Qualche settimana fa ho potuto finalmente mettere le mani sul romanzo Titus n’aimait pas Bérénice di Nathalie Azoulai, libro che molto ha fatto parlare di sé in Francia, dove ha ottenuto il premio Médicis nel 2015, ma non è stato ancora tradotto in italiano. Mentre lo cercavo febbrilmente tra gli scaffali della libreria francese di Tel Aviv, pensavo di impadronirmi di un esempio di ricezione della cultura classica nel mondo ebraico, proprio in corrispondenza del momento di massimo conflitto tra il mondo pagano greco-romano e la cultura ebraica. Non ho trovato ciò che cercavo; il libro mi ha sorpreso in positivo, aprendo tutt’altra strada da quella che avevo immaginato. Ne offro una breve recensione, accompagnata da alcune idee che mi sembrano centrali quanto al modo in cui funziona il meccanismo della tradizione/ricezione, in particolare nella cultura ebraica.
Il romanzo (390 pp.) si apre in un bar dove un certo Titus decide di lasciare la propria amante: “Titus quitte Bérénice pour ne pas quitter Roma, son épouse légitime […] Titus s’avance vers Roma et dit, reprends-moi, et Roma, qui ne supporte pas qu’il abandonne ainsi le château de leurs années, le reprend”. A prima vista sembra che Berenice, la protagonista, proietti la storia di Tito e Berenice sulla sua vicenda. Persino i nomi non sono credibili: davvero la moglie legittima si chiama Roma? In realtà, la vicenda prende poi un’altra piega: non è tanto la vicenda di Tito e Berenice a costituire una spiegazione e consolazione per la Berenice d’oggi, abbandonata dal suo amante: è invece la costruzione dei personaggi di Jean Racine (1639-1699) e, in definitiva, Jean Racine stesso a costituire, per Berenice, la chiave “pour se remettre du chagrin d’amour”. A fronte delle banalità che le vengono dette per consolarla del suo amore finito, solo una frase risuona chiara al suo orecchio: Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! (Racine, Bér. 234). Nasce l’ossessione di Berenice per Racine, giacché “Elle trouve toujours un vers qui épouse le contour de ses humeurs, la colère, la catatonie… Racine, c’est le supermarché du chagrin d’amour, lance-t-elle pour contrebalancer le sérieux que ses citations provoquent quand elle les jette dans la conversation”. Comincia a leggere tutte le tragedie di Racine, a cercarne i fili tesi della lingua, una lingua “unique”. Trae le sue conclusioni: “si elle pourra comprendre comment ce bourgeois de province a pu écrire des vers aussi poignants sur l’amour des femmes, alors elle comprendra pourquoi Titus l’a quittée”. Anche se la storia della nostra Berenice ricomparirà più avanti nel libro, la rotta della narrazione cambia del tutto: Berenice va a visitare le rovine dell’abbazia di Port-Royal, dove Racine venne educato. Comincia qui per il lettore un viaggio a fianco di Racine, a partire dagli anni della scuola.
Il romanzo segue le vicende dell’autore francese fino alla morte e anzi oltre, fino alla distruzione dell’abbazia di Port-Royal (1713). In questa biografia ‘sentimentale’ di Racine si intravedono tre grandi sezioni: I) l’educazione; II) la competizione a teatro, cioè l’inizio della sua carriera di poeta ai tempi di Molière e Corneille; III) i giorni della corte. Nathalie Azoulai riesce a trasformare in narrazione il ‘dietro le quinte’ dell’opera di Racine, in maniera assai convincente: se il materiale non mancava per la vita di corte e i suoi intrighi, i giorni della scuola a Port-Royal erano certamente più difficili da drammatizzare. La scrittrice ci riesce, proponendo uno sguardo allo specchio: ciò che lei cerca di fare con Racine è esattamente ciò che Racine ha fatto nelle sue opere, cioè trasformare un conflitto, storico o mitologico, in un dramma, in un’azione scenica. La Azoulai non cade nella facile illusione di intessere una storia legata ad ognuna delle dodici tragedie di Racine, ma punta tutto sull’humus da cui nascono le tragedie: le letture di giovinezza del poeta, che ‘creano’ il suo modo di vedere il mondo. Da dove infatti poteva venire a un ragazzino rimasto orfano in tenera età la capacità di analizzare in profondo i sentimenti e riproporli in scena? La risposta della Azoulai è indubbiamente dall’educazione di Racine, che si può ben definire una education séntimentale; senza contare che, come richiede ogni dramma, ogni periodo della sua vita, compreso questo, è innervato da un conflitto. Il risultato è una lode non banale del potere della letteratura sull’animo umano, sulla durata di tale potere (nella vita di una persona, ma a ben guardare anche nella vita di una nazione o persino della cultura mondiale) e sulla capacità della letteratura di farsi chiave di interpretazione del reale.
Quali sono dunque i testi su cui Racine si forma? E quale il conflitto? Naturalmente ci sono le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, Plutarco, Tacito, Quintiliano, l’Odissea, Seneca, i tragici greci. Questi testi vengono inseriti nella vicenda come parte di un reale programma di studio del tempo. Dove nasce il conflitto? Questi testi sono la chiave linguistica per Racine per aprire scrigni più reconditi o, anzi, perfino chiusi a Port-Royal, cioè il libro IV dell’Eneide e le Etiopiche di Eliodoro di Emesa. Due sono le strade, a mio parere, che hanno portato la Azoulai a integrare questi testi nel romanzo come attori fondamentali dell’educazione sentimentale del drammaturgo: da una parte, per Virgilio, la préface alla Bérénice dello stesso Racine; dall’altra, per Eliodoro, un aneddoto noto dalla Histoire de l’Académie Française di Valincour.
Racine infatti, dovendosi giustificare nella préface all’edizione a stampa della tragedia (quasi un novello Terenzio) per la scelta di un tema apparentemente poco tragico come la separazione di Tito e della principessa giudaica Berenice, sceglie la vicenda di Enea e Didone come paradigma massimo delle passioni causate dall’abbandono: “Cette action [la vicenda di Tito e Berenice] est très fameuse dans l’histoire, et je l’ai trouvée très propre pour le théâtre, par la violence des passions qu’elle y pouvait exciter. En effet, nous n’avons rien de plus touchant dans tous les poètes, que la séparation d’Enée et de Didon, dans Virgile. Et qui doute que ce qui a pu fournir assez de matière pour tout un chant d’un poème héroïque, où l’action dure plusieurs jours, ne puisse suffire pour le sujet d’une tragédie, dont la durée ne doit être que de quelques heures ? Il est vrai que je n’ai point poussé Bérénice jusqu’à se tuer comme Didon, parce que Bérénice n’ayant pas ici avec Titus les derniers engagements que Didon avait avec Enée, elle n’est pas obligée comme elle de renoncer à la vie” [il corsivo è mio]. Nonostante le sue dichiarazioni, per scatenare ulteriormente i flutti tempestosi delle passioni, Racine introduce nella vicenda il tentato suicidio di Berenice (Bér. 1227-1240).
Eliodoro, a sua volta, fornisce il tocco romantico – proibito – dell’incontro tra i due giovani, Teagene e Cariclea, nel terzo libro, di cui Jean legge alcuni passi (nella traduzione di Pierre Grimal del 1958 nel testo della Azoulai: anacronismo dettato dall’impossibilità di somministrare ai lettori la traduzione cinquecentesca di Jacques Amyot [1548] senza spezzare l’inganno letterario – Racine lesse il testo direttamente in greco). Valincour, nella sua Histoire de l’Académie Française, di cui Racine fece parte, riporta l’aneddoto del ritrovamento del libro proibito ben due volte tra gli oggetti personali di Racine, aneddoto che viene drammatizzato anche dalla Azoulai: che cosa avrà voluto dire per Jean il bruciare delle gote di fronte alla vergogna di essere scoperto in flagrante e di fronte al rogo del libro sequestratogli? Certamente rimane segnato dall’idea continua di conflitto, a partire proprio dal conflitto tra i testi da imitare e il pericolo che essi pongono agli occhi degli insegnanti. Come può un testo classico, frutto di un’epoca canonizzata dalla scuola, costituire un pericolo?
Il conflitto tocca ogni momento della vita di Jean e anima ogni scenario creato dalla Azoulai con vero tocco drammatizzante. Sottolineo ‘drammatizzante’ perché raccontare la trama del romanzo risulta piuttosto difficile: esso non si basa su una grave situazione di conflitto che genera lo sviluppo degli eventi, ma su tre conflitti ‘minori’, sui quali la Azoulai punta il riflettore di volta in volta, mentre segue la vita di Racine: il conflitto ai tempi della scuola tra l’insegnamento rigido impartitogli e la libertà di leggere testi proibiti e fare domande scomode quanto brucianti; la competizione iniziale con Corneille e Molière a corte; la tensione tra la assoluta, quasi erotica, fedeltà a un re cattolico e la sua educazione giansenista di gioventù.
Questi conflitti ‘tenui’, interiori ma vessanti, sono a mio avviso proprio ciò che più significativamente connette il romanzo alla scrittura della Bérénice. Infatti, tornando alla préface della tragedia, si nota come la competizione tra i drammaturghi del tempo, ben messa in scena dalla Azoulai, richiedeva un’ardente difesa in risposta alle accuse che venivano mosse a Racine. La scelta è una scelta di imitazione della semplicità degli antichi, da Sofocle a Orazio: “Il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action qui a été si fort du goût des anciens. Car c’est un des premiers préceptes qu’ils nous ont laissés : “Que ce que vous ferez, dit Horace, soit toujours simple et ne soit qu’un”. Ils ont admiré l’Ajax de Sophocle, qui n’est autre chose qu’Ajax qui se tue de regret, à cause de la fureur où il était tombé après le refus qu’on lui avait fait des armes d’Achille. […] Il y en a qui pensent que cette simplicité est une marque de peu d’invention. […] Car pour le libelle que l’on fait contre moi, je crois que les lecteurs me dispenseront volontiers d’y répondre”.
L’imitazione dei grandi testi antichi spinge il drammaturgo a tentare una strada di non sicuro successo, in cui dovrà spendere ogni forza per rendere drammatico e apparente il conflitto delle volontà. Non a caso alla préface egli prepone – epigrafe o esegesi? – la concisissima descrizione di Svetonio: Titus, reginam Berenicen, cum etiam nuptias pollicitus ferebatur, statim ab urbe dimisit invitus invitam. Le parole invitus invitam catturano essenzialmente il dilemma di Tito: egli non vuole, ella non vuole. Come il fato di Enea, richiamato da Racine, ordina la partenza, Roma ordina l’esilio di Berenice. Questa icastica espressione di conflitto interiore torna ossessivamente nel romanzo ed è questo il secondo aspetto in cui la trama-cornice si riflette nella trama della vita di Racine: l’ossessione per le parole. L’ossessione di Berenice per i versi di Racine si riflette infatti nell’ossessione del giovane Jean per le parole di Virgilio: la regola imposta dal maestro Lancelot di “disséquer les textes” (p. 33) lo porta (e porta il lettore) a riflettere a lungo alle traduzioni del locus classico Ibant obscuri sola sub nocte per umbram (Aen. VI, 381): come rendere la concisione del latino in francese? Ma sono soprattutto i segni dell’amore bruciante e della sua presagita sofferenza da parte di Didone a tenere sveglio Jean, proprio quella sofferenza che egli richiama quando introduce la sua Bérénice: pallida morte futura (Aen. IV, 644) e caeco carpitur igni (IV, 2). Del primo, Jean ancora non riesce a intravedere una traduzione perfetta che renda ogni aspetto del latino; del secondo, si domanda a quale realtà fisiologica l’ignis rimandi: arriva a chiedere al suo maestro Jean Hamon (1618-1687) a quale temperatura possa arrivare il sangue di una donna (dettaglio sapientemente costruito dalla Azoulai sulla base della scienza medica del tempo). A mio parere i due versi evidenziano con precisione i due livelli di elaborazione della poesia: da una parte la necessità di una lingua introspettiva e selecta, dall’altra l’esplorazione della realtà profonda dei sentimenti da esprimere.
Come ho detto, mi attendevo qualcosa di ben diverso dal romanzo: immaginavo che la scrittrice sarebbe tornata indietro direttamente alla vicenda iniziale, alla separazione fra il neo-imperatore Tito e la principessa Berenice. La scelta diversa, ingannevole della Azoulai non mi ha però deluso e mi ha portato a confermare alcune idee sui meccanismi della ricezione del mondo classico nella cultura ebraica. Tale riflessione vale forse più specificamente per la cultura ebraica di Israele, ma mi pare che si possa anche ampliare lo sguardo sulla cultura ebraica mondiale mantenendo la medesima conclusione. Il senso di marginalità, di minoranza (tanto più forte nella Francia dell’ultimo decennio, che ha visto una fuga massiccia della sua popolazione ebraica) causa, a mio parere, una sorte di spinta centripeta nelle espressioni di ricezione: la ricezione di un mondo tanto ‘altro da sé’ quanto il mondo pagano antico passa preferenzialmente per un punto di contatto ‘a metà strada’, di solito nella cultura europea moderna, vuoi nell’arte o nella letteratura. Tale punto di contatto non è funzionale all’incontro col classico in sé, ma alla creazione di un terreno comune col lettore occidentale: un terreno in cui il classico diventa prima di tutto immaginario culturale, piuttosto che realtà storica determinata. Questo aspetto è tanto più visibile nella cultura ebraica, in cui il rimando alla cultura europea dell’età moderna è un modo di negoziare la posizione nella cultura europea o, meglio ancora, occidentale, di Israele. Rispetto a questa tendenza generale, conosco solo due aree che fanno eccezione, cioè con le quali l’interazione è diretta e non mediata: la filosofia occidentale (in cui il pensiero antico è basilare e fondamentale in senso storico e logico) e la psicoanalisi, un campo di grande produttività per la ricezione del classico (in cui il punto d’origine è immediatamente riconoscibile nella persona di Freud e nei suoi scritti). Ma di questo bisognerà parlare in un’altra occasione.
© Giacomo Loi
Foto di copertina di Johan Persson, Londra 2012. Anne-Marie Duff interpreta Bérénice di Jean Racine