Un’amica mi ha regalato il libro di John Picchione, La scrittura, il cervello e l’era digitale, Macerata 2016. Picchione, docente di Letteratura e cultura italiana moderna e contemporanea presso la York University di Toronto, è ben noto come studioso del Modernismo e dei movimenti di avanguardia del primo Novecento, di Sanguineti e di Antonio Porta. Tra le sue opere più recenti c’è il volume Dal modernismo al postmodernismo. Riflessioni teoriche e pratiche della scrittura, anch’esso edito in Italia (Macerata 2012). Per meglio presentare lo studioso, offro qui un suo articolo, pubblicato dall’Università di Milano, e disponibile on-line alla libera consultazione.
Picchione – il modernismo e il tempo, acme, 2015, pp. 15-37
Nel libro che vorrei discutere in questo post, Picchione si interroga su quali siano gli effetti della tecnologia elettronica sulla scrittura, la letteratura, le sue pratiche pedagogiche. Il tema mi pare di grande attualità e interesse. La risposta, non lo nascondo, è in parte deludente. Picchione parte dalle teorie, ormai metabolizzate da tempo, di Marshall McLuhan (La Galassia Gutenberg, 1962) e Walter J. Ong (Oralità e scrittura, 1982), secondo le quali la rivoluzione tecnologica non è un fatto neutro e privo di conseguenze, un semplice aggiungersi e perfezionarsi degli strumenti a disposizione dell’uomo. La tecnologia ha profonde ripercussioni sul nostro modo di percepire il mondo e dargli senso, modifica i nostri rapporti con le persone e le cose. Per McLuhan (e Ong) il passaggio dalla parola orale, che si veicola attraverso l’udito, in una relazione avvolgente, emozionale e immediata, alla parola scritta, che si veicola attraverso la vista, fredda, distanziata e razionale, ha segnato una cesura storica senza paralleli, ha costituito un punto di svolta e di non ritorno nella storia dell’umanità. L’alfabetizzazione (cioè, appunto, questo passaggio da oralità a scrittura) è avvenuta su un lungo arco temporale e in più fasi, ultima delle quali è stata l’invenzione della stampa a caratteri mobili, che ha influito sull’uomo, sulle sue forme aggregative, sulle sue capacità e i suoi sensi, favorendone alcuni a scapito di altri. Il meccanismo della lettura testuale è divenuto così un abito di cui l’umanità non ha potuto più liberarsi, e che ha finito per condizionarla anche entro esperienze che non erano direttamente “testuali” (come ad esempio il cinema, gli altri mezzi di comunicazione di massa, le aggregazioni politiche e sociali della vita d’ogni giorno). Riprendendo questa impostazione, Picchione sostiene che oggi siamo di fronte a un’identica svolta epocale, il che giudico vero, anche se non ancora pienamente colto da tutti, e non sfruttato adeguatamente, in particolare, nel mondo della cultura. Nel suo libro, di rapida e immediata lettura, Picchione insiste su questo e cerca anche di smascherare il facile trionfalismo, nella direzione delle “sorti magnifiche e progressive” che a breve ci attendono o ci attenderebbero, da molti connesse all’invadenza del computer nella vita quotidiana. E anche questo mi sembra un argomento di grande interesse e attualità, e molto ben sviluppato.
Dove il volume incomincia a lasciarmi più dubbioso è quando, sulla scia di una moda diffusa nell’ultimo decennio, Picchione si ricollega alle parole di neuroscienziati come Norman Doidge e Gary Small per evidenziare, in toni catastrofistici, i danni apportati dalle nuove tecnologie sul cervello dell’uomo e l’effetto di dipendenza che esse stanno innescando nell’umanità. Non che i ragionamenti siano inesatti e gli effetti del fenomeno non appaiano sotto gli occhi di tutti, anche solo nella pratica quotidiana. Non credo però che, nella breve esistenza di internet (vent’anni ca.), gli effetti di queste variazioni cerebrali si possano già quantificare con assoluta certezza in termini di mutamenti psicosomatici prodottisi nell’umanità e di danni apportati al complesso plastico del cervello, anziché di singoli neuroni disattivati, o diversamente attivati, dalla rinuncia alla lettura “tradizionale”. Ciò che Picchione e i suoi referenti scientifici mettono bene in evidenza è che, nell’atto cognitivo realizzato attraverso il computer, anziché attraverso il libro, il cervello sfrutta attività, zone di materia grigia e neuroni tendenzialmente diversi (e nel caso dei neuroni, in numero minore) da quelli in uso nella pratica tradizionale della lettura – pratica che è, lo sappiamo tutti, un’attività tendenzialmente lenta, ad alta concentrazione personale, riflessiva. A ciò vanno aggiunte le diverse relazioni sociali che la “macchina internet” favorisce, o, più facilmente, di norma inibisce. Perché l’impiego di sempre maggior tempo al computer è una pratica solipsistica ancor più del leggere un libro, e non spinge solo a isolarsi per tutto il tempo della pratica stessa (il che, a ben vedere, vale forse in misura perfino maggiore per chi legge), ma anche ad accentrare ogni cosa su di sé e su quanto ci interessa nell’hic et nunc del singolo momento, mentre viene ignorata la realtà che non rientra in questa sfera d’attenzione. Il che è di nuovo verissimo. Solo che, mentre simili osservazioni hanno, secondo me, una ragione d’essere presso gli scienziati, che descrivono, com’è loro dovere, una realtà effettuale della quale colgono i dati (delineando così un homo futurus presumibilmente diverso dall’attuale, ma ancora tutto da scoprire, tanto nei suoi limiti quanto nelle sue potenzialità), insistere su questi fenomeni e fare di essi il motivo di un allarmato pamphlet ha meno ragione d’essere in chi, come Picchione, si presenta come uno storico della cultura. Perché quello che ci viene detto, e ribadisco la mia piena convinzione di questo, è che siamo davanti a una rivoluzione non solo tecnica, ma anche sociologica, e addirittura antropologica. Bene, finché si tratta di prendere atto del fenomeno e di non assumere con indifferenza, come mero avanzamento tecnico, la strada intrapresa negli ultimi decenni. Ma piangere su questo mutamento vuol dire invece assolutizzare il passato cui si era abituati, e che non potrà più riproporsi tale e quale. Solo che allo storico compete prendere atto dei fenomeni in corso, non demonizzarli; mentre l’educatore deve conviverci quanto più gli è possibile, sapendo che i grandi rivolgimenti, una volta avviati, non possono essere arrestati: al massimo, possono essere guidati e indirizzati su una via parzialmente diversa da quella fin lì intrapresa, si può cioè cercare una mediazione che consenta di non perdere tutto ciò che ci portiamo dietro dal passato e che vorremmo, in qualche misura, conservare anche nel nuovo che ci aspetta, adattandolo però a quel nuovo che ci aspetta e che sicuramente finirà per trionfare.
Quando invece Picchione dovrebbe spiegare come si possa ancora fare letteratura e storia della letteratura con giovani studenti che, mediamente, vivono in presenza di una globalizzazione della cultura dello spettacolo e del consumo, favorita dal dominio dell’esperienza visiva che produce i suoi effetti sulla percezione del sé e sulle modalità gnoseologiche (Picchione definisce questi effetti come deleteri e immorali, ma io rifiuto di giudicare i fenomeni storici) – generazioni che hanno visto modificarsi le loro categorie spazio-temporali, trasformandosì così da homines sapientes in homines videntes, la cui comunicazione è immersa nell’istantaneità e nell’ubiquità, e che in conseguenza di questo hanno perso gran parte delle capacità ermeutiche di un messaggio scritto – ebbene, quando Picchione dovrebbe spiegarci tutto questo…in realtà siamo arrivati a pagina 80 su un totale di 89! E la ricetta svolta in quelle nove pagine è relativamente semplice: si tratta di rivalutare la letteratura scritta, proibendo le altre forme invasive almeno entro i circuiti scolastici, da arroccare in una difesa ad oltranza della parola letteraria, della sua espressione e della sua ricezione, nella convinzione che la letteratura, diciamo così, “tradizionale” sia riflessione, ambiguità, sofferenza, ethos, e come tale possa trovare la propria funzione sociale in un mondo in cui, cito, “la tecnologizzazione del sistema scolastico riduce la percezione dello studio a raccolta di informazioni facilmente accessibili”. Il che, a me, non sembra significare nulla, e anzi pare una deriva pericolosa, ben sintetizzata dall’espressione, in quarta di copertina, per cui scopo del volume sarebbe promuovere “una letteratura impegnata a suscitare nei giovani un orientamento di resistenza” (nei confronti delle tecnologie).
Resistere alle novità non serve a nulla, specie quando queste novità abbiano già assunto il carattere di fenomeno di massa; più che resistere, si deve convivere, cercando di apportare gli adeguati correttivi e di suscitare, questo sì, senso critico e capacità di distinguere valorialmente le diverse possibilità offerte dalla tecnologia, senza fare di ogni erba un fascio, senza rimpiangere un inutile passato. Picchione, invece, si scandalizza con toni accesi dell’assenza, anche in casa di laureati, delle enciclopedie cui tanto tenevano i nostri padri, senza domandarsi se l’enciclopedia tradizionale, strumento costoso in termini economici e di spazio, e subito obsoleto, non abbia necessariamente ceduto il passo a forme alternative di controllo dei dati immediati del sapere. Forme che possono essere molto buone, oppure no; che andranno definite nelle loro possibili tipologie e categorie; per le quali andranno fissati criteri oggettivi di verifica e di aggiornamento: ma che non vanno di per sé demonizzate, e alle quali è inutile contrapporre un nostalgico strumento del passato, ormai divenuto improponibile. Così, sempre parlando dell’eccesso di dati cui internet offre spazio (cosa in sé verissima), Picchione osserva che “un’overdose di informazione […] causa la perdita di significati e diventa dis-informazione, rumore”. Il che è di nuovo verissimo, ma comporta la necessità di porre anche qui graduatorie e criteri chiari che consentano di distinguire informazione da informazione, sito da sito, notizia da notizia. Per Picchione invece “l’istantaneità dell’informazione in Rete scoraggia la ricerca in blblioteca e trasforma le esercitazioni scritte in plagi” – una catena associativa i cui elementi non sono legati da nessun rapporto di causa/effetto, ma solo dalla cattiva educazione alle spalle di chi agisce così. Anche Picchione (e certo io) userà la Rete per le sue ricerche, senza che queste si configurino automaticamente come plagi; né il tempo passato in una biblioteca digitale è di per sé diverso dal tempo passato in una biblioteca “tradizionale”: sono l’uso che si fa delle informazioni e la capacità critica che su di esse e sul loro reperimento si è sviluppata che fanno l’eventuale differenza. Ma il discorso vale tanto per un utente digitale, quanto per un utente tradizionale. E chi ha guidato l’uno come l’altro, lo ha istruito e lo segue nella ricerca, dovrà essere in grado di addestrare il proprio allievo in entrambi i campi e i casi, acquisendo cioè a sua volta un’adeguata competenza selettiva, da esercitare sui libri cartacei, come anche sugli strumenti digitali.
E qui veniamo al punto debole del volume: il quale si chiude al momento in cui doveva entrare nel vivo del suo tema, spiegandoci cosa si debba fare sul piano pratico e come si possano comunicare i valori in cui abbiamo sempre creduto a future generazioni che sempre di meno saranno portate, e non per colpa loro, ma per effetto della trasformazione del mondo, a riconoscersi, e forse anche a comprendere quegli stessi valori. Picchione si limita invece a una celebrazione generica e superficiale di quei valori e a ribadire la necessità di una loro proposizione (controllata e protetta), a fianco e in opposizione all’utilizzo altrove predominante degli strumenti informatici. In questo, egli non fa altro che adeguarsi a una serie ormai cospicua di volumi che ci hanno ricordato, se mai ne avessimo dubitato, la sublimità del greco o l’importanza culturale del latino, per fare due esempi. Ma che non ci hanno insegnato come questa importanza e sublimità si possano calare negli scenari presenti e futuri che in questo volume si configurano, non ci hanno cioè spiegato come iniettare questa importanza e questa sublimità dentro gli strumenti oggi prevalenti tra i giovani, e non contro, in opposizione e in aggiunta (contrastiva) ad essi. Mentre è solo la prima operazione che consentirà di “costruire” un homo futurus capace di attivare i neuroni che gli sono propri, e anche quelli destinati altrimenti a finire perduti; la seconda creerà invece dei disadattati. Questa mancanza secondo me rende debole la proposta del libro, e di molti ad esso similari, che finiscono per apparire come un antistorico voler controllare e fermare un processo ormai in atto. Perché, in fondo, esistono delle “sorti magnifiche e progressive” anche per gli scenari passati, non solo per quelli futuri! E il sospetto dell’esercizio retorico resta, in simili casi, fortissimo. Alterità, opposizione, recupero e conservazione di capacità e pratiche perdute, o comunque a rischio di perdita, sono le parole d’ordine di volumetti come quello di Picchione: ma alterità, opposizione, recupero rimangono termini senza senso se non sanno calarsi in una mediazione che deve partire dai modi e dal credo che si vogliono combattere, ma si riconoscono predominanti; e se in quei modi e in quel credo non riescono a instillare quanto di buono vi si può ancora davvero instillare. In caso contrario, si entra nella schiera di coloro che, di fronte a una rivoluzione, non ne sanno prendere atto, se non per lamentarsene e sperare che, alla fine, la si possa in qualche modo fermare. Nessuna rivoluzione è mai stata fermata. Al massimo, è stata cavalcata e guidata verso esiti in origine inaspettati…
Non so quale sia la cultura classica di Picchione. Ma la lettura del suo libretto mi ha fatto venire in mente una pagina irresistibile di Platone, che tutti conosciamo. Siamo nel Fedro, ed è il mito dell’invenzione della scrittura da parte del dio Theuth, ovvero Ammone. Genialità specifica di Platone è l’avere affidato, lui, allievo di un maestro che all’oralità aveva consegnato tutto il suo insegnamento, il proprio dissenso dalla scrittura a un’opera scritta, e scritta con le straordinarie capacità narrative e rappresentative che ci propongono i dialoghi platonici. Un tocco di raffinata ironia, credo, che rende grande chi ne è stato capace! Quello che forse non tutti sanno è che i testi greci, ben prima dell’invenzione della stampa, ma in forma accelerata dopo di essa, nelle occasioni importanti venivano per lo più editi con a fianco una traduzione latina. Perché il greco è sempre stato lingua d’élite, il latino lingua di comunicazione. Ecco allora quella pagina famosa, ma in latino, come compete a questo sito. Ricavo la traduzione dalla bellissima edizione platonica di Immanuel Bekker, 1816: un volume per molti anni cercato e consultato nelle biblioteche di mezza Europa, e oggi facilmente accessibile anche a casa mia, come in quella di chiunque, proprio grazie ad internet…
Audivi equidem, circa Naucratim Aegypti, priscorum quendam fuisse deorum, cui dicata sit avis quam Ibim vocant; daemoni autem ipsi nomen Theuth. Hunc primum numerum et computationem invenisse numerorum geometriamque et astronomiam, talorum rursum alearumque ludos et litteras. Erat tunc totius Aegypti rex Thamus, et in eminentissima amplissimaque civitate quas Graeci Aegyptias Thebas appellant; deumque ipsum Ammonem vocant. Ad hunc Theuth profectus, artes demonstravit suas dixitque eas distribui deinceps Aegyptiis ceteris oportere. Verum ille, quae cuiusque utilitas foret interrogavit. Et, ipso referente, quod bene dictum videbatur, probabat quidem; quod contra, vituperabat. Ubi multa de qualibet arte in utramque partem Thamus fertur Theuthi ostendisse (quorum singula si narrare pergamus, prolixior erit oratio), cum vero ad litteras descendissent: “Disciplina haec – inquit Theuth – o rex, sapientiores magisque memoriosos Aegyptios faciet. Memoriae namque et sapientiae remedium id est inventum”. At ille: “O artificiosissime Theuth – inquit – alius quidem ad artis opera fabricanda idoneus est, alius ad iudicandum promptior quid emolumenti vel damni sint utentibus allatura. Atqui et tu, litterarum pater, propter benevolentiam contrarium quam efficere valeant affirmasti. Nam illarum usus propter recordationis neglegentiam, oblivionem in animo discentium pariet. Quippe qui, externis litterarum confisi monumentis, res ipsas intus animo non revolvent. Quam ob rem non memoriae, sed commemorationis, remedium invenisti. Sapientiae quoque opinionem, potius quam veritatem, discipulis tradis. Nam cum multa absque praeceptoris doctrina perlegerint, multarum rerum periti vulgo, cum ignari sint, videbuntur. Consuetudine quoque molestiores erunt, utpote qui non sapientia ipsa sint praediti, sed opinione sapientiae subornati.
Come giustamente osserva Fedro nel dialogo, Socrate qui parla di Egizi dei tempi passati, ma potrebbe parlare degli Ateniesi del loro tempo; o forse, perché no?, anche di noi stessi.
© Massimo Gioseffi, 2017
Concordo col prof. Gioseffi nel considerare un errore, anzi un anacronismo, la demonizzazione di Internet e di quanto ad esso collegato quando si parla di cultura, e di cultura classica in particolare.
Vorrei aggiungere che le pratiche di scrittura e lettura non sono rimaste identiche dalla comparsa dell’uomo sulla terra sino ad oggi: dai graffiti su pareti rocciose, alla scrittura cuneiforme su tavolette, al papiro al rotolo alla pergamena, al libro stesso che è cambiato da Gutenberg a oggi, per non parlare della sempre esistita comunicazione visiva….. Ognuna di queste novità ha senza dubbio portato dei cambiamenti – ad esempio una più facile reperibilità dei testi a un costo minore e quindi a una diffusione della cultura. Leggiamo le Bucoliche nello stesso modo pratico in cui le leggevano gli antichi? Non credo, ma comunque le leggiamo.
Fare del catastrofismo non serve a nulla, secondo me. Serve invece essere capaci di utilizzare al meglio, anche didattica mente, la tecnologia. Io troverei utilissima una Lim anche nelle sedi universitarie, perché permetterebbe lezioni più variate e vivaci, a scelta del docente.
Infine, temo che le rivoluzioni non si fermino…
Grazie dell’intervento.
Mi piacerebbe che questo spazio servisse anche ad altri lettori, per rispondere ad alcune domande:
– qual è lo spazio concesso a internet a lezione e nella didattica quotidiana?
– da ragazzi noi facevamo le ricerche sulle enciclopedie, reperite a casa o nelle biblioteche comunali e rionali. I nostri insegnanti ci guidavano nel lavoro, quando erano bravi, aiutandoci a distinguere fra enciclopedia ed enciclopedia, fra libro e libro. Noi come facciamo a insegnare ai nostri ragazzi a distinguere fra sito e sito, quelli che sono scientifici e quelli che no, quelli che si possono mettere a frutto e quelli che forse è meglio se no?
– quanto viene utilizzato il computer nelle verifiche in classe?
– come è stato risolto il problema, tipicamente italiano, delle versioni tutte presenti on-line con la loro bella traduzione già fatta? Come si è tentato di rendere quel materiale utile, anziché demonizzarlo come il nostro “avversario”?
Ecco, per ora mi fermo qui. Grazie fin d’ora a tutti coloro che vorranno aiutare a costruire delle risposte
Buonasera a tutti! Torno volentieri a esprimere il mio punto di vista.
Premetto che le rivoluzioni mi affascinano, i cambiamenti mi incuriosiscono, le partenze mi emozionano. Tuttavia, amo il noto e le tradizioni. Dopo aver a lungo spaziato, apprezzo profondamente il momento del ritorno. Quindi, alzo le mani e mi adeguo all’avanzata della tecnologia e di Internet, con cui ho stretto un rapporto di collaborazione, pur non volendo rinunciare alla magia della carta stampata.
Internet è una finestra aperta sul mondo, permette di infrangere i vincoli dell’hic et nunc, offre una risposta consolatoria, benché talvolta illusoria, al desiderio umano di superare i limiti della corporeità per raggiungere una dimensione trascendentale, che oserei definire laicamente spirituale. Internet ben riflette la natura dell’uomo, collocato tra la terra e il cielo. Questa credo sia, in nuce, la ragione del suo successo. In classe, Internet offre l’opportunità di creare una lezione adatta alle esigenze educative che sorgono in itinere, contribuendo a rendere ogni spiegazione un unicum, legato alla realtà specifica degli alunni, ma proiettato sul mondo, più o meno vicino. Internet permette di transitare oltre i confini inevitabili della pagina del libro, di uscire dall’aula, camminando liberamente come gli antichi filosofi, in altri dove, in altri quando. Internet consente di incontrare i grandi studiosi, i grandi autori ed attori, i personaggi storici di cui si parla nei libri, vedendoli o (quand’è possibile) ascoltandoli, mentre commentano un passo noto dell’antologia o recitano, per esempio, una poesia, mentre pronunciano discorsi memorabili. In altre parole, per lo meno a scuola, Internet aiuta a raggiungere il molteplice, stimolando la curiosità, il desiderio di capire e di approfondire le proprie conoscenze, agevola lo sviluppo della sensibilità artistica, della riflessione, dell’amore per la bellezza.
Naturalmente, il Paradiso in Terra è un’illusione perduta. Neanche Internet è dunque immune da difetti, in primis un’eccessiva mole di informazioni, la cui veridicità va controllata e la cui quantità può risultare, comunque, dispersiva. Credo sia un’evidenza, laddove si proponga alla classe un lavoro di approfondimento e rielaborazione. In merito, constato come i miei studi abbiano contribuito ad alimentare in me una passione profonda per la ricerca, che trasmetto in modo spontaneo ai miei ragazzi. In effetti, mi piace guardare ai miei alunni come a dei giovani ricercatori in erba, per quanto è possibile, colti, riflessivi, creativi, pronti all’ascolto, al confronto e alla divulgazione.
Il mio modus operandi? Oggi il problema non è raccogliere dati su cui lavorare, ma sviluppare un approccio al sapere che sia critico e costruttivo, per giungere a una visione fondata e personale della realtà. Io stessa raccolgo il materiale per l’attività di ricerca dei miei ragazzi, fornendo loro una bibliografia e una sitografia di riferimento. Gradualmente, i ragazzi vanno poi a incrementarle da sé, con la mia supervisione. In classe, procedo quindi alla formazione di piccole tavole rotonde, formate da tre o quattro alunni. Dopo essersi documentati, i ragazzi possono così misurarsi tra loro per sostenere in modalità di cooperative-learning una loro tesi, su nuclei tematici scelti in modo da andare incontro agli interessi dei singoli e da offrire, al contempo, un’opportunità anche a chi voglia seguire nuove traiettorie di crescita. Infatti, i ragazzi sono liberi di dedicarsi all’argomento che preferiscono, tra quelli da me proposti a partire dalla trattazione del programma ministeriale. Infine, dopo aver corretto e valutato gli approfondimenti realizzati dai diversi gruppi (spesso sorprendenti), chiedo agli studenti più meritevoli di esporre i risultati della propria ricerca al resto della classe, in modalità di peer-education. Talvolta, è possibile che alcuni alunni espongano le proprie ricerche in altre classi, quasi fossero degli esperti itineranti, per così dire, invitati a tener delle conferenze ex cathedra con la mia mediazione. Il tutto, lo assicuro, ingenera grande piacere e soddisfazione in me, nei giovani relatori e tendenzialmente anche in chi li ascolta dal banco, stimolato a seguirne il buon esempio. Nelle classi migliori, l’attività descritta può essere proposta anche individualmente.
That’s all! Grazie per l’attenzione, Carlotta