washington, di dimensioni più ridotte (30 x 50) e con alcune variazioni nelle figure e nel cromatismo, fu realizzata per un committente privato nel 1862. Il soggetto è Ovidio fra gli Sciti (Ovide chez les Scythes): un tema politicamente scottante, tenendo conto che dal 1856 Victor Hugo si trovava in esilio sull’isoletta di Guernsey, nel canale della Manica, per ordine di Napoleone III.

    Vero protagonista del dipinto è il paesaggio, improntato a un gusto tipicamente tardoromantico, con la natura che giganteggia affascinante e distante: brullo l’insieme, rada la vegetazione (un cespuglio, due piccoli alberi), rari gli interventi dell’uomo (nessun segno di coltivazione del terreno, povere capanne dal tetto di paglia sulla sinistra e sullo sfondo a destra). Lo scenario è animato da figure umane e animali: gli uomini sono vestiti succintamente, in prevalenza in toni del marrone e ocra, che riprendono quelli del paesaggio (in qualche caso potrebbe trattarsi di pellami piuttosto che di tessuti), la maggior parte scalzi e barbuti, alcuni armati di frecce e scudo; in primo piano una donna, ritratta di schiena, munge una cavalla (un dettaglio che doveva risultare davvero esotico al raffinato pubblico parigino e che non incontrò il favore della critica). Quasi al centro, un poco sulla sinistra rispetto all’osservatore, spicca la figura del poeta, completamente estranea al contesto: l’effetto di forte scarto si crea prima di tutto tramite le scelte cromatiche del bianco immacolato e del blu intenso del vestiario (i colori della Madonna nella più tradizionale delle iconografie), che non trovano corrispondenza precisa in nessun altro dettaglio del dipinto; i calzari bianchi con minute decorazioni dorate esprimono un’eleganza urbana (e ricordano i phaecasia, gli stivaletti bianchi alla moda indossati da Encolpio in Satyricon 82, 3); appoggiato sul terreno, al fianco del poeta, si trova del materiale scrittorio, sembrerebbe un ampio rotolo aperto. Molte delle figure sono rivolte verso Ovidio, in un atteggiamento non ostile ma di curiosità (il bambino con il grande cane lupo) e in un caso almeno di rispetto e offerta (l’uomo inginocchiato con il cestino, sostituito da una ragazza nella versione del 1862), così che la disposizione delle figure può ricordare un’adorazione dei pastori.

    L’opera di Delacroix rivela una certa consonanza con la Stimmung delle elegie ovidiane dell’esilio, pur prendendosi la libertà di sostituire la cittadina di confine, Tomi, con un paesaggio naturale e aperto. Le caratteristiche della natura sono del resto abbastanza rispondenti alla descrizione ovidiana di una regione aspra e selvaggia, sferzata dai venti e coperta di neve e di ghiaccio per buona parte dell’anno, costituita da terreni incolti, praterie brulle e sterili, con acqua di cattiva qualità (insomma, una specie di Siberia sul mar Nero) – si potrà confrontare specialmente la coppia di elegie di tristia III, 10 e 12, dedicate rispettivamente all’inverno e alla primavera a Tomi. Se in queste descrizioni ovidiane non pare esservi molto di oggettivo (la cittadina era in realtà una colonia greco-romana ormai pacificata e di popolazione prevalentemente greca; quanto al clima, vi si coltivava e vi si coltiva tuttora la vite), esse tuttavia racchiudono un nucleo di verità, in quanto esprimono per immagini l’esperienza sconvolgente dell’improvviso e violento sradicamento dal proprio mondo vissuta dal più grande poeta della sua epoca, poco più che cinquantenne e all’apice della fama. E particolarmente efficace, e a suo modo fedele allo spirito del testo ovidiano, risulta il dipinto nel rendere l’isolamento intellettuale del protagonista. Ovidio diviene qui la trasposizione pittorica di potenti immagini poetiche come quelle dei ‘grandi esiliati’ di Baudelaire: Andromaca a Butroto o il cigno, con i suoi gesti folli “comme les exilés”, o l’albatro, simile al poeta “exilé sur le sol” (protagonisti di poemi pubblicati in quegli anni e poi riediti nel 1861, nella seconda edizione de I fiori del male, dove Le Cygne è dedicato proprio a Victor Hugo, il grande esule francese, che a Guernsey stava componendo Les Miserables [apparsi poi a Bruxelles, nel 1862]).

