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  • Enea Heavy

    Enea Heavy

    Il titolo è giusto così. Prendendo spunto da un recente volume a cura di K.F.B. Fletcher e O. Umurhan, Classical Antiquity in Heavy Metal Music, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice inglese Bloomsbury Academic, oggi parliamo di musica Heavy Metal. Premetto, doverosamente, che nulla ne conosco, e le informazioni che seguono sono quindi tutte tratte dal volume in questione, qualche volta anche con la difficoltà di ritradurre dall’inglese degli originali spesso italiani.

    Il volume è una miscellanea, che raccoglie nove interventi di autori vari, tutti gravitanti in ambito anglosassone, quando non anglosassoni essi stessi. L’assunto di base è spiegato nell’ampia introduzione (pp. 1-21) firmata dai due curatori. Lo riassumo qui: i due studiosi, nel 2014, erano stati invitati a parlare in un convegno del rapporto fra Heavy Metal e antichità classica. Da lì, l’idea di espandere la relazione in un saggio a più voci, dedicato al medesimo tema. Nell’introduzione, molte parole sono spese (a mio parere inutilmente) per difendere il genere musicale in questione; cercare di conferirgli una patente di nobiltà che nessuno che abbia in mano il libro, immagino, penserebbe di contestare; assalire la prassi dominante fra gli antichisti, per cui i Reception Studies musicali dell’Antichità si occupano quasi esclusivamente di opera lirica (pur riflettendo questa concezione, che risponde al gusto del curatore, osservo che anche questo sito ha dato spesso spazio a manifestazioni musicali non operistiche). A questo fa seguito una rapida storia del genere Heavy Metal, che sintetizzerei così: nascita alla fine degli anni Sessanta (i due autori riconoscono una sorta di primato ai gruppi denominati “Led Zeppelin” e “Black Sabbath”); un salto di qualità a partire dagli anni Ottanta, in connessione all’attività degli “Iron Maiden”, che nell’album Piece of Mind, 1983, avrebbero introdotto una poesia di Tennyson (Charge of the Light Brigade, 1854, divenuta The Trooper) e un brano dedicato al mito di Icaro (Flight of Icarus). A partire da allora, i curatori individuano due tipologie di musica: una, nata all’inizio degli anni Novanta, chiamata Viking Metal, che si rifà nella scelta degli argomenti a miti (o a richiami paesaggistici) del profondo Nord europeo, Scandinavia e Islanda in particolare; l’altra che chiamano Mediterranean Metal, più legata alla tradizione classica, e in particolare all’eredità (anche geografica) dell’impero romano.

    Nel volume un saggio è dedicato a Virgilio; un altro a Cesare, un terzo all’innografia greca, da Omero a Proclo. I restanti articoli si occupano di specifiche figure dell’immaginario antico (Cassandra, Didone e Caligola, non senza un inevitabile tributo ai Gender Studies), di luoghi dell’immaginario classico (l’antico Egitto, con altrettanto inevitabile omaggio ai Colonial Studies), del gusto per l’orrido e l’occulto che accomuna antichità e musica Metal. Qui mi occupo del primo saggio, in cui K.F.B. Fletcher, uno dei curatori, si interessa a tre gruppi Heavy Metal italiani, ispiratisi tutti e tre a Virgilio. Il primo si chiama “Hesperia”, e all’Eneide ha dedicato quattro album, Aeneidos Metalli Apotheosis, usciti rispettivamente nel 2003, nel 2008, nel 2013 e nel 2015; il secondo gruppo si chiama “Stormlord”, autore di un album uscito nel 2013, dal titolo Hesperia (da non confondere con l’omonimo gruppo di prima). Il terzo, infine, è il gruppo denominato “Heimdall”, autore di un album uscito anch’esso nel 2013, e intitolato Aeneid. Di Hesperia (il gruppo) Fletcher non si occupa, giustificando il fatto con quattro argomentazioni: è poco distribuito internazionalmente; si tratta di una “one-man band” (sembrerebbe un ossimoro); i suoi testi sono tutti in italiano; non si esibisce dal vivo. Degli altri due gruppi, va detto che Stormlord mescola italiano, latino e inglese; Heimdall cita l’Eneide nella classica traduzione inglese di Dryden (1697), una scelta decisamente singolare.

    Dedico questo post al gruppo denominato Stormlord, e all’album Hesperia. Il gruppo ha origini lontane (1991). Da allora ha pubblicato sei album, l’ultimo dei quali, Far, è del 2019: il gruppo è ancora in attività, con una formazione che è rimasta sostanzialmente fissa nei quasi trent’anni, ormai, di collaborazione artistica. E’ stato sempre contraddistinto da un certo interesse per il mondo classico. Nell’album del 2001 At the Gates of Utopia il brano iniziale si intitola “Under the Samnites’ Spears”; in quello del 2004, The Gorgon Cult, oltre alla Gorgone che dà titolo all’album figurano citati Ecate, Medusa, i Lemuria, e il brano centrale si intitola “The Oath of the Legion” . Nell’album Mare Nostrum, del 2008 (che precede immediatamente Hesperia), si allude, ovviamente, all’antico Mediterraneo. Nel complesso dei diversi album sono citati, a detta di Fletcher, Dante, Tennyson e Lovecraft. Fletcher si interroga del perché di questi rimandi e ne fornisce tre motivazioni, tutte da verificare: una è il peso che la cultura classica ancora riveste nella cultura italiana (da Dante in poi, nella generica e un po’ frettolosa formulazione del volume); il secondo sono i richiami mitologici tipici del genere musicale in sé, che sono di stampo celtico-vichingo per le formazioni nordiche, ma di stampo classico-romano per le formazioni mediterranee. Infine, Fletcher insiste su un forte nazionalismo reviviscente in Italia, di cui questi gruppi sarebbero la spia, alla pari delle manifestazioni di…Casa Pound. Da parte mia mi limito a riferire, con qualche dubbio. Anche perché Fletcher non si pone la domanda che più volte ci siamo posti in questa sede, ossia come mai proprio la musica, in tutti i suoi generi, Heavy Metal compreso, sia, fra le arti, quella che ha conservato più legami con l’antico. Lo studioso, per accreditare la sua ipotesi, si rifà a due interviste del 2013, con le quali Fabio Calluori (chitarrista degli Heimdall) e Francesco Bucci (basso degli Stormlord) celebrano, rispettivamente, “le origini della nostra cultura latina e romana” e il “nostro passato, di cui siamo orgogliosi” (ritraduco dall’inglese). In ogni caso, Fletcher è disposto a riconoscere, p. 26, che “There is no simplistic whitewashing of the Aeneid or its hero here. Metal’s turn to local topics may be nationalistic in origin, but not all bands approach such material in the same way, or with the same intent”. E possiamo lasciare la questione così.

    L’album Hesperia si compone di otto brani, che coprono, per così dire, la prima metà dell’Eneide (gli Heimdall seguono invece più da vicino il poema virgiliano, con dodici tracce che accompagnano passo per passo il testo di base). Eccone titoli e durata: Aeneas, 6:05; Motherland, 4:37; Bearer of Fate, 6:44; Hesperia, 4:19; Onward to Roma, 6:38; Sic Volvere Parcas, 1:05; My Lost Empire, 5:27; Those Among the Pyre, 9:38. La scelta sottolinea subito due cose: il focus è sul viaggio di Enea e sul suo arrivo finale in Italia, come del resto rivela anche il titolo dell’album; ampia parte dell’album è dedicata a momenti di riflessione sulla missione di Enea, a cominciare dalla sosta cartaginese, nella quale si riflettono allo stesso tempo il maggiore atto di eroismo e il maggiore atto di viltà del protagonista, con tutta l’ambiguità che al poema virgiliano riconosciamo in tempi moderni. Quanto ai testi cantati, essi possono essere (a dispetto dei titoli inglesi) in latino, in italiano (una brutta traduzione dell’Eneide), o in inglese. E’ in latino, ad esempio, il primo brano, Aeneas, in cui il cantante (Cristiano Borchi) recita – a dire il vero, in modo incomprensibile: il dato si ricava dal libretto di accompagnamento – i vv. 1-17, 19-20; 22, ancora 5-7, ripetuti come una sorta di ritornello; e 33 del primo libro virgiliano. Significativo mi sembra che, nel momento in cui il testo è rispettato in sommo grado nella sua facies originale, tanto da non mutarne la lingua, in realtà sia alterato dall’omissione dei vv. 18 e 21; mentre la ripetizione dei vv. 5-7 prima del 33, uniti gli uni e l’altro dalla ricorrenza del verbo condere, sottolineano la moles dell’impresa (Tantae molis erat Romanam condere gentem) e la sua finalità (dum conderet urbem). Mi pare anche notevole che il brano sei, l’unico con titolo non inglese, ripeta quel sic volvere Parcas che è la clausola del v. 22 (già presente nel brano 1, isolato e messo in rilievo dalla omissione dei vv, 21 e 23).

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    Il latino ritorna nel brano numero 5, Onward to Roma. In questo modo, le due metà del disco, simmetricamente, si aprono entrambe su una citazione latina. Nel titolo del brano Fletcher sottolinea la stranezza di usare Roma, non “Rome”, come inglese vorrebbe, e vi riconosce una presa di posizione del gruppo. I versi citati sono quelli di Aen. 6, 781-784, parte della profezia di Anchise che ripromette al figlio, ritrovato nell’Ade, una discendenza felix prole virum. Il seguito della profezia, con il celebre invito a parcere e debellare, è rievocata in inglese.

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    Due cose ancora sottolinerei prima di chiudere. Il racconto non ha andamento cronologico: il brano numero due ha per protagonista Naute, personaggio del quinto libro (vv. 704ss.); My lost Empire, il penultimo brano, è una rievocazione di Troia messa in bocca ad Enea. Hesperia, il brano numero quattro, ripete le parole al primo approssimarsi delle coste italiche, nel terzo libro del poema virgiliano (vv. 521ss.); Those among the pyres, il brano finale, è una rievocazione di tutti i personaggi che hanno dovuto morire perché l’impresa eneadica arrivasse a buon fine.

    Seconda cosa: Fletcher, nel finale della sua analisi, mette in relazione l’album con ulteriori manifestazioni di musica mediterranea (non necessariamente italiana) di matrice nazionalista. Io ricorderei che già un gruppo punk rock degli anni Ottanta, i Litfiba, avevano proposto, nel lontano 1983, una Eneide di Krypton, poi riproposta nel 1990 e nel 2015. Mi chiedo quanto il precedente abbia pesato nel passaggio fra le generazioni. E in ogni caso, lo vedo come un più importante riferimento alla presenza perenne del poema virgiliano.

    © massimo gioseffi, 2020

  • Andromacha (Percontatio impossibilis)

    Andromacha (Percontatio impossibilis)

    PERCONTATRIX: Magno honori mihi est tibi occurrere, Andromacha, Hectoris uxor, mater Astyanactis, Andromacha candidis lacertis.

    ANDROMACHA: Gratias tibi ago, puella. Adhucne nomen meum inter mortales notum est? Et tamen, per circiter triginta saecula hic versor…

    PERCONTATRIX: De te, Andomacha, Homerus, Euripides, Vergilius, et Francogallus Racine ille, et multi alii cecinerunt. Et omnes te maximis virtutibus praeditam fingunt.

    ANDROMACHA: Et tu, nonne me admiraris, puella?

    PERCONTATRIX: Ita, ita, et me tui miseret.  Amisisti enim maritum quem amabas et qui mutuo ardore te amabat, et filium quem ex eo peperisti. Maximas poenas quibus mulieres affici possunt tulisti.

    ANDROMACHA: Gaudeo  quod ad  tantam famam  virtutibus meis  perveni. Tamen talis non sum qualem auctores me finxerunt.

    PERCONTATRIX: Quidnam dicis? Cur?

    ANDROMACHA:  Filia fui regis Thebarum urbis, quae iacet sub monte Placo, et nupsi  filio et heredi  regis Priami, forti Hectori. Iuvenes eramus et pulchri, et mutuo amore ardebamus. Genui filium pulcherrimum, Astyanactem, “pulchrum tamquam stellam”

    PERCONTATRIX:  Nonne beata eras?

    ANDROMACHA: Beatissima fui, sed bellum – bellum illud! – ortum est. In bello viri ante moenia  pugnant et cadunt, feminae domi plorant et timent. Viri vincere volunt, feminae vivere.

    PERCONTATRIX: Memini. Viro tuo suadere conata es ne impetum faceret sed ut praesidium instrueret.

    ANDROMACHA: Ille contra mihi ut domum redirem suadere voluit. Sibi bello providendum dicebat esse. Attamen se ab Achille necatum in singulari certamine moriturum esse sciebat  et, Troia deiecta, me servam in Graecia fore. Num Hector  me amabat?

    PERCONTATRIX: Quam ob causam hoc modo se gessit?

    ANDROMACHA:  Quia vir, vir magni animi, pluris famam et honorem habebat quam vitam, pluris quam uxorem filiumque.

    PERCONTATRIX: Quid fecisti?

    ANDROMACHA: Nihil, puella. Nihil facere potui. Mulier modo eram. Sentiebam, sciebam quid fieret et quid futurum esset. Nam Hector occisus est ab Achille, et Pyrrhus, Achillis filius, Astyanactem meum necavit, et concubina eius facta sum.

    PERCONTATRIX: Quam multa passa es!

    ANDROMACHA: Ita, omnia perdideram, nihil habebam. Mori voluissem, nisi propositum, consilium quoddam concepissem…

    PERCONTATRIX: Quid erat?

    ANDROMACHA: Exspecta! Pergo narrationem meam: mihi filius genitus est a Pyrrho, Molossus, qui mihi solacio fuit. Postea omnia mutata sunt: Pyrrhus (forte fortuna!) interfectus est ab uxore sua, et Peleus senex, cui Molossus unus heres erat, ei regnum tradidit. Ergo, rursus in domo regia vixi, regis mater… Ridiculum est! Molossus est mihi filius et Achillis nepos! Postea Heleno nupsi, cum quo Buthroti vixi, in Epyro, nisi beata, quieta saltem, ut Vergilius dicit.

    PERCONTATRIX: Non dixisti quamobrem in servitute per annos tam luctuosos vivere statuisses.

    ANDROMACHA:  Ob Hectorem. Stupesne? Ob Hectorem. Ille vitam meam delevit et perdidit, ille auctor fuit mortis filii mei. Ille famam et honorem adeptus erat, morte sua inani et horribili. Ego modo femina fui: nihil obtinere poteram nisi famam quae feminam decet. Et tandem me ostendi talem qualem poetae me cecinerunt: uxorem fidelem et inconsolabilem viduam. Nonne ob virtutes meas valde me existimas? Nonne?

    PERCONTATRIX: Recte dicis.

    ANDROMACHA:Triginta secula intercesserunt, puella. tua aetate spero omnes  homines, viri et mulieres, fata sua eligere posse. Nolim mulieres adhuc pareant et serviant maritis. Spero nullam alteram Andomacham fore. Et memento: amo ego Hectorem, et memoriam eius servare volo perpetuam. Attamen amare eum plus quam oculos meos nequeo, qui me viduam pro coniuge fecit  et sibi uni consuluit…

    © Ivana Milani, 2020

  • E le Bucoliche, allora?

    E le Bucoliche, allora?

    Dopo due post dedicati alla pars destruens, mi sembra necessario dedicarne uno alla pars construens. Abbiamo dunque stabilito che le Bucoliche non sono un racconto autobiografico delle vicende di Virgilio; non hanno scopo celebrativo nei confronti di Ottaviano Augusto; non creano il mito dell’Arcadia; non sono opera priva di contenuti realistici, tutt’altro. Che cosa sono, allora? Anche per questo darei almeno quattro risposte…

    La prima, in realtà, l’ho già data in un post precedente, dicendo che le Bucoliche sono un instant book, scritto a ridosso degli avvenimenti che l’hanno provocato (i fatti che vanno dal 42 al 40 a.C. – anche se nel libro è incluso un probabile riferimento al trionfo di Pollione che ci riporta al 39 [anno di conseguimento del trionfo] o al 38 a.C. [anno della sua celebrazione, dopo il ritorno di Pollione a Roma]). Per fare un parallelo, la monografia sallustiana sulla Coniuratio Catilinae è esattamente contemporanea alle Bucoliche (si data fra il 44 e il 40 a.C.), ma racconta avvenimenti del 63 a.C., cioè di circa 20 anni prima. E’ come se oggi tornassimo a raccontare la fine della cosiddetta “Prima repubblica”: certo, per uno della mia età è storia contemporanea; ma per i giovani, non erano neanche nati. Virgilio intuisce invece che il secondo triumvirato e le espropriazioni dei campi, azione simbolo di quella magistratura, costituiranno lo “shock generazionale”, come l’ho chiamato prima, della sua generazione. E a questo shock reagisce con la propria opera, che quegli avvenimenti, con i loro strascichi, ampiamente, duramente commenta.

    C’è un secondo elemento, di carattere più letterario, che rende le Bucoliche virgiliane un’opera di valore storico. Per noi, sono il primo libro di poesia latina (non epica) che ci sia arrivato organizzato così come l’ha voluto l’autore. Dopo il naufragio della poesia arcaica, il libro catulliano non segue un’organizzazione autoriale. I testi vi sono stati riorganizzati dopo la morte di Catullo, e infatti sono disposti per metro e per associazioni interne, ma non seguono una logica unitaria e consequenziale (prova ne sia che uno dei primi, l’11, si presenta come l’addio definitivo a Lesbia, sebbene debba essere ancora descritta ampia parte della storia d’amore vissuta con lei). Le Bucoliche seguono invece un ordine che fu certamente dato loro da Virgilio, come rivela una serie abbondante di riferimenti e di bilanciamenti interni. Del resto, gli antichi le chiamavano anche “egloghe”, e cioè, letteralmente, “testi scelti”: scelti nella loro disposizione, e non perché fossero solo una parte di quelli composti da Virgilio (nessuno dei poeti a lui contemporanei fa infatti riferimento a egloghe virgiliane differenti da queste). Qual è dunque questo ordine? E’ quello che in una delle “puntate” precedenti ho chiamato struttura a perno sull’egloga cinque. Mi spiego: la prima e la nona egloga (equidistanti dalla quinta: in entrambi i casi, ce ne sono in mezzo altre tre) trattano delle espropriazioni dei campi. La seconda e l’ottava (anch’esse equidistanti) contengono canti d’amore infelice; la terza e la settima sono gare di canto amebeo, ossia a botta e risposta; la quarta e la sesta hanno valore cosmologico: la quarta è una profezia che anticipa che cosa succederà del mondo da qui in avanti; la sesta racconta la storia del mondo dall’atto che per gli antichi lo costituì (non la sua creazione, perché la materia è sempre esistita; ma da un caos informe si passò a un insieme di cose ordinate, l’universo così come lo conosciamo) fino ad arrivare alla realtà contemporanea del poeta, a un hic et  nunc che nell’egloga è rappresentato dalla celebrazione di Cornelio Gallo, amico e coetaneo di Virgilio, come massimo poeta della propria generazione. La quinta egloga è costituita da due canti, che si scambiano due amici incontratisi per caso, in quella che non è una gara poetica, ma un semplice gioco di cortesie. I due canti hanno un medesimo argomento, e cioè gli avvenimenti successivi alla morte di Dafni. Questo Dafni era un personaggio di Teocrito, anzi era il protagonista del canto che viene elevato in quello che per noi (e per Virgilio) è il primo idillio della raccolta teocritea, e quindi la composizione simbolo di quella stessa raccolta. In Teocrito si racconta infatti di come Dafni, di origine semidivina (suo padre è Hermes), per avere offeso Afrodite, dea dell’amore, fosse stato fatto innamorare da questa di una ninfa che non lo corrispondeva. Il canto teocriteo è l’estremo lamento di Dafni, che langue d’amore, si sta lasciando morire, e alla fine del canto si presume che muoia. Virgilio nell’egloga scrive il sequel di questa situazione: nel primo canto, la natura partecipa addolorata al lutto per la morte di Dafni; ma nel secondo Dafni, defunto, risorge e assurge in cielo, e la natura (e i pastori) celebrano con gioia l’avvenimento. D’ora in poi, Dafni non sarà magari più su questa terra, ma sarà pur sempre una divinità che assiste il mondo pastorale. Nella decima egloga, protagonista del canto è Cornelio Gallo, abbandonato, come sappiamo (da un post precedente) dall’amata Licoride. Gallo, addolorato per quanto gli è successo, canta la propria disperazione, cerca vani conforti, riconosce che nulla è possibile contro la forza d’amore. Nell’egloga, detto in altri termini, Virgilio sta ripresentando il testo e la situazione narrata da Teocrito, ma la ripresenta in abiti, diciamo così, moderni, mettendo a protagonista non il protagonista di Teocrito, non una figura mitologica al di fuori da ogni idea di tempo, ma la figura di un poeta suo contemporaneo. Allora, egloga quinta ed egloga decima sono come due commenti al testo teocriteo, due modi di attualizzarlo: continuandolo (quinta), rifacendolo ambientato nella contemporaneità (decima). Come si vede, ogni egloga rimanda dunque a un’altra, secondo uno schema simmetrico. Le simmetrie non si esauriscono qui: ad esempio, i canti amebei si compongono, nell’egloga terza, di dodici battute (per due concorrenti: quindi 24 battute in tutto) di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi; nell’egloga settima, l’altra egloga che si compone di una gara di canto, le battute sono invece solo sei (per due concorrenti: dunque, 12 in tutto), ma di 4 versi, per un totale comunque sempre di 48 versi. Nella seconda egloga, il pastore Coridone cerca di invitare a sé il bell’Alessi: un giovanotto si rivolge cioè a un altro giovane; nell’egloga ottava, simmetrica alla seconda, ci sono invece due canti, opera rispettivamente dei pastori Damone e Alfesibeo (che sono i cantori, non i personaggi). Damone canta l’amore di un giovanotto, che rimane senza nome, per la bella Nisa, che però, come sappiamo da un post precedente, sta per sposare e alla fine di fatto sposerà un altro; nel secondo canto, Alfesibeo dà invece voce a una ragazza, che potrebbe chiamarsi Amarillide, ma forse anche no, ma non importa. Questa ragazza, avendo amato Dafni, quando lui se ne è andato in città non l’ha più visto tornare; e ora ha intuito che non tornerà spontaneamente, e perciò ricorre a un rito magico, che dovrebbe riportarlo a sé (il finale non lascia molte speranze che il rito riesca però davvero). Allora, queste vicende d’amore includono prima una relazione m/m (maschio o “male”, all’inglese, che dire si voglia); poi una relazione m/f (male vs female, maschio e femmina); infine una relazione f/m (female vs male, una ragazza che ama un ragazzo). Lo so, in amore ci sono altre possibilità. Ma per un romano di I secolo a.C., farvi riferimento avrebbe trasformato le Bucoliche in un libro pornografico. E le Bucoliche volevano esplorare le possibilità dell’amore, non divenire pornografia.

    Questo ci porta al terzo tema. Un po’ di anni fa, il critico (italianista) Franco Moretti ha coniato per i romanzi moderni, dal Don Quixote all’Ulysses di Joyce, l’espressione “opera mondo”, indicando con questa espressione quei testi che, sotto la superficie del racconto, vogliono esplorare tutte le possibilità del reale. Le Bucoliche sono un’opera mondo. Sui temi da essi delineati (espropriazioni; passioni d’amore; ruolo della poesia; visione cosmologica della Storia), le Bucoliche sviluppano tutti i casi “dabili”, che si possono dare, nella vita umana – almeno, entro i ristretti limiti della morale del tempo. C’è infatti l’espropriato costretto a lasciare le sue terre (Melibeo, egloga prima); quello che conserva le proprie terre (Titiro, sempre egloga prima); quello che rimane sulle sue terre, ma non più da padrone (Menalca, egloga nona). C’è il giovanotto che ama un altro giovanotto (Coridone, egloga seconda), quello che ama una ragazza (il personaggio di Damone, egloga ottava), la ragazza che ama un ragazzo (Amarillide, o comunque si chiami il personaggio cui dà voce Alfesibeo, egloga ottava). C’è la gara che finisce alla pari, senza vincitori né vinti (egloga terza) e quella che finisce con un vincitore e con un vinto (egloga settima). C’è la profezia rivolta al futuro (egloga quarta) e quella che guarda al passato (egloga sesta). Tertium non datur, dice un proverbio latino: in tutti i casi presi in considerazione, non si danno ulteriori possibilità oltre a quelle che ho già enunciato… Nel libro c’è però anche una continua riproposizione delle stesse situazioni: i tre innamorati delle egloghe seconda e ottava, per dirne una, sono tutti innamorati infelici, i cui oggetti di desiderio non ascoltano i loro canti: Alessi infatti non vi è presente; Nisa si sposa comunque con un altro; Dafni non sembra tornare davvero dalla città. Ma innamorato infelice è, nella decima egloga, pure Cornelio Gallo e l’amore, come la politica, si rivela così una forza che si abbatte sui personaggi delle egloghe, e li travolge senza che quelli vi possano opporre qualche resistenza. Ma ancora una cosa: il libro è unitario e punta alla complessità del reale anche nella sua struttura continuativa. Abbiamo già visto come a Titiro, che sembra conservare i suoi beni, si contrapponga Menalca (protagonista di un’egloga “più tarda” per chi legga il libro dall’inizio alla fine), che i suoi beni, invece, credeva di conservarli, ma li ha persi ugualmente. La poesia, dice lì uno dei personaggi, non è una difesa, è come una colomba di fronte a un’aquila. A Cornelio Gallo, celebrato come grande poeta nella sesta egloga (lo riconosce come tale addirittura Apollo in persona, il dio della poesia), fa seguito Cornelio Gallo che, nella decima egloga, è tradito dalla sua amata, viene da lei abbandonato, e per questo soffre come tutti i comuni mortali… Il libro non si limita a constatare e descrivere l’ampiezza del reale: si fa anche metro di giudizio di quel reale. L’uomo può illudersi, sperare, cercare rifugio nella poesia: ma deve sapere che sono illusioni, vane speranze, rifugi temporanei; alla fine, si è sempre travolti, dalle vicende storiche o dalla propria, interna passione amorosa…

    Vengo rapidamente all’ultimo punto, per il quale mi richiamo a quanto ho detto prima dell’egloga quinta e decima in rapporto con Teocrito. Concetto essenziale nella visione romana della poesia è l’idea di aemulatio. Ciò significa che ogni poeta, per essere riconosciuto tale, prende a modello un precedente poeta e lo imita, cerca di dimostrare che gli è superiore, o almeno pari. Nel I secolo a.C., e fino a tutta l’età augustea, l’aemulatio si esercita in riferimento a poeti greci: Catullo omaggia Saffo chiamando Lesbia la propria donna amata (Saffo era nativa di Lesbo); Orazio, più o meno negli stessi anni delle Bucoliche, negli Epodi cerca di imitare Archiloco; nelle successive Odi si rifà ad Alceo. Virgilio sceglie Teocrito. Ma, come abbiamo visto, indica una idea nuova di aemulatio. Teocrito non viene imitato e semplicemente trasferito di peso nella realtà italica. Viene proseguito (il sequel) o riscritto in abiti contemporanei. Questo è l’unico modo legittimo, ci dice Virgilio, di riferirsi a un classico. Nell’Eneide il poeta proseguirà per questa strada continuando, e allo stesso tempo attualizzando, i poemi di Omero, nei cui confronti applica lo stesso schema che nelle Bucoliche aveva applicato con Teocrito. Dopo l’età augustea, l’aemulatio guarderà, per i propri modelli, ai poeti di questa stessa epoca, a cominciare proprio da Virgilio. E i poeti greci serviranno, semmai, per scavalcare i grandi dell’età augustea, e tornare così a delle radici grazie alle quali cercare un proprio posto nel mondo. Ma questa è un’altra storia, e non sarebbe giusto narrarla qui. Qui è giusto concludere dichiarando che per tutte le ragioni elencate, le Bucoliche a me sembrano un libro che non finisce mai di stupire. Ma non sempre le nostre letterature sono in grado di farcelo capire. La cosa migliore, allora, è leggerle, e leggerne quanta più parte possibile. Perché solo una lettura integrale può rendere conto di quella complessità che qui ho cercato di delineare.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

    PS Si ricorda che nella sezione “Testi” di questo sito si può scaricare il commento complessivo alle Bucoliche. L’opera è gratuita; se ne rispettino però i diritti d’autore.

  • Miti bucolici II

    Miti bucolici II

    Il terzo mito che vorrei sfatare è quello dell’Arcadia. Nei post precedenti dedicati a questo tema abbiamo visto che cosa un lettore medio dell’età di Virgilio poteva conoscere dell’Arcadia, e quale fosse lo spazio dell’Arcadia nell’opera di Teocrito. Anche in questo caso possiamo segnalare che le letterature d’uso scolastico trasmettono, dell’Arcadia, una visione che ha pochissimo riscontro nel testo virgiliano. Semplificando, l’Arcadia per loro sarebbe una regione ideale, nella quale si ambientano le egloghe che vogliono proporre una fuga dalla tristezza del presente, come consolazione a una situazione ritenuta abbruttente. Dietro a questa concezione ci sono pagine famose di Bruno Snell che, sul finire dell’ultimo conflitto mondiale, aveva individuato nell’Arcadia un’invenzione a tavolino, che si sarebbe realizzata per l’appunto sul tavolino di Virgilio. Gli studi successivi hanno mostrato quanto questa visione sia riduttiva e fasulla, determinata forse più dalle circostanze storiche in cui scriveva Snell, che dalla realtà dell’opera virgiliana. Partiamo allora dalla constatazione che nessuna egloga è ambientata in Arcadia; e che Arcadi possono essere alle volte i pastori presenti in alcune egloghe, ma mai gli scenari dell’opera virgiliana. Per l’esattezza, l’Arcadia è citata in quattro egloghe solamente. La prima di esse è la quarta dell’intera raccolta, cioè l’egloga del puer. Quello che dice il cantore di quel testo (diciamo pure, per comodità, Virgilio) è che la materia alta e nobile che si trova a cantare – ossia le gesta del puer – gli consentirebbero di vincere perfino il dio del canto pastorale, ossia Pan; e questo verdetto si avrebbe anche se, con termine calcistico, Pan “giocasse in casa”, fra i suoi fedeli più ardenti di zelo, e cioè in Arcadia (la regione dove il dio era nato, dove era particolarmente venerato e che già Teocrito, come abbiamo detto altrove, aveva strettamente connesso a quella divinità). Di Arcadia si torna poi a parlare solamente nell’egloga settima, ambientata sulle rive del Mincio, che vi viene nominato esplicitamente ed è descritto anche con toni di un certo realismo, che ne ricordano le sinuosità, i tratti paludosi, l’abbondanza di canneti. I due cantori che si sfidano in quella gara sono definiti entrambi Arcadi, aggiungendo che questo significa “pari nel cantare”, e “capaci (parati) sia di cantare a botta e risposta “- come di fatto faranno – “sia in un canto lungo e continuo”. Come si vede, qui l’Arcadia si fa garanzia di eccellenza poetica, ma non è terra di consolazione o di fuga dalla realtà. Nell’egloga ottava il primo dei due pastori che si sfidano in quel testo, Damone, canta la serenata che un giovane senza nome (ma da non confondere necessariamente con il cantore Damone) fa alla sua bella, nel giorno in cui questa bella, di nome Nisa, si sta sposando, però con un altro… La serenata è un canto diciamo così “formalizzato”, che ha strutture ben riconoscibili, e un ritornello che le dà ritmo. In questo ritornello si celebrano i “canti del Menalo”: e poiché il Menalo, come sappiamo, è monte dell’Arcadia – ne abbiamo già parlato – l’espressione equivale a dire “canti arcadi”, ossia “canti pastorali”. La connessione fra l’Arcadia e l’attività pastorale (che era, ed è tuttora la principale fonte di reddito di quella regione) è di antica tradizione; come nell’egloga settima, anche qui vediamo che “canto arcade” equivale a dire “canto di alto livello artistico”, e come tale è appropriato alla situazione disperata del cantore, che con la sua serenata, pur senza crederci troppo, ancora vorrebbe convincere Nisa dell’errore che, secondo lui, lei starebbe facendo. Nulla ci dice invece che la scena sia ambientata in Arcadia: anzi, quando viene descritta la cerimonia nuziale riconosciamo momenti tipici delle cerimonia romana; e quando viene descritta la proprietà del personaggio che dice Io, questa proprietà ha di nuovo tratti molto romani. L’Arcadia non è nemmeno terra di fuga o di consolazione: il pastore che la cita nel suo ritornello non intende trasferirsi da quelle parti, e dal suo canto non trae nessuna consolazione (Nisa alla fine sposerà il suo fidanzato, che non è lui; e nel finale lui dice semmai di volersi suicidare…). L’ultima menzione dell’Arcadia ci riporta alla decima egloga. Cornelio Gallo, abbandonato dall’amata Licoride, che ha seguito un altro nelle lontane regioni bagnate dal Reno, pensa che solo i pastori arcadi abbiano l’abilità necessaria per raccontare, un giorno, le sue sofferenze d’amore; e non nasconde che gli sarebbe piaciuto vivere fra loro, perché ben altra sarebbe stata la sua esistenza, se, in Arcadia, si fosse dedicato alla caccia, e con la caccia avesse evitato i mali d’amore (come si sa, dall’Ippolito euripideo, il mondo di Diana e quello di Venere sono tradizionalmente contrapposti fra loro). Qui c’è la sola menzione dell’Arcadia non solo come terra di valenti cantori, ma anche come possibile rifugio di una vita che però, per svolgersi in quella terra, avrebbe dovuto essere totalmente diversa da quella che Gallo è cosciente di avere invece vissuto. L’Arcadia, cioè, nemmeno qui è presentata come un’opzione di fuga o di rifugio: è una vita alternativa, che sarebbe bello fosse stata così, ma che si sa non essere stata così, e non poterlo nemmeno diventare. Non per nulla, tutta la parte che rievoca questa (im)possibile esistenza si sviluppa come congiuntivo desiderativo – con tanto di utinam a rimarcarlo! – ai tempi dell’imperfetto e del piùcheperfetto, ossia ai tempi della irrealtà riconosciuta come tale.

    E vengo al quarto e ultimo mito: è quello dell’assenza di realismo nelle Bucoliche. Tutta una serie di dettagli già evocati in questi due post ci dimostrano che il mondo delle Bucoliche sa essere fortemente realistico. E’ realistica la descrizione di sé che fornisce Titiro, con i vari stadi della sua vita, e con le attività economiche che hanno caratterizzato ciascuno stadio; è realistica la descrizione delle nozze di Nisa o della proprietà del suo innamorato senza speranza. Realistica è anche l’immagine del Mincio evocata nella settima egloga. Si potrebbe continuare: Coridone contrappone la propria inadempienza ai lavori minimi della campagna con una descrizione della campagna che invece ferve di lavori concreti: i mietitori, la servetta che prepara loro la focaccia rustica a mezzogiorno, i buoi che ritornano stanchi alla sera ecc. ecc. Anche la proprietà di Titiro, nella prima egloga, viene descritta con termini molto realistici, che includono il canale di confine e la siepe a separare dalle proprietà vicine, così come usava nella centuriazione della pianura padana. Molto tecnici sono i termini con i quali Melibeo rievoca la sua passata attività agricola, uno per tutti i novalia citati al v. 70 della prima egloga, che sono i campi lasciati a riposo dopo un anno di intensa produzione. Anche in questa direzione gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare. I post dedicati alle piante bucoliche ci hanno rivelato, a loro volta, che la flora descritta da Virgilio è una flora abbastanza realistica (tranne quando, già dallo stesso Virgilio, certe piante, come l’amomo, siano indicate quali esotiche); ed è una flora che individua abbastanza chiaramente la regione padana e la dorsale tirrenica dell’Italia, ossia i territori che, l’uno per nascita, l’altro per scelta di vita (Virgilio visse gran parte della sua esistenza fra Roma e Napoli, come testimonia lui stesso nel finale delle Georgiche), dovevano essere territori e panorami ben noti al poeta.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Miti Bucolici I

    Miti Bucolici I

    Cerco di contribuire alla sospensione delle lezioni offrendo un po’ di materiale di riflessione su autori e temi latini. Dedico questo post a Virgilio e alle Bucoliche, in continuità con una serie di post già disponibili su questo sito (sul tema dell’Arcadia e sul tema delle piante presenti nelle prime sei egloghe), che, messi assieme, possono fornire una certa possibilità di lavoro.

    Il post, che per comodità di consultazione ho diviso in due, lo vorrei dedicare a sfatare quattro miti relativi alle Bucoliche. Parto dal primo, che chiamerò mito biografico. L’immagine delle Bucoliche che traspare da quasi tutte le letterature in uso nelle scuole italiane è quella di una composizione scritta in relazione alle espropriazioni dei campi avvenute dopo la battaglia di Filippi e l’accordo fra i triumviri vincitori, per ricompensare i veterani dell’esercito di Cesare. In questa visione tradizionale Virgilio, che aveva rischiato di perdere i suoi possedimenti, ma li aveva poi conservati grazie all’intercessione di Ottaviano, nella prima egloga darebbe spazio al proprio ringraziamento assumendo la veste di Titiro che, dopo avere rischiato a sua volta di essere allontanato dai propri beni, fu invece salvato dall’intervento provvidenziale (ancorché sollecitato) di uno iuvenis deus abitante a Roma. Questa lettura si scontra con almeno tre particolari. Il primo: tutto ignoriamo circa le proprietà di Virgilio, poiché il materiale antico che fa riferimento alla vicenda che ho appena raccontato non risale oltre l’età di Svetonio, cioè grosso modo duecento anni più tardi del (presunto) svolgersi dei fatti. Quel materiale ha quindi valore romanzesco, o – se vogliamo – può essere considerato al massimo come un tentativo di interpretare il testo virgiliano; ma non ha valore di testimonianza. Un testimone che vive 200 anni dopo i fatti che testimonia è, ovviamente, un testimone inattendibile. Quale fosse l’origine sociale di Virgilio, se avessero o meno lui e la sua famiglia delle proprietà terriere, se quindi il poeta sia stato coinvolto oppure no nelle espropriazioni, non lo possiamo dire. Quello che possiamo dire, secondo elemento di cui tener conto, è che i lettori contemporanei a Virgilio (delle Bucoliche ci parlano a brevissima distanza cronologica dal loro apparire due poeti vicini a Virgilio, e cioè Orazio nella decima satira del primo libro e Properzio nella trentaquattresima elegia del secondo libro) , quei lettori – dicevo – non mostrano nessuna conoscenza di una interpretazione autobiografica delle Bucoliche, e quando parlano di quell’opera la interpretano come una somma di storielle autonome e fantasiose. Terzo elemento: la struttura a perno sulla quinta egloga fa sì che alla prima egloga corrisponda, per analogia di argomento, la nona egloga, che infatti parla anch’essa di espropriazioni e di violenze avvenute in campagna. Il protagonista della nona egloga, Menalca, è un pastore rinomato per la sua abilità di canto, che aveva rischiato di perdere i propri beni, che era riuscito apparentemente a mantenerli in virtù della sua eccellenza poetica, ma che poi alla fine li aveva persi ugualmente. Se proprio vogliamo trovare un riferimento autobiografico nelle Bucoliche, dovremo dire che questa egloga si adatta molto di più a Virgilio della prima: perché nella prima Titiro è sì raffigurato a cantare la bella Amarillide, ma non sembra un cantore di eccellenza riconosciuta, ammessa da tutti, come invece è Menalca e come i poeti a lui contemporanei ci assicurano fosse riconosciuto Virgilio. Se però Virgilio è Menalca, l’egloga nona ci dice che il poeta, dopo avere pensato, o forse sperato, di conservare i propri beni, li avrebbe lo stesso persi anche lui… Io vorrei però prescindere per questa, come per la prima egloga, da ogni lettura autobiografica, per limitarmi a osservare questo: il lettore continuativo delle Bucoliche – quello cioè che non si limita a un unico testo, inevitabilmente distorto – leggeva nella prima egloga che esiste una possibilità di salvezza (dalla violenza delle espropriazioni), possibilità che Titiro ha saputo sfruttare, Melibeo no. Quello stesso lettore, andando avanti nell’opera, leggeva però anche che chi aveva pensato di salvarsi in virtù delle proprie doti o di aiuti particolari, in realtà non si era salvato, ma aveva subito il destino di tutti. Proprio in conseguenza di questo, i personaggi dell’egloga nona possono esprimere una morale generale dal tono piuttosto sconsolato: i canti, la poesia, valgono, come difesa personale, tanto quanto valgono le colombe all’arrivo dell’aquila, e cioè niente. Alla lettura biografica delle egloghe proporrei allora di sostituire una letture che chiamerò “generazionale”, introducendo l’idea che ogni generazione (un concetto storicamente labile, ma che ha una sua efficacia pratica) vive un proprio shock – per la mia generazione, affacciatasi alla comprensione della vita nei primi anni Settanta del Novecento, ad esempio, questo shock fu sicuramente il terrorismo, non a caso continuamente rimosso nel seguito della nostra vita, tanto che ancora oggi, quando viene chiamato in causa per qualche ragione, genera reazioni impreviste e a volte sorprendenti (per i giovani del 2020, spero che lo shock che ne influenzerà i comportamenti anche a distanza di decenni non debba essere il virus che ci sta tenendo tutti a casa). Le Bucoliche, a mio parere, non vanno lette in chiave personale, ma come la risposta di un grande poeta a quello che aveva immediatamente percepito essere lo shock della propria generazione. Ricordo che le Bucoliche costituiscono quello che oggi noi chiameremmo un “instant book”, ossia un libro scritto a brevissima distanza di tempo dagli avvenimenti che descrive, composto a ridosso dei fatti storici che hanno dato loro ragione di essere. Non sappiamo se Virgilio avesse campi o no, se ne sia stato espropriato, o no. Ma certamente lui aveva visto le espropriazioni e le aveva viste arrivare non dalla parte dei nemici (i Pompeiani o i Cesaricidi). Le espropriazioni, con quanto di illegale hanno portato con sé, erano state opera degli eredi di Cesare, erano state opera di chi si pensava amico e continuatore dell’azione cesariana. Inoltre, Virgilio le espropriazioni le ha viste arrivare e abbattersi su persone senza colpa; ha visto che comportavano la perdita di ogni bene e della propria identità sociale (Melibeo è costretto all’esilio; Menalca, un tempo proprietario, rimane sì sui terreni che erano stati suoi, ma nella veste di mezzadro, costretto a pagare la decima a un possessor che nulla ha fatto per lavorare i campi). Virgilio, infine, ha anche imparato che se all’inizio le espropriazioni sembravano un evento gestibile, perché ammettevano diversità di reazioni e di comportamenti, poi si sono rivelate una violenza generalizzata, che ha annullato qualsiasi diversità, contro la quale niente è servito di difesa, e nessuno se ne è potuto salvare. E’ di questo allora che parlano le Bucoliche, e si capisce perché, a distanza di oltre duemila anni, esse siano ancora un’opera ritenuta degna di essere letta (perché ogni generazione, prima o poi, si ritrova in circostanze simili), laddove se si riferissero ai fatti privati di Virgilio poco ci interesserebbero oggi. Partendo da questa ottica, capiamo anche perché Titiro sia descritto nella prima egloga con termini molto realistici e precisi, che però non corrispondono all’immagine che Virgilio aveva al tempo delle Bucoliche: nel 40 (un anno di comodo), Virgilio ha trent’anni e, come attestano i suoi tria nomina, è cittadino romano fin dalla nascita; Titiro invece è vecchio, ha la barba bianca, ha vissuto varie avventure amorose, è stato a lungo schiavo e si è riscattato solo di recente. Capiamo anche perché nell’egloga Melibeo abbia altrettanto spazio di Titito, se non di più, e perché al suo lamento sia dato altrettanto spazio che al ringraziamento di Titiro, se non di più…

    Il secondo mito che possiamo a questo punto sfatare è quello del valore celebrativo delle Bucoliche. Le Bucoliche non celebrano Ottaviano, del resto mai nominato nell’opera; e non celebrano (come pensavano i commentatori del IV secolo) i tresviri agris dividundis che avrebbero concesso a Virgilio/Titito di conservare i propri beni. Questa seconda affermazione si smonta facilmente: se l’egloga prima non si può leggere in chiave autobiografica, non c’è ragione di ringraziamento. Aggiungo che un collega espertissimo di queste cose, Fabio Stok, in un bellissimo articolo ha dimostrato come la carica di tresviri agris divendendis in realtà non sia mai esistita, sia un’invenzione di comodo della scuola tardoantica. Quanto a Ottaviano, mi limito a dire questo: nel libro virgiliano l’unico personaggio politico ricordato più volte, con tanto di “nome e cognome”, è Asinio Pollione, citato nella terza egloga come poeta, come esperto di poesia, come svolgente la funzione di patronus verso altri giovani poeti, e anche verso i due giovani poeti che si scontrano fra loro nell’egloga (nessuno dei quali è necessariamente Virgilio, ma uno dei quali ha nome – guarda caso! – Menalca…). Asinio Pollione è ricordato anche nella quarta egloga, per via del suo consolato del 40 a.C. Sappiamo che i consoli di quegli anni erano stati scelti con largo anticipo, secondo un metodo che anticipa il “manuale Cencelli” di buona memoria (Massimiliano Cencelli è un politico italiano della Prima Repubblica, credo ancora vivente, noto per non avere mai scritto il manuale che gli si attribuisce [e che non esiste come opera letteraria], ma che in realtà era una somma di regole di spartizione delle cariche pubbliche fra partiti e correnti politiche, all’interno dei partiti). In questo meccanismo, un console veniva scelto da Ottaviano, uno da Marco Antonio. I consoli del 40 a.C. furono Asinio Pollione e Gneo Domizio Calvino. Quest’ultimo era un partigiano di Ottaviano; Pollione era uomo di Antonio. Pollione è ancora ricordato, più dubitativamente, nell’egloga ottava, dedicata a un Tu che rimane senza nome, ma di cui si ricorda il trionfo (Pollione, proconsole in Macedonia nel 39 a.C., ottenne in effetti l’onore del trionfo). Accanto a questa figura, nota, evidente, ben definita – e schierata sempre con Antonio! – nel Liber bucolico compaiono altre due figure che invece non hanno nome, ma di cui si ricorda solo la funzione: il puer della quarta egloga e il iuvenis deus della prima. Una buona lettura di quei testi suggerisce di lasciare le due figure nel loro ruolo di funzioni, un puer che deve rinnovare il mondo e un deus che ha salvato – o sembra avere salvato – Titiro. Meglio evitare, cioè, di dare loro un nome. Se però proprio vogliamo invece puntare a una verità storica, dovremo ammettere che l’identificazione più probabile, fra le molte, spesso fantasiose, che sono state proposte per il puer della quarta egloga, vede in quel bambino il frutto (auspicato, ma non ancora prevedibile con certezza) del matrimonio fra Marco Antonio e Ottavia, la sorella di Ottaviano. Il matrimonio si celebrò nel 40 a.C., l’anno del consolato di Pollione, sotto i cui auspici l’evento è quindi messo. Da quelle nozze nascerà un figlio l’anno dopo, ma sarà una bambina, non un bambino: Antonia, la futura madre di Germanico. Allora, anche questo puer senza nome, se gli vogliamo dare un nome, rischia di essere legato più ad Antonio – che ne sarebbe il padre – che a Ottaviano, che ha solo il ruolo di zio materno (lo zio che, come sappiamo – lo ha dimostrato in un suo libro Maurizio Bettini – ha meno peso nella famiglia, in opposizione allo zio paterno). E il deus? Rimane figura senza nome, forse anche perché era conveniente lasciarlo così. Segnalo solo che iuvenis per i Romani è un termine ambiguo: si definisce iuvenis, per tradizione, qui iuvat rem publicam, prendendo le armi e combattendo da adulto. Quindi è un termine che, nel 40 a.C. , si prestava perfettamente al ventitreenne Ottaviano; al trentaseienne Pollione; ma anche, perfino, al quarantatreenne Antonio. Quanto a deus, è il termine con cui, nella lingua comune, si definisce il proprio patronus (Pollione dunque?), ma con cui Titiro rimarca più volte che è lui a voler indicare così il suo protettore, quale che questi sia. Dunque, nessuna delle tre possibili identificazioni ottiene, dal testo, più forza delle altre…

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Racine, Virgilio & co.

    Racine, Virgilio & co.

    Qualche settimana fa ho potuto finalmente mettere le mani sul romanzo Titus n’aimait pas Bérénice di Nathalie Azoulai, libro che molto ha fatto parlare di sé in Francia, dove ha ottenuto il premio Médicis nel 2015, ma non è stato ancora tradotto in italiano. Mentre lo cercavo febbrilmente tra gli scaffali della libreria francese di Tel Aviv, pensavo di impadronirmi di un esempio di ricezione della cultura classica nel mondo ebraico, proprio in corrispondenza del momento di massimo conflitto tra il mondo pagano greco-romano e la cultura ebraica. Non ho trovato ciò che cercavo; il libro mi ha sorpreso in positivo, aprendo tutt’altra strada da quella che avevo immaginato. Ne offro una breve recensione, accompagnata da alcune idee che mi sembrano centrali quanto al modo in cui funziona il meccanismo della tradizione/ricezione, in particolare nella cultura ebraica.

    Il romanzo (390 pp.) si apre in un bar dove un certo Titus decide di lasciare la propria amante: “Titus quitte Bérénice pour ne pas quitter Roma, son épouse légitime […] Titus s’avance vers Roma et dit, reprends-moi, et Roma, qui ne supporte pas qu’il abandonne ainsi le château de leurs années, le reprend”. A prima vista sembra che Berenice, la protagonista, proietti la storia di Tito e Berenice sulla sua vicenda. Persino i nomi non sono credibili: davvero la moglie legittima si chiama Roma? In realtà, la vicenda prende poi un’altra piega: non è tanto la vicenda di Tito e Berenice a costituire una spiegazione e consolazione per la Berenice d’oggi, abbandonata dal suo amante: è invece la costruzione dei personaggi di Jean Racine (1639-1699) e, in definitiva, Jean Racine stesso a costituire, per Berenice, la chiave “pour se remettre du chagrin d’amour”. A fronte delle banalità che le vengono dette per consolarla del suo amore finito, solo una frase risuona chiara al suo orecchio: Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! (Racine, Bér. 234). Nasce l’ossessione di Berenice per Racine, giacché “Elle trouve toujours un vers qui épouse le contour de ses humeurs, la colère, la catatonie… Racine, c’est le supermarché du chagrin d’amour, lance-t-elle pour contrebalancer le sérieux que ses citations provoquent quand elle les jette dans la conversation”. Comincia a leggere tutte le tragedie di Racine, a cercarne i fili tesi della lingua, una lingua “unique”. Trae le sue conclusioni: “si elle pourra comprendre comment ce bourgeois de province a pu écrire des vers aussi poignants sur l’amour des femmes, alors elle comprendra pourquoi Titus l’a quittée”. Anche se la storia della nostra Berenice ricomparirà più avanti nel libro, la rotta della narrazione cambia del tutto: Berenice va a visitare le rovine dell’abbazia di Port-Royal, dove Racine venne educato. Comincia qui per il lettore un viaggio a fianco di Racine, a partire dagli anni della scuola.

    Il romanzo segue le vicende dell’autore francese fino alla morte e anzi oltre, fino alla distruzione dell’abbazia di Port-Royal (1713). In questa biografia ‘sentimentale’ di Racine si intravedono tre grandi sezioni: I) l’educazione; II) la competizione a teatro, cioè l’inizio della sua carriera di poeta ai tempi di Molière e Corneille; III) i giorni della corte. Nathalie Azoulai riesce a trasformare in narrazione il ‘dietro le quinte’ dell’opera di Racine, in maniera assai convincente: se il materiale non mancava per la vita di corte e i suoi intrighi, i giorni della scuola a Port-Royal erano certamente più difficili da drammatizzare. La scrittrice ci riesce, proponendo uno sguardo allo specchio: ciò che lei cerca di fare con Racine è esattamente ciò che Racine ha fatto nelle sue opere, cioè trasformare un conflitto, storico o mitologico, in un dramma, in un’azione scenica. La Azoulai non cade nella facile illusione di intessere una storia legata ad ognuna delle dodici tragedie di Racine, ma punta tutto sull’humus da cui nascono le tragedie: le letture di giovinezza del poeta, che ‘creano’ il suo modo di vedere il mondo. Da dove infatti poteva venire a un ragazzino rimasto orfano in tenera età la capacità di analizzare in profondo i sentimenti e riproporli in scena? La risposta della Azoulai è indubbiamente dall’educazione di Racine, che si può ben definire una education séntimentale; senza contare che, come richiede ogni dramma, ogni periodo della sua vita, compreso questo, è innervato da un conflitto. Il risultato è una lode non banale del potere della letteratura sull’animo umano, sulla durata di tale potere (nella vita di una persona, ma a ben guardare anche nella vita di una nazione o persino della cultura mondiale) e sulla capacità della letteratura di farsi chiave di interpretazione del reale.

    Quali sono dunque i testi su cui Racine si forma? E quale il conflitto? Naturalmente ci sono le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, Plutarco, Tacito, Quintiliano, l’Odissea, Seneca, i tragici greci. Questi testi vengono inseriti nella vicenda come parte di un reale programma di studio del tempo. Dove nasce il conflitto? Questi testi sono la chiave linguistica per Racine per aprire scrigni più reconditi o, anzi, perfino chiusi a Port-Royal, cioè il libro IV dell’Eneide e le Etiopiche di Eliodoro di Emesa. Due sono le strade, a mio parere, che hanno portato la Azoulai a integrare questi testi nel romanzo come attori fondamentali dell’educazione sentimentale del drammaturgo: da una parte, per Virgilio, la préface alla Bérénice dello stesso Racine; dall’altra, per Eliodoro, un aneddoto noto dalla Histoire de l’Académie Française di Valincour.

    Racine infatti, dovendosi giustificare nella préface all’edizione a stampa della tragedia (quasi un novello Terenzio) per la scelta di un tema apparentemente poco tragico come la separazione di Tito e della principessa giudaica Berenice, sceglie la vicenda di Enea e Didone come paradigma massimo delle passioni causate dall’abbandono: “Cette action [la vicenda di Tito e Berenice] est très fameuse dans l’histoire, et je l’ai trouvée très propre pour le théâtre, par la violence des passions qu’elle y pouvait exciter. En effet, nous n’avons rien de plus touchant dans tous les poètes, que la séparation d’Enée et de Didon, dans Virgile. Et qui doute que ce qui a pu fournir assez de matière pour tout un chant d’un poème héroïque, où l’action dure plusieurs jours, ne puisse suffire pour le sujet d’une tragédie, dont la durée ne doit être que de quelques heures ? Il est vrai que je n’ai point poussé Bérénice jusqu’à se tuer comme Didon, parce que Bérénice n’ayant pas ici avec Titus les derniers engagements que Didon avait avec Enée, elle n’est pas obligée comme elle de renoncer à la vie” [il corsivo è mio]. Nonostante le sue dichiarazioni, per scatenare ulteriormente i flutti tempestosi delle passioni, Racine introduce nella vicenda il tentato suicidio di Berenice (Bér. 1227-1240).

    Eliodoro, a sua volta, fornisce il tocco romantico – proibito – dell’incontro tra i due giovani, Teagene e Cariclea, nel terzo libro, di cui Jean legge alcuni passi (nella traduzione di Pierre Grimal del 1958 nel testo della Azoulai: anacronismo dettato dall’impossibilità di somministrare ai lettori la traduzione cinquecentesca di Jacques Amyot [1548] senza spezzare l’inganno letterario – Racine lesse il testo direttamente in greco). Valincour, nella sua Histoire de l’Académie Française, di cui Racine fece parte, riporta l’aneddoto del ritrovamento del libro proibito ben due volte tra gli oggetti personali di Racine, aneddoto che viene drammatizzato anche dalla Azoulai: che cosa avrà voluto dire per Jean il bruciare delle gote di fronte alla vergogna di essere scoperto in flagrante e di fronte al rogo del libro sequestratogli? Certamente rimane segnato dall’idea continua di conflitto, a partire proprio dal conflitto tra i testi da imitare e il pericolo che essi pongono agli occhi degli insegnanti. Come può un testo classico, frutto di un’epoca canonizzata dalla scuola, costituire un pericolo?

    Il conflitto tocca ogni momento della vita di Jean e anima ogni scenario creato dalla Azoulai con vero tocco drammatizzante. Sottolineo ‘drammatizzante’ perché raccontare la trama del romanzo risulta piuttosto difficile: esso non si basa su una grave situazione di conflitto che genera lo sviluppo degli eventi, ma su tre conflitti ‘minori’, sui quali la Azoulai punta il riflettore di volta in volta, mentre segue la vita di Racine: il conflitto ai tempi della scuola tra l’insegnamento rigido impartitogli e la libertà di leggere testi proibiti e fare domande scomode quanto brucianti; la competizione iniziale con Corneille e Molière a corte; la tensione tra la assoluta, quasi erotica, fedeltà a un re cattolico e la sua educazione giansenista di gioventù.

    Questi conflitti ‘tenui’, interiori ma vessanti, sono a mio avviso proprio ciò che più significativamente connette il romanzo alla scrittura della Bérénice. Infatti, tornando alla préface della tragedia, si nota come la competizione tra i drammaturghi del tempo, ben messa in scena dalla Azoulai, richiedeva un’ardente difesa in risposta alle accuse che venivano mosse a Racine. La scelta è una scelta di imitazione della semplicità degli antichi, da Sofocle a Orazio: “Il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action qui a été si fort du goût des anciens. Car c’est un des premiers préceptes qu’ils nous ont laissés : “Que ce que vous ferez, dit Horace, soit toujours simple et ne soit qu’un”. Ils ont admiré l’Ajax de Sophocle, qui n’est autre chose qu’Ajax qui se tue de regret, à cause de la fureur où il était tombé après le refus qu’on lui avait fait des armes d’Achille. […] Il y en a qui pensent que cette simplicité est une marque de peu d’invention. […] Car pour le libelle que l’on fait contre moi, je crois que les lecteurs me dispenseront volontiers d’y répondre”.

    L’imitazione dei grandi testi antichi spinge il drammaturgo a tentare una strada di non sicuro successo, in cui dovrà spendere ogni forza per rendere drammatico e apparente il conflitto delle volontà. Non a caso alla préface egli prepone – epigrafe o esegesi? – la concisissima descrizione di Svetonio: Titus, reginam Berenicen, cum etiam nuptias pollicitus ferebatur, statim ab urbe dimisit invitus invitam. Le parole invitus invitam catturano essenzialmente il dilemma di Tito: egli non vuole, ella non vuole. Come il fato di Enea, richiamato da Racine, ordina la partenza, Roma ordina l’esilio di Berenice. Questa icastica espressione di conflitto interiore torna ossessivamente nel romanzo ed è questo il secondo aspetto in cui la trama-cornice si riflette nella trama della vita di Racine: l’ossessione per le parole. L’ossessione di Berenice per i versi di Racine si riflette infatti nell’ossessione del giovane Jean per le parole di Virgilio: la regola imposta dal maestro Lancelot di “disséquer les textes” (p. 33) lo porta (e porta il lettore) a riflettere a lungo alle traduzioni del locus classico Ibant obscuri sola sub nocte per umbram (Aen. VI, 381): come rendere la concisione del latino in francese? Ma sono soprattutto i segni dell’amore bruciante e della sua presagita sofferenza da parte di Didone a tenere sveglio Jean, proprio quella sofferenza che egli richiama quando introduce la sua Bérénice: pallida morte futura (Aen. IV, 644) e caeco carpitur igni (IV, 2). Del primo, Jean ancora non riesce a intravedere una traduzione perfetta che renda ogni aspetto del latino; del secondo, si domanda a quale realtà fisiologica l’ignis rimandi: arriva a chiedere al suo maestro Jean Hamon (1618-1687) a quale temperatura possa arrivare il sangue di una donna (dettaglio sapientemente costruito dalla Azoulai sulla base della scienza medica del tempo). A mio parere i due versi evidenziano con precisione i due livelli di elaborazione della poesia: da una parte la necessità di una lingua introspettiva e selecta, dall’altra l’esplorazione della realtà profonda dei sentimenti da esprimere.

    Come ho detto, mi attendevo qualcosa di ben diverso dal romanzo: immaginavo che la scrittrice sarebbe tornata indietro direttamente alla vicenda iniziale, alla separazione fra il neo-imperatore Tito e la principessa Berenice. La scelta diversa, ingannevole della Azoulai non mi ha però deluso e mi ha portato a confermare alcune idee sui meccanismi della ricezione del mondo classico nella cultura ebraica. Tale riflessione vale forse più specificamente per la cultura ebraica di Israele, ma mi pare che si possa anche ampliare lo sguardo sulla cultura ebraica mondiale mantenendo la medesima conclusione. Il senso di marginalità, di minoranza (tanto più forte nella Francia dell’ultimo decennio, che ha visto una fuga massiccia della sua popolazione ebraica) causa, a mio parere, una sorte di spinta centripeta nelle espressioni di ricezione: la ricezione di un mondo tanto ‘altro da sé’ quanto il mondo pagano antico passa preferenzialmente per un punto di contatto ‘a metà strada’, di solito nella cultura europea moderna, vuoi nell’arte o nella letteratura. Tale punto di contatto non è funzionale all’incontro col classico in sé, ma alla creazione di un terreno comune col lettore occidentale: un terreno in cui il classico diventa prima di tutto immaginario culturale, piuttosto che realtà storica determinata. Questo aspetto è tanto più visibile nella cultura ebraica, in cui il rimando alla cultura europea dell’età moderna è un modo di negoziare la posizione nella cultura europea o, meglio ancora, occidentale, di Israele. Rispetto a questa tendenza generale, conosco solo due aree che fanno eccezione, cioè con le quali l’interazione è diretta e non mediata: la filosofia occidentale (in cui il pensiero antico è basilare e fondamentale in senso storico e logico) e la psicoanalisi, un campo di grande produttività per la ricezione del classico (in cui il punto d’origine è immediatamente riconoscibile nella persona di Freud e nei suoi scritti). Ma di questo bisognerà parlare in un’altra occasione.

    © Giacomo Loi

    Foto di copertina di Johan Persson, Londra 2012. Anne-Marie Duff interpreta Bérénice di Jean Racine

  • Le piante delle Bucoliche – VI

    Le piante delle Bucoliche – VI

    Man mano ci addentriamo nel Liber virgiliano, troviamo situazioni e piante già incontrate in egloghe precedenti. La sesta egloga è speculare alla quarta: una profezia che dall’hic et nunc del poeta (il consolato di Pollione) volge lo sguardo verso un futuro umanamente lontano, in una; una narrazione che dal formarsi del mondo dal Caos indiscriminato arriva fino alla stretta contemporaneità del poeta, nell’altra. La sesta egloga racconta, sotto forma di mito (come la quarta sotto forma di profezia), la Storia del mondo, dalle origini all’oggi di Virgilio, simboleggiato dalla proclamazione a poeta dell’amico Cornelio Gallo. Nelle trasformazioni che hanno dato origine al mondo non mancano le piante: viene da quel contesto la frase Incipiant silvae cum primum surgere (v. 39), adottata, come sappiamo, quale titolo del libro di Gigliola Maggiulli, che ci fa costantemente da guida.

    L’egloga ha struttura complessa. I primi sei versi servono di introduzione programmatica; al mondo agreste riporta l’immagine di Thalia, la musa della commedia e, per estensione, della poesia bucolica, che non erubuit silvas habitare. Dal v. 6 al v. 12 c’è una dedica, a un Varo tradizionalmente identificato nel giurista cremonese Alfeno Varo. In questa sezione due, e di tradizione, sono i richiami al mondo vegetale. Il flauto del poeta è indicato con l’immagine usuale della canna, tenuis harundo, v. 8; la poesia virgiliana è sintetizzata nel richiamo alle myricae, v. 10, e al nemus, v. 11, in modo del tutto simmetrico a quanto visto nell’egloga quarta alla quale, dunque, rimando (nemus è, come sappiamo, interscambiabile con silvae, il termine attestato nell’altra egloga).

    Dal v. 13 al v. 30 si estende la cornice propriamente detta. In essa si racconta di come due pastori (pueri, v. 14), con l’aiuto della ninfa Egle abbiano costretto il ritroso Sileno a donare loro un canto da tempo promesso, sorprendendolo al mattino, ancora sotto l’effetto delle abbondanti libagioni della sera precedente (Sileno era stato tutore di Bacco, e da questo suo ruolo conserva un’evidente passione per il succo dell’uva). La scena si ambienta in aperta campagna, nei pressi dell’immancabile grotta (v. 13). Pochi, però, gli elementi vegetali: sul capo di Sileno pende, secondo una consuetudine greca, una corona di fiori, che si era soliti porre in testa in occasione del convivio (v. 16). I fiori della corona servono ai due pastori per ricavarne dei legacci, vincula, parola e situazione più volte insistite (vv. 19 e 23). Si tratta, ovviamente, di legami molto fragili, quasi scherzosi, più di parvenza che reali. Ma Sileno d’altronde, una volta svegliatosi e capita la situazione, non sembra contrario a offrire il suo canto. Il volto del semidio al risveglio è rosso, perché così l’ha dipinto Egle, v. 22, utilizzando come colorante il succo delle more selvatiche, il rubus ulmifolius. La ragione del gesto nel complesso ci sfugge; ma certo Sileno, così dipinto, assomiglia più che mai a una statua oracolare.

    (more di bosco in fase di maturazione)

    L’ultimo riferimento botanico di questa prima parte si riferisce all’effetto del canto di Sileno, che fa sentire la sua azione su creature e animali selvatici (Fauni et ferae, v. 27), ma anche sulle piante. Le rigidae quercus ondeggiano muovendo ampiamente la loro chioma, come per assenso alle parole del semidio (v. 28).

    (quercus virgiliana [roverella], riconosciuto come
    albero monumentale, nel comune di Maglie, Lecce
    )

    Anche il finale dell’egloga presenta elementi di cornice (vv. 82-86). Del canto di Sileno si dice infatti che è un canto famoso, che era stato composto da Apollo – il dio della poesia – che se ne avvalse mentre viveva sulle rive dell’Eurota (il fiume di Sparta e della Laconia tutta, sulle cui sponde il dio corteggiò inutilmente Dafne e amò tragicamente Giacinto). L’Eurota si era fatto interprete e memoria di quel canto, lo aveva insegnato alle piante di alloro che sorgono numerose lungo il suo corso, e da quelle piante, presumibilmente, lo deve avere appreso Sileno. Il legame alloro/Apollo è comunque tradizionale, così come quello alloro/poesia, visto che di corone di alloro si incoronavano i vincitori delle gare pitiche, che prevedevano competizioni per musicisti e poeti.

    (il fiume Eurota)

    Veniamo al canto vero e proprio. Sileno rievoca la formazione del mondo, con linguaggio fortemente epicureo. Le piante sono, come s’è detto, un elemento di questo processo, ma non particolarmente insistito (vv. 31-40). In seguito, Sileno traccia una storia dell’umanità dalla conquista del fuoco al diluvio universale (l’ordine, nell’egloga, è inverso), al mito degli Argonauti e della nave Argo, la prima a solcare i mari. Dal v. 45 in poi, Sileno si concentra sulla figura di Pasifaë, la mitica moglie del re Minosse di Creta, che, per una vendetta di Afrodite, si innamorò di un bianco torello con il quale, alla fine, concepì il Minotauro. Virgilio si interessa soprattutto alla parte dolorosa della storia, quella dominata dall’impossibilità pratica di un’unione fra una donna e un toro, e dal dolore che ne consegue nell’animo di lei, dominato da una passione forzatamente insoddisfatta. La vicenda si presta a introdurre diversi elementi vegetali: mentre Pasifaë vaga incessantemente sui monti, alla ricerca di un amato che sempre le sfugge (perché liberamente al pascolo; e perché, ovviamente, non capisce le attenzioni della donna), il torello, tranquillamente sdraiato sull’erba (molli fultus hyacintho, v. 53), rumina l’erba rendendola pallida con i succhi gastrici (pallentes ruminat herbas, v. 54), all’ombra di un leccio (ilice sub nigra), o, se proprio ne ha voglia, presta le sue attenzioni alle altre mucche della mandria. Il giacinto naturalmente non può sorreggere un toro, né costituisce il componente primario di un campo. Ma un campo ricco di giacinti selvatici (da non ricercare necessariamente in montagna) è un campo fiorito, florido, invitante, nel quale è bello pascolare e fermarsi a ruminare. Quanto al leccio, è una new entry nell’immaginario bucolico virgiliano. Noto anche come elce, appartiene al genere delle querce (quercus ilex è il suo nome scientifico), ed è, come quelle, pianta spontanea nei nostri climi, anche se diffusa soprattutto lungo la costiera tirrenica, di longevità secolare ed ampie dimensioni (può arrivare ai 20 m di altezza e ai 4/5 di diametro) e fitto fogliame scuro (nigra). Una ilex sovrastava, stante la testimonianza di Orazio, il fons Bandusiae probabilmente situato nel suo possedimento in Sabina (carm. 3, 13).

    (leccio solitario)
    (foglie e ghiande di leccio)

    Messa da parte una fuggevole allusione ad Atalanta e alle mele d’oro delle Esperidi (che non sono piante reali), v. 61, un altro mito ad alto tasso botanico, diciamo così, è quello delle sorelle di Fetonte che, dopo il recupero e il seppellimento del cadavere del fratello (fulminato da Giove per i disastri procurati guidando con imperizia il carro del Sole), addoloratesi oltre misura, furono trasformate in ontani. Il narratore esterno dice che, vv. 62-63, con il suo canto (o forse meglio, ‘nel suo canto’, all’interno dei temi trattati), Sileno le musco circumdat amarae corticis, e poi le solo proceras erigit alnos, “le circonda con l’amara corteccia di muschio” (non è il muschio ad avere corteccia, naturalmente, ma l’alnus; il muschio si estende sulla corteccia delle piante) e “le fa sorgere dal suolo trasformate in alti ontani”. L’ontano, alnus glutinosa, è una pianta arborea alta 10 e più metri, che vegeta un po’ in tutta Italia dal livello del mare fino ai 1000/1200 m di altitudine, con una certa preferenza per la regione delle Prealpi e dei laghi prealpini. L’ontano ama infatti i terreni umidi, acquitrinosi, quando non addirittura paludosi, e i corsi d’acqua: il che si adatta perfettamente al mito di Fetonte, secondo tradizione caduto nelle acque del fiume Eridano (sia questo, o no, l’attuale Po). La corteccia dell’ontano ha proprietà curative, e viene perciò utilizzata in decotti di odore gradevole, ma sapore amaro (amarae corticis).

    (alnus glutinosa)

    Quanto al muschio, si tratta di pianta pioniera, ossia tra le prime a insediarsi per colonizzare un ambiente, che ama anch’essa l’umidità ed è capace di trattenere una grande quantità d’acqua per lunghi periodi, per poi rilasciarla lentamente nell’ambiente circostante. Una pianta di muschio è formata da piccoli fusti e da foglie microscopiche, prive di tessuti vascolari e di vere radici. La funzione di ancoraggio al terreno è infatti svolta da strutture filamentose sotterranee, i rizoidi, attraverso i quali la pianta si espande a coprire la massima superficie possibile.

    (muschio su corteccia di conifera)

    La scena centrale dell’egloga è però costituita dall’investitura poetica di Cornelio Gallo, vv. 64-73. Essa si svolge lungo le rive del Permesso, il fiume che scende dall’Elicona, già luogo sacro alle Muse nella poesia esiodea. Proprio Esiodo è esplicitamente nominato come predecessore di Gallo. A celebrare la grandezza di questi, arrivano Apollo e tutto il corteo delle Muse. La cerimonia vera e propria viene compiuta tuttavia da Lino, mitico cantore e figlio di Apollo, già evocato nella quarta egloga. Lino ha sul capo una corona trionfale, fatta di generici fiori e di apio amaro, v. 68. L’apium graveolens, il banale sedano della nostra cucina (secondo altri, il prezzemolo), è pianta usata per incoronare i vincitori dei giochi Nemei, che al loro interno prevedevano anche gare di canto. I giochi erano stati istituiti, secondo la tradizione, per una circostanza luttuosa, e Lino, a sua volta, era considerato il fondatore del genere elegiaco, praticato da Gallo, ma che in origine era utilizzato soprattutto per le lamentazioni funebri. Ciò spiegherebbe l’aggettivo amarum, che mal si addice al sedano in sé (o al prezzemolo).

    (sedano coltivato)

    Nel corso dell’investitura, Lino consegna a Gallo una zampogna, indicata con l’immagine tradizionale dei calami, v. 69. Dello strumento si dice che con esso Esiodo fosse stato capace di smuovere le piante, come un novello Orfeo. L’immagine è espressa con la scena delle rigidae orni che, al suono della zampogna, abbandonano i monti e seguono il cantore (v. 71). L’ornus, o più esattamente fraxinus ornus, in italiano detto anche orniello o frassino della manna, è pianta di media altezza (in genere non supera i 10 m), diffusa un po’ in tutta Italia, ma specialmente nelle regioni alpine e prealpine del Nord, fino a un’altitudine di 1200/1500 m, e in quelle appenniniche, fino a un’altitudine massima di ca. 1000 m. E’ pianta robusta, capace di ripopolare terreni desertici, che si usa anche come ornamento dei giardini in virtù della sua ampiezza e della bella fioritura tardo primaverile, oltre che, alle volte, per il suo legname. Ha radici tenaci e robuste, che impediscono al terreno di franare, ma forma slanciata, che non impedisce alla restante vegetazione di crescere alla sua base. Il fogliame è leggero e viene mosso con facilità dal vento: caratteristiche che, nel loro complesso, possono spiegare sia l’habitat montano assegnatogli da Virgilio, sia l’idea di una complessiva rigidità, eccezionalmente però scossa, come sono scosse dal vento le chiome dell’ornus.

    (filare di fraxinus ornus in Ungheria)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – V

    Le piante delle Bucoliche – V

    L’egloga quinta presenta l’incontro di due pastori che, in amicizia e rispetto reciproco, decidono di celebrare con il loro canto un terzo personaggio, Dafni, che uno dei due riconosce addirittura come proprio maestro, e l’altro come figura comunque degna di lode, una sorta di nume tutelare di ogni comunità pastorale. Dafni era il protagonista del primo idillio teocriteo, nel quale veniva cantata la sua sofferenza d’amore, che lo aveva portato a morte. I due canti virgiliani proseguono l’opera di Teocrito: nel primo, il giovane Mopso rievoca il dolore degli uomini e della natura dopo la morte di Dafni; nel secondo, il più anziano Menalca celebra la rinascita e l’assunzione in cielo di Dafni, con la conseguente gioia della natura e della comunità pastorale. L’incontro fra i due pastori avviene per caso, ma il canto si svolge in un ambiente a noi ben noto, fatto di olmi mescolati a noccioli (v. 3 hic corylis mixtas inter consedimus ulmos), dove sono garantiti l’ombra e la frescura e non manca neppure una comoda grotta, la cui entrata è cosparsa di labrusca, v. 7. E’ questa la vite selvatica (vitis silvestris), della quale infatti sono messi in risalto i grappoli, rari, perché manca l’opera dell’uomo ad aiutarli nella crescita.

    (vitis silvestris nei boschi)
    (infiorescenza di vite silvestre)

    Nel corso dell’egloga distinguerei, come al solito, fra canto e cornice. Nella cornice non ritornano molti elementi agresti, se non sotto forma di immagine. Mopso promette un canto che, dice, vv. 13-14, avrebbe inciso nella corteccia di un faggio, pianta che sappiamo ricorrente nel paesaggio virgiliano e che, con la grotta, delinea quanto meno una serie di ondulazioni collinari. Menalca esalta la grandezza dell’amico, prima che questi dia inizio al suo canto, attraverso il paragone con un altro cantore, assente dalla scena, di nome Aminta, e osserva che Mopso eccelle sul rivale tanto quanto l’olivo predomina sul salice flessuoso, o la rosa sulla saliunca. Nel primo caso si tratta probabilmente di una superiorità qualitativa, che vede nell’olivo (qui ricordato come pallens. v. 16, in virtù del colorito del fogliame) la pianta totemica della civiltà mediterranea.

    (pianta d’ulivo da giardino)

    Il cromatismo viene messo in evidenza anche per la rosa (anzi, un intero roseto, v. 17), rossa, punicea, cui è contrapposta la saliunca, identificata di norma con la valeriana saliunca, una pianta erbacea, di basso fusto, dall’infiorescenza rada e poco significativa, che nasce spontanea in ambienti aridi e sassosi, specie di montagna.

    (valeriana saliunca)

    Altre metafore sono più generiche. Una volta terminato il canto di Mopso, Menalca lo proclama piacevole come dormire, stanchi, nell’erba di un campo (in gramine, v. 46). Mopso ricambia il favore, con un’analoga serie di immagini (vv. 82-84), nessuna delle quali tocca però l’ambito vegetale. Questo ritorna, solo superficialmente, nel riferimento allo strumento musicale adoperato da Menalca, un flauto, denominato, v. 85, come “canna”, cicuta; e nella descrizione del bastone pastorale con il quale Mopso contraccambia l’amico, vv. 88-90, lavorato e reso elegante dalla disposizione simmetrica dei nodi.

    Diverso è il caso dei canti. Mopso ricorda una natura addolorata, fatta di animali che non vanno più al pascolo, di ninfe in lutto (cui i noccioli, coryli, sono chiamati a fare da testimonio, v. 21), di montagne incontaminate e boschi intonsi che piangono anch’essi l’evento crudele, v. 28. Dafni è celebrato come un protos heuretes, un inventore/civilizzatore. E’ l’allievo di Pan, v. 59, che ha introdotto fra gli uomini il culto di Bacco, le feste a quel dio tradizionalmente associate, e il tirso, il tipico bastone delle Baccanti.

    (Baccante con un tirso, bassorilievo moderno)

    L’eccellenza di Dafni nel mondo pastorale è segnalata da una serie di immagini di maniera, vv. 32-34. Dafni era di ornamento alla comunità dei pastori, come le viti lo sono alle piante che le sostengono, i grappoli d’uva matura alle viti stesse, le spighe al campo coltivato. Anche il dolore per la sua scomparsa è espresso da una metafora agricola. Ai campi sono stati affidati, con la semina, grandia hordea, v. 36, ‘ricchi chicchi di orzo’, e invece ora, al loro posto, sorgono erbacce infestanti, v. 37, infelix lolium e steriles avenae. La semina è sempre un atto di fiducia, qui mal riposta. Hordeum in realtà è un termine generico, che nella classificazione moderna indica una trentina circa di specie, tutte graminacee. E’ difficile dire a quale si riferisse esattamente Virgilio. Certo si tratta di chicchi selezionati e ben scelti, sui quali era riposta la massima fiducia, che, senza l’evento luttuoso e imprevisto descritto nel canto, non sarebbe stata mal risposta. Quanto alle steriles avenae, non vanno identificate con l’avena coltivata, ma semmai con l’avena barbata, una pianta erbacea alta 30-80 cm, che cresce negli incolti e ai margini delle vie, con spighe setolose, dai chicchi piccoli e poco fruttiferi, quindi, ai fini della commestibilità. Allo stesso modo, il lolium sarà, con ogni probabilità, il lolium temulentum, ossia la zizzania, una graminacea infestante, con fiori a spiga rossa, che tende a mescolarsi e a confondersi con il grano – ma i cui chicchi hanno carattere intossicante.

    (avena barbata)
    (campo di steriles avenae)
    (lolium temulentum)

    Allo stesso modo, anche nel settore dei giardini e dei fiori da giardino, alla viola (mollis, ‘cedevole’, ovvero di basso fusto) e al narciso (purpureus, ‘rosseggiante’), che già conosciamo dalle altre egloghe, per effetto della morte di Dafni si sostituiranno ora il carduus e il paliurus dalle spine acute (vv. 38-39). Nel primo caso, c’è incertezza fra i commentatori virgiliani, che hanno identificato il carduus ora nella centaurea solstitialis (il cosiddetto “fiordaliso giallo”, un’asteracea spinosa, di carattere erbaceo, raramente superiore ai 5 dm, di carattere spontaneo e, anzi, spesso invasiva), ora nel cirsium arvense, il cardo dei campi italiano, che è sempre un’asteracea, più alta della precedente, con fiori compresi tra il rosa e il viola, anch’essa di carattere infestante. Il paliurus è invece comunemente identificato nella marruca, la pianta dalle cui spine, secondo tradizione, fu fatta la corona di Cristo. Si tratta di un arbusto, diffuso in tutta la macchia mediterranea, specie in ambiente collinare, che può essere alto anche qualche metro, con foglie difese da piccole, ma spiacevoli spine. Oggi relativamente poco diffuso nelle nostre campagne, un tempo era molto usato per le siepi di confine, sia per la presenza delle spine, sia perché pianta mellifera.

    (centaurea solstitialis)
    (cirsium arvense)
    (paliurus spina Christi)
    (dettaglio dei rami di paliurus)

    Più generiche sono le immagini del secondo canto, quello di Menalca. Una parte di esse risponde simmetricamente a quanto già detto da Mopso. Ritroviamo perciò silvae e rura che gioiscono per la rinascita e la nuova condizione divina di Dafni (v. 58); gli intonsi montes che lanciano grida di gioia per quell’avvenimento (vv. 62-63); generici arbusta che proclamano la divinità del personaggio (v. 64). Nelle feste pastorali per il nuovo dio, sono presenti crateri d’olio tra le offerte sacrificali (v. 68), e vino pregiato, di Chio, per le libagioni dei pastori (v. 71). Queste avverranno in casa durante l’inverno, all’ombra di un pergolato durante l’estate, indicata con la facile metonimia della presenza delle messi (v. 70). Ai vv. 76-78 ritroviamo un costrutto ormai noto e visto già più volte. Gli onori e le cerimonie per Dafni rimarranno in vigore fintantoché la natura seguirà il suo corso – la Natura, come sappiamo, è sempre il campo usato per indicare il ripetersi garantito e incontrovertibile di determinati fenomeni (rimando per questo a un precedente post di questo stesso sito, https://sites.unimi.it/latinoamilano/immagini-di-natura/ ). Qui l’idea è espressa con una serie di immagini che stanno fra l’agreste e lo zoologico: il cinghiale è animale da montagna, il pesce vive nell’acqua, le api si nutrono di preferenza di timo – che, come sappiamo dalla seconda egloga, è pianta profumata, e quindi particolarmente attraente per gli insetti e utile dunque come pianta mellifera – e le cicale di rugiada. Le cicale naturalmente non si nutrono di rugiada, ma di succhi vegetali e della linfa degli alberi. Quella usata da Virgilio è però un’immagine callimachea (fr. 1, 32-34 Pfeiffer), dietro alla quale sta la tradizione, già platonica (Fedro, 262D), della cicala come antico essere umano dimentico di provvedere al proprio cibo per amore verso le Muse.

    (ape che sugge un fiore di timo – ingrandimento fotografico)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – IV

    Le piante delle Bucoliche – IV

    La quarta egloga si apre con l’immagine vegetale più nota dell’intero libro: ai generici arbusta, già incontrati più volte, e alle altrettanto generiche silvae, vengono contrapposte le humiles myricae. L’aggettivo, già utilizzato nella seconda egloga per le capanne che poco si elevano dal suolo, è ben noto; la pianta indicata, lo è di meno. Di norma, myricae viene tradotto con ‘tamerici’, un genere di piante di cui esistono una sessantina di specie, molto diffuse in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto nelle zone litoranee e prossime al mare. Possono assumere forma di arbusto o di albero, sono sempreverdi o a foglie caduche, nelle specie arboree raggiungono un’altezza di 15 m. L’esemplare più comune in Italia è la tamarix gallica, cespugliosa, ma che può comunque raggiungere i 5-6 m di altezza; anch’essa cresce di preferenza lungo le coste e i greti dei torrenti, in terreni sciolti, spesso sabbiosi. Molto comune allo stato selvaggio, serve però anche come pianta ornamentale dei giardini – con i nomi di tamerice, tamerisco, cipressina, scopa marina – e per il rimboschimento di luoghi sabbiosi, come barriera frangivento e per il consolidamento delle dune, perché è capace di sopportare la salsedine e vegeta senza difficoltà in terreni salini, fino a un’altitudine di 800 m ca. La natura legnosa del suo tronco e il fenomeno di lacrimazione che la caratterizza trovano conferma in quanto Virgilio dice delle myricae nelle egloghe ottava, v. 54, e decima, v. 13.

    (tamarix gallica, coltivata ad albero)
    (cespuglio naturale di tamarix gallica)

    Ma una pianta del genere si adatta solo in parte all’immagine iniziale dell’egloga, che prevede una netta contrapposizione fra la verticalizzazione delle silvae e  l’orizzontalità delle myricae, e le cose non cambiano nemmeno supponendo che Virgilio avesse in mente la forma cespugliosa di alcune specie. Per questo, nelle myricae del passo si è proposto di identificare qualche pianta a basso fusto, come potrebbe essere l’erica campestre, o comunque qualche altro elemento della stessa famiglia. Se infatti associamo più comunemente l’erica alle brughiere della Scozia o dello Yorkshire (si pensi alla sua ricorrenza in Wuthering Heigths, 1847), le oltre seicento specie in cui il genere si suddivide hanno habitat e conformazioni abbastanza variegati, e molte di loro, come l’erica arborea e l’erica scoparia, sono diffusissime sui nostri litorali, specie quelli tirrenici.

    (erica di campo)
    (erica di campo)

    Quanto all’egloga propriamente detta, essa, com’è noto, racconta la trasformazione del mondo a partire dalla nascita di un puer che resta innominato. Al fenomeno viene assegnata una precisa data, l’anno 40 a.C., l’anno del consolato di Asinio Pollione. La crescita del puer è seguita dal poeta per uno spazio di almeno trent’anni, quelli necessari a portarlo alla piena maturità. Nulla ci viene detto circa l’identità del bambino; ma l’indicazione cronologica, il riferimento iniziale ai carmina della Sibilla, la paideia che per lui viene ipotizzata ambientano certamente l’egloga in Italia, pur senza consentire ulteriori precisazioni. Il meccanismo messo in atto da Virgilio è fortemente innovativo: nella tradizione antica il progresso dell’umanità viene raffigurato di norma come un’inarrestabile decadenza e allontanamento da un’età eroica, e aurea, che sta alle spalle della nostra contemporaneità, e non davanti ad essa. Virgilio inverte l’ordine: l’età dell’oro delle origini sta per ripetersi, a breve giro di termine. Negli anni necessari al suo compimento, rimarranno certo alcune tracce della vita di ogni giorno, e quindi anche alcune attività lavorative, a travagliare la generazione di passaggio cui il poeta sente di appartenere. Fra queste attività non mancano quelle agricole, riassunte nell’incisiva formula del telluri infindere sulcos del v. 33. Anche il successivo venir meno di queste sopravvivenze è indicato con una serie di immagini agresti (vv. 40-45): la terra fertile (humus) non sarà più soggetta agli strumenti agricoli (non rastros patietur); la vite non dovrà più essere potata, azione che abbiamo già visto citata sia nella seconda che nella terza egloga; non servirà più arare i campi; né tingere la lana, perché gli animali al pascolo assumeranno spontaneamente i colori desiderati. A quest’ultima azione provvederanno coloranti naturali, come il murex (= la porpora), ed erbe particolari, come il lutum e la sandyx. Il primo termine individua la Reseda luteola, pianta pigmentosa, di color giallognolo, un’erbacea spontanea diffusa in tutta Europa, alta ca. 1 m, con fusto sottile e liscio, e fiori piccoli e variopinti. Il suo utilizzo come colorante giallastro (il lutum è propriamente la terra fangosa; Virgilio qui lo dice croceus, ‘color zafferano’) è ben noto fin dall’antichità.

    (reseda luteola)

    Qualche problema maggiore pone invece la sandyx. Plinio ne parla infatti come di un colorante di origine minerale, non vegetale, e pensa a un errore di Virgilio. Gli interpreti antichi del passo la definiscono invece un’erba, in parallelo al lutum; per questo si è pensato alla Rubia tinctorum, o robbia, dalla quale si ricava il cosiddetto ‘rosso di garanza’, un pigmento molto usato in pittura, che si ottiene dalle radici della pianta essiccate, frantumate e bollite in acido. 

    (rubia tinctorum)

    Messo da parte il facile uso metonimico di nautica pinus per indicare una nave al v. 38 (i pini fornivano, effettivamente, un pregiato legