In un saggio pubblicato nel 1924, Les Rois thaumaturges, Marc Bloch (1886-1944) ricostruì la vicenda dei re taumaturghi, ossia i Cristianissimi sovrani francesi, che, fra le qualità derivanti loro dal potere regale – e che, allo stesso tempo, attestavano il loro diritto al titolo regale – vantavano la capacità di guarire le scrofole con la semplice imposizione delle mani sul viso degli ammalati. Nel volume Bloch ricostruisce, su un numero sterminato di fonti sparse (documenti d’archivio, resoconti di cronaca, memoriali, giornali di viaggio dei malati in cerca di guarigione ecc.), le origini di questa idea e la sua evoluzione, oltre a un congruo numero di casi paralleli che servivano allo stesso scopo. Il favore divino presupposto da un simile meccanismo è, nella ricostruzione di Bloch, un fenomeno tipicamente francese, favorito dal clero gallicano e ispirato alla conversione di Clodoveo: il quale fu unto re direttamente dallo Spirito Santo, e non dalla mano del Papa; il che avrebbe dato poi origine a un legame privilegiato fra divinità e regalità.
Una meravigliosa, ma non troppo conosciuta, pagina di Tacito (hist. IV 81) offre un interessante parallelo. La riporto per intero:
Per eos mensis quibus Vespasianus Alexandriae statos aestivis flatibus dies et certa maris opperiebatur, multa miracula evenere, quis caelestis favor et quaedam in Vespasianum inclinatio numinum ostenderetur. E plebe Alexandrina quidam oculorum tabe notus genua eius advolvitur, remedium caecitatis exposcens gemitu, monitu Serapidis dei, quem dedita superstitionibus gens ante alios colit; precabaturque principem ut genas et oculorum orbis dignaretur respergere oris excremento. Alius manum aeger eodem deo auctore ut pede ac vestigio Caesaris calcaretur orabat. Vespasianus primo inridere, aspernari; atque illis instantibus modo famam vanitatis metuere, modo obsecratione ipsorum et vocibus adulantium in spem induci: postremo aestimari a medicis iubet an talis caecitas ac debilitas ope humana superabiles forent. Medici varie disserere: huic non exesam vim luminis et redituram si pellerentur obstantia; illi elapsos in pravum artus, si salubris vis adhibeatur, posse integrari. Id fortasse cordi deis et divino ministerio principem electum; denique patrati remedii gloriam penes Caesarem, inriti ludibrium penes miseros fore. Igitur Vespasianus cuncta fortunae suae patere ratus nec quicquam ultra incredibile, laeto ipse vultu, erecta quae adstabat multitudine, iussa exequitur. Statim conversa ad usum manus, ac caeco reluxit dies. Utrumque qui interfuere nunc quoque memorant, postquam nullum mendacio pretium.
Dunque, Vespasiano – partito da Gerusalemme alla volta di Roma – non ha troppa fretta di arrivare in Italia, dove le truppe di Antonio Primo gli hanno conquistato la porpora imperiale e il figlio Domiziano governa in suo nome, con l’appoggio di Muciano. Siamo nel 69 d.C. Ad Alessandria Vespasiano è stato proclamato imperatore il 1 di luglio; da Alessandria partirà solo alla fine dell’estate, alla volta di Rodi prima, della Grecia continentale poi, per arrivare in Italia nella primavera dell’anno successivo. Del lungo soggiorno alessandrino Tacito mette in evidenza l’episodio che ci interessa. Appena proclamato princeps, Vespasiano ha la possibilità di confermare le sue pretese con dei miracula che poco hanno in realtà di miracoloso (i medici interpellati ne offrono infatti una spiegazione razionale), ma che si inseriscono pienamente nel colore locale, entro le credenze di una popolazione definita con un po’ di disprezzo come dedita superstitionibus e avvicinata così a una tipologia orientale. Eppure, Tacito non mette in dubbio la storicità dell’avvenimento: anche a distanza di tempo, dice, chi fu testimone lo racconta come vero, sebbene – scomparso Vespasiano nel 79, i figli Tito e Domiziano nell’81 e nel 96, i motivi per l’adulazione siano venuti ormai meno (nunc quoque dice Tacito, senza specificare a quale data si debba riferire questo nunc: le Historiae sono comunque comunemente datate intorno al 110, oltre quarant’anni dopo gli avvenimenti narrati).
La pagina ha il sapore dell’aneddoto, un exemplum intriso di retorica. Tacito fa uso di forme della lingua poetica (gli arcaizzanti quis per quibus, forent per essent e fore per futurum esse; i molti perfetti in –ēre; l’accusativo di relazione manum aeger; un certo gusto per la perifrasi, per cui Vespasiano, anziché attendere i venti estivi e il mare calmo, aspetta i statos aestivis flatibus dies et certa maris…). Non mancano nemmeno gli elementi più tipici di una narrazione storica: infiniti al posto degli indicativi (inridere, aspernari, metuere, in spem induci); parallelismi (quidam…alius, poi ripreso da huic…illi); oggettive per lungo tratto messe in dipendenza da un’espressione di dire come medici varie disserēre ecc. Significativo è il parallelo con il Vangelo di Giovanni, 9.6-7, anche in qualche forma espressiva: pure in quel testo il Cristo, richiesto di guarigione da un cieco, tale fin dalla nascita, manifesta la sua divinità sputando per terra, facendo del fango con la saliva, spalmandolo sugli occhi del disabile e invitando poi quest’ultimo a lavarsi nella piscina di Siroe.
A Tacito però interessa soprattutto raffigurare la corte degli adulantes che circondano il nuovo imperatore e lo spingono a cimentarsi nell’azione richiesta. Campeggia nella descrizione anche il carattere cauto e pragmatico dell’imperatore, che teme l’insuccesso, non vuole esporsi inutilmente, è tentato dalla possibilità di successo, ma si cautela contro gli imprevisti con la richiesta di un parere preventivo ai medici del suo seguito, e infine si convince alla prova solo quando gli viene fatto osservare che dall’eventuale insuccesso nessun danno deriverebbe a lui personalmente, mentre sarebbe stato facile rovesciarne la responsabilità sui questuanti. L’aneddoto si configura così come il prodotto ben riuscito di un perfetto ufficio stampa, come lo chiaremmo noi oggi, che sa quale partito trarre dall’esito positivo dell’impresa (patrati remedii gloria penes Caesarem), ma sa anche, e soprattutto, perché questa è poi la cosa più importante, come scaricare sugli altri l’eventuale insuccesso (inriti remedii ludibrium penes miseros). Siamo, con straordinario anticipo sui tempi, alle origini della civiltà dell’immagine. E che i medici siano subito pronti, pur nel loro varie disserĕre, ad assicurare la possibilità di riuscita (visto che nessuno dei due infermi è propriamente tale: l’uno e l’altro soffrono solo di mali temporanei e facilmente rimovibili, il che fa sospettare che siano stati scelti ben ad arte), lascia non pochi dubbi sulla regia che deve avere operato alle spalle della vicenda. Certo, Tacito lo ribadisce nel finale, a quarant’anni di distanza i (si immagina, pochi) testimoni sopravvissuti ancora garantiscono della veridicità dell’episodio: ma “il trucco” di un episodio spettacolare è, come ben sappiamo, alle spalle dello spettacolo stesso, e non nello spettacolo in sé. Più cauto, o meno esperto, o forse solo più sornione, Tacito si limita a suggerire una simile idea, lasciando al lettore il piacere di arrivare a sospettarla da solo. Vespasiano, del resto, era forse il meno peggio degli imperatori di cui ci ha narrato la storia. Ma meno peggio non significa migliore, e nello specifico non significa privo di furbizia e abilità nel costruire la propria immagine. Diffidate gente, diffidate…