    Eug??ne Delacroix, 1798 - 1863 Ovid among the Scythians 1859 Oil on canvas, 87.6 x 130.2 cm Bought, 1956 NG6262 http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG6262

    Delacroix (1798-1863), già in fine di carriera al momento della composizione del dipinto, in giovinezza era stato, lo ricordiamo, fra i grandi alfieri della pittura romantica. Amico personale tanto di Hugo, la cui casa in Notre-Dame-des-Champs aveva frequentato, quanto di Baudelaire, che teneva in camera da letto le litografie di Amleto firmate dal pittore, Delacroix con i suoi dipinti si era più volte proposto di illustrare i grandi capolavori accetti al Romanticismo francese (Dante, Shakespeare, Scott e Byron), come anche di intervenire sui principali fatti politici vissuti dalla sua generazione (la rivolta della Grecia contro i Turchi; la rivoluzione del 1830, che portò sul trono di Francia Luigi Filippo, suo antico committente). Nel trattare temi classici, Delacroix si era sempre compiaciuto di rivolgere il proprio occhio alla modernità e alla commistione delle iconografie. Significativo antecedente del lavoro compiuto su Ovidio è infatti il ritratto di Medea mentre uccide i figli (Médée furieuse), del 1838, ma poi ripreso anche nel 1862, oggi conservato a Lille, nel quale l’eroina greca è immersa in uno schema piramidale che ricorda la leonardesca Vergine delle rocce e mostra il proprio seno – in ossimorico contrasto con il gesto che sta per compiere – come nell’illustrazione della Carità di Andrea del Sarto. Una mamma pagana, che porta con sé, come Ovidio nel dipinto da cui siamo partiti, alcuni simboli della Cristianità, ma che infonde loro nuova vita in virtù del diverso tema che sono chiamati ad illustrare.

    delacroix medea

    © Elena Merli, 2017

    I dipinti sono concessi in libero usufrutto, per ragioni di studio, sui siti dei rispettivi musei che ne detengono la proprietà

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Gli esempi considerati finora ci permettono di tracciare un primo quadro di questa breve storia delle Metamorfosi nella musica del Novecento. Due elementi balzano agli occhi: ci sono composizioni che illustrano direttamente il poema di Ovidio, come avviene per le sei variazioni di Britten o l’opera Daphne di Strauss. Com’è ovvio, “direttamente” è parola da rideclinare poi caso per caso: Britten mette in musica sei momenti del poema ovidiano, ma nella sostanza usa il testo latino come banco di prova delle possibilità espressive di un singolo strumento musicale; e del concetto di metamorfosi, ricavato da Ovidio, mette in luce soprattutto la creazione di un nuovo linguaggio, che passa attraverso il mutamento e l’esperienza cosciente del mutamento. Strauss nella sua opera riscrive una vicenda ovidiana (il processo inizia prestissimo, e attraversa tutta la storia del melodramma). Quello che interessa è che, della trama di Ovidio, Strauss coglie soprattutto l’elemento di sopraffazione disturbante introdotto dall’azione del dio in una comunità pacifica e regolata da sue leggi – con evidente riferimento alla Germania del tempo. Della metamorfosi come fenomeno in sé quanto gli interessa è dunque la violenza che essa apporta, in  uno stesso tempo, alla civiltà e alla natura: solo quest’ultima, nel finale, riprende la sua forma, ma in assenza di uomini e di dèi.

    La seconda tipologia di ‘ripresa’ è quella esemplificata da Metamorphosen. Qui Ovidio, di fatto, offre solo un titolo e un concetto filosofico. La metamorfosi è una trasformazione che avviene con la violenza, per causa esterna, e che lascia alle sue spalle un cumulo di macerie – le macerie reali di Monaco bombardata, le macerie metaforiche degli eroi e delle eroine ovidiane. L’azione violenta, che per il poeta latino è opera di un dio capriccioso e vendicativo, anche quando agisca secondo giustizia (ma che il più delle volte agisce oltretutto indipendentemente dalla giustizia…), per Strauss è invece prodotta dall’uomo, o quanto meno dalla Storia, intesa come somma delle azioni umane. Ciò comporta un’enfasi tanto maggiore sull’elemento del pathos, in quanto tutto si realizza sul piano umano. E’ l’uomo che determina la metamorfosi, è l’uomo che la subisce.

    Nel Novecento il concetto filosofico prevale sulla citazione del classico, come del resto ci aspettavamo: le Metamorfosi musicali per lo più non hanno in comune con Ovidio nient’altro che il titolo. Philip Glass (1937-vivente) nel 1988 scrive cinque pezzi per pianoforte dal titolo Metamorphosis, ma le Metamorfosi che vuole illustrare sono quelle di Kafka, non quelle ovidiane. Dei cinque brani che compongono la suite, almeno il secondo è famosissimo, perché divenuto elemento portante della colonna sonora del film di Stephen Daldry, The Hours (2002), dedicato alla vita di Virginia Woolf e interpretato da Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore. Nel 1966 Gian Francesco Malipiero aveva composto un’opera, Le metamorfosi di Bonaventura, derivandone il canovaccio da un testo tedesco di inizio ‘800, Die Nachtwachen des Bonaventura (I giri di guardia notturna di Bonaventura”). E’ un’opera che non sono mai riuscito ad ascoltare, ma a leggerne il sommario sembra un pasticcio incomprensibile; anche Montale, che fu presente alla prima a Venezia, ne parlava come di un testo dall’interesse drammatico pressoché nullo. Non so. Quello che è certo è che le metamorfosi cui si fa riferimento lì sono quelle che intercorrono fra autore e personaggio, i confini fra i quali, a un certo punto della realizzazione dell’opera d’arte, diventano labili e incerti.

    Nel campo delle metamorfosi ‘filosofiche’ possiamo inserire anche il quartetto nr. 1 di Gyorgy Sandor Lìgeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi Notturne”. La composizione risale agli anni 1953-1954, a Budapest; la prima esecuzione (con qualche variazione rispetto al testo originale) avvenne poi a Vienna, nel 1958. Di mezzo, i fatti di Ungheria del 1956 e la fuga di Ligeti da Budapest all’Austria, nel dicembre di quell’anno. Il quartetto è una composizione in un unico movimento (qui diviso in due, per ragioni di spazio) e 17 parti. Vari sono stati i tentativi di definire l’opera e di suddividere le sequenze di cui si compone. La cosa più curiosa la scrisse forse Ligeti stesso, nelle note di copertina di un CD realizzato per la casa discografica Sony, nel 1996. Ligeti definì il suo quartetto come una serie di variazioni senza un reale tema, ma solo una cellula melodica di base. In realtà, l’opera, pur concedendosi numerose dissonanze, è ancora sostanzialmente tonale.  Ligeti diverrà un adepto della musica dodecafonica ed elettronica solo dopo il passaggio in Occidente, e lo spostamento da Vienna prima a Colonia e poi ad Amburgo – le città dove ha insegnato e lavorato più a lungo.

    Sul senso della composizione e il suo titolo ci illumina di nuovo l’autore: nell’Ungheria sottoposta al controllo sovietico prevaleva un’estetica legata al socialismo reale e al recupero delle musiche folkloriche. Ligeti, che non si riconosceva in questa estetica (era, del resto, un rumeno di nascita, divenuto ungherese dopo l’annessione, nel 1940, della Transilvania all’Ungheria. Di religione ebraica, aveva ben altre radici da quelle care al regime), è costretto ad aderirvi nelle sue composizioni ufficiali e, diciamo così, ‘diurne’. Di notte, ecco invece la possibilità di sbizzarrirsi più liberamente in composizioni che non verranno mai né pubblicate né eseguite, realizzate solo per se stesso. Da qui il titolo di Metamorfosi (inteso come ‘cambiamento di pelle’) e l’aggettivo Notturne (in riferimento al tempo della trasformazione, ossia della composizione). In realtà, il quartetto, che rielabora testi di Bela Bartók, è in fondo una metamofosi anche nel senso più tradizionale nel campo musicale.

    Quello che interessa a noi è però che la metamorfosi, vista come mutamento del proprio aspetto esteriore, per recuperare una intima, più vera natura, qui diviene una conquista di libertà, un libero sfogo contro tutte le costrizioni di un potere assillante. Anche questo senso di rivolta non è assente dal poema ovidiano, così come non lo è il sospetto che la metamorfosi, per quanto crudele e imposta dagli dèi, altro non faccia che rivelare la più vera natura del singolo. Licaone, in fondo, era già lupo prima di diventarlo…

     

     

    L’esecuzione, dal vivo, a Basilea nel 2011, è quella del Quartetto Mirus, dal cui canale l’ho ricavata, dove è offerta alla libera consultazione. Al canale rimando per tutti i diritti e le informazioni circa i bravissimi interpreti, pronto a cambiare edizione se dovessero decidere diversamente circa la possibilità di condividere le loro esecuzioni.

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Dove le Metamorfosi di Ovidio hanno sempre trovato terreno fertile è, ovviamente, nel campo dell’opera lirica, per la quale esse hanno costituito, con il loro inesauribile repertorio di miti, un serbatoio di vicende da rendere teatrali. Il fenomeno si realizza già nell’età barocca e prosegue per tutto il Settecento; ha qualche sporadica attestazione nell’Ottocento; riprende quota nel Novecento. Naturalmente, non si tratta mai di una ripresa letterale del testo ovidiano: non solo per le necessità della teatralizzazione (che peraltro si direbbero spesso rispettate già dall’originale latino), o per l’obbligo di adeguare le vicende narrate da Ovidio a un organico, soprattutto vocale, che secolo dopo secolo rispetta usi ed esigenze diverse a seconda delle tradizioni e delle mode. In realtà, è implicita proprio nella definizione del mito la sua fertilità e la possibilità di adattamento a strutture continuamente diverse, e l’opera lirica ha sfruttato ampiamente questa caratteristica. Da qui, una serie di riscritture che, anche quando si ispirino esplicitamente alle Metamorfosi ovidiane, di fatto ne tradiscono la lettera, e spesso anche lo spirito.

    Fra i testi che si potevano presentare ho scelto la Daphne di Richard Strauss [1864-1949], andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale (scoppiato meno di un anno più tardi). Nel frontespizio del libretto l’opera si dichiara come un Dramma bucolico derivato da Ovidio. Si tratta di una composizione in un atto solo, originariamente pensata come complemento a un altro testo di Strauss, Friedenstag (Giorno di pace), una misconosciuta storia ambientata al tempo della Guerra dei Trent’Anni, ma di carattere dichiaratamente pacifista. Librettista di entrambe le composizioni avrebbe dovuto essere Stefan Zweig [1881-1942], che dopo la morte di Hugo von Hoffmanstahl [1874-1929] aveva preso il posto di quello come collaboratore privilegiato di Strauss. Zweig fu però impedito dalle autorità naziste di firmare i libretti straussiani (alla prima de La donna silenziosa, nel 1935, Strauss si era rifiutato di cancellare il nome di Zweig dalle locandine, e di conseguenza dopo sole tre recite venne proibita ogni ulteriore messa in scena dell’opera); Zweig, che era di origine ebraica, collaborò ugualmente al testo, ma da non accreditato, e nel corso del 1938 dovette fuggire prima a Londra, poi negli States e in Brasile. Il libretto di entrambe le opere fu perciò firmato da Joseph Gregor [1888-1960], un letterato di minore fama, che rimarrà un collaboratore fisso del musicista (che non l’amava molto). Le due opere ebbero rappresentazione separata, una in luglio, l’altra in ottobre. Daphne è dedicata al direttore d’orchestra Karl Böhm [1894-1981], che fu uno dei principali collaboratori musicali di Strauss.

    Daphne descrive (in modo simbolico ed allegorico, specie considerando l’epoca di composizione e le complicate vicende legate alla sua messa in scena, alle quali ho già fatto cenno) un mondo arcadico di bellezza e tranquillità. Il testo si apre con un inno alla Natura intonato dalla protagonista, e con la rappresentazione di una comunità pastorale felice e tranquilla, guidata dai genitori della giovane, Gea e Peneo; comunità nella quale Dafne si inserisce perfettamente, amata dal giovane Leucippo (i nomi sono tutti classicheggianti, ma i dettagli sono sconosciuti ad Ovidio). Su questo mondo di pace piomba un giorno, dall’esterno, il dio Apollo, che vede Dafne, se ne innamora, la vuole per sé e, benché respinto, la considera cosa sua, fino ad uccidere il rivale Leucippo. Nel finale Dafne compiange il giovane ucciso, e il dio, che ha finalmente compreso di non avere speranze, si allontana, chiedendo a Giove di trasformare la ragazza nella pianta di alloro. La scena che chiude l’opera, con il nome di Daphnes Verwandlung (Metamorfosi di Dafne) vede il progressivo disgregarsi della protagonista come essere umano, e la sua trasformazione in pura voce che gorgheggia, come un’eco sempre più lontana. La violenza del dio si è compiuta, e ha portato alla distruzione delle vittime innocenti, che hanno perso la vita, come Leucippo, o la propria identità, come Dafne. Alla fine le parole della giovane, cui è affidata la conclusione dell’opera, si fanno sempre più frante, singoli sintagmi nemmeno sempre ben coesi fra loro. Eccone una traduzione italiana: “Vengo, vengo,  verdi fratelli! Dolce fluisce a me, la linfa terrena! A te mi protendo, in rami e foglie, purissima luce! Apollo! Fratello! Già… le mie fronde… Vento… vento, gioca con me! Sacri uccelli… abiteranno in me… Uomini… amici… prendetemi a testimone… amore senza fine”. Segue il bellissimo finale vero e proprio, con il titolo di Mondlichtmusik (Musica al chiaro di luna): la metamorfosi si sta compiendo, Dafne si irrigidisce sempre più, la Natura torna a dominare e inglobare in sé la ragazza, ridotta progressivamente a pura voce, anzi a eco di una voce. La metamorfosi è trasformazione in altro, ma la trasformazione, quando non è voluta, significa perdita del proprio sé.

    Mondlichtmusik

    Strauss scrisse anche un’altra composizione intitolata Metamorphosen, priva di altri riferimenti all’opera di Ovidio che non siano il titolo. Si tratta dello Studio per 23 archi solisti – dieci violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi (un organico insolito) – scritto nel marzo/aprile del 1945 ed eseguito per la prima volta a Zurigo nel 1946. La guerra in Germania terminò solo nel maggio del ’45; ma il 30 aprile di quell’anno il suicidio di Hitler aveva fatto precipitare gli eventi. Metamorphosen è un’accorata riflessione sui danni prodotti dalla guerra. Una guerra segna sempre la fine di un mondo: la segna per i vincitori, la segna a maggior ragione per i vinti. Metamorphosen è un lento ragionare, in quattro tempi (adagio ma non troppo; agitato; adagio ma non troppo; molto lento – la climax discendente è di per sé molto eloquente), sulla fine della Germania, della sua civiltà, della sua arte. A Gregor nel febbraio del 1945 Strauss aveva scritto: “Sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco… tutto distrutto!”. Metamorphosen è la messa in musica di questa disperazione. La metamorfosi che si descrive è quella del passato, che non potrà più essere. Tre cellule ritmiche si rincorrono, si ripetono, si tramutano e si completano. Nel tessuto della composizione sono state riconosciute anche numerose citazioni, fra le quali due eloquentissime: la Marcia funebre della Terza sinfonia di Beethoven (il musicista dallo stile classico, assurto a nume tutelare del Romanticismo tedesco); e il lamento di re Marke, tradito dall’amico Tristan, nel Tristan und Isolde di Wagner (l’opera divenuta simbolo di certo Decadentismo tedesco). Chi vuole intendere, intenda!

    Ecco il brano, per forza di cose diviso in due parti – un piccolo, inevitabile delitto. La prima si interrompe al minuto 25; la seconda prosegue a partire dall’interruzione.

    Ulteriori informazioni sui rapporti di Strauss con la cultura classica si possono trovare nel bel volume di Franco Serpa, Miti e note. Musica con antichi racconti, Trieste 2009.

     

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    I due anni che ci attendono (2017 e 2018) saranno, come si sa, anni ovidiani. La ricorrenza del bimillenario della morte del poeta, l’incertezza circa la data esatta, l’occasione ghiotta per iniziative di vario genere (a scapito dell’altro grande festeggiando del 2017, Tito Livio) fanno sì che si siano moltiplicate occasioni di studio, incontri, convegni sulla figura e l’opera del poeta delle Metamorfosi. Diamo qui un piccolo contributo – non sarà il solo… – presentando un percorso che connette le Metamorfosi ovidiane ad alcune composizioni musicali del Novecento da poco (?) passato. Si tratta di una scelta personale, in parte legata ai limiti di capacità imposti dal sito. Idea di fondo è mostrare l’attualità, anche nel secolo appena concluso, del poeta e della sua opera; fermo restando che la musica che proporremo è spesso sconosciuta ai giovani italiani (non così fuori dai confini del nostro Paese), dai quali è spesso vista con sussiegoso disdegno; ma esperienza insegna che, una volta sperimentata in modi e tempi appropriati, si possono produrre risultati inattesi.

    Incominciamo a dire che il concetto di metamorfosi è strettamente connesso alla musica. Il tema con variazioni; le variazioni su un pezzo dato; il remake di un brano del passato; la canzone cover (nella terminologia della musica pop e rock è la riproosta di un  brano  originariamente interpretato da altri, ora fatto proprio da qualcuno che non ne è l’esecutore originale, con un rifacimento che, pur senza modificarne la struttura di fondo, è comunque tale da sorpassare i limiti della semplice reinterpretazione) sono tutti fenomeni alla base della storia della musica e della sua evoluzione. Qui ci occuperemo però di alcuni testi più direttamente connessi all’idea di metamorfosi e/o ad Ovidio. Il primo è la suite di sei pezzi per oboe solo (Six Metamorphoses after Ovid, op. 49), scritta dal compositore inglese Benjamin Britten [1913-1976] nel 1951, come omaggio all’oboista Joy Boughton [1913-1963], sua coetanea e figlia di un amico, il compositore Rutland Boughton [1878-1960]. Come recita il titolo, ognuni dei sei pezzi vorrebbe descrivere una scena delle Metamorfosi e cioè, nell’ordine, Pan che suona il flauto, fatto con le canne in cui si è mutata l’amata Siringa (met. I 689-712); Fetonte che guida il carro del sole (II 1-400); Niobe impietrita dal dolore per la morte dei figli (VI 146-312); il corteo festivo di Bacco (IV 1-32); la morte per consunzione di Narciso, innamorato di se stesso (III 339-510); Aretusa in fuga davanti ad Alfeo (V 572-641). Non c’è un ordine preciso, né una scelta che delinei un chiaro percorso all’interno del poema. Ogni scena si presta a un carattere musicale: il canto di Pan è spezzato e irrequieto, come ci si attende dal tratto faunesco del dio (lo aveva insegnato Debussy, con il suo Prélude à l’aprèsmidi d’un faune [1894]), dio che qui oltretutto sta dialogando con la sua amata di un tempo e sperimentando le possibilità del nuovo strumento. La corsa di Fetonte è concitata e senza pause, il ripetersi prima trionfalistico poi via via sempre più dubbioso di una cellula musicale, fino alla catastrofe finale. Niobe ha la musica più lenta e fissa di tutti e sei i pezzi, un lungo lamento ripreso più volte, sempre diverso e sempre uguale a se stesso. Il  quarto brano è festoso e chiassoso, perché a detta di Britten dovrebbe esprimere il chiacchiericcio pettegolo delle donne e le grida dei ragazzi che accompagnano la divinità. Il quinto è lento e riflessivo; il sesto è amabile – la storia di Aretusa e Alfeo è l’unica, fra quelle rievocate, a prevedere un lieto fine.

    Volta per volta, lo strumento solista si sostituisce alla narrazione attraverso la descrizione di uno stato d’animo oppure, quando non ci sia narrazione ma semplice rappresentazione dello stato d’animo (come nel caso della prima e della quarta metamorfosi), si fa creatore di una nuova lingua, diversa e complementare alla favella umana, perché direttamente capace di convogliare le emozioni e i sentimenti, senza ricorrere alle parole e al discorso razionalmente costruito. Ecco, una per una, le sei composizioni:

    Pan

     

    Fetonte

     

    Niobe

     

    Bacco

     

    Narciso

     

    Aretusa

     

    Per un’analisi dei temi musicali si può vedere l’articolo reperibile in open access alla pagina

    http://www.idrs.org/publications/controlled/DR/JNL20/JNL20.Mulder.html

    Di Britten e della cultura classica si occupa, proprio a partire dalla composizione che ci interessa, il volume di Lucy Walker, Benjamin Britten. New Perspectives on his Life and WorkAldeburgh 2009, che dedica all’argomento l’intero quarto capitolo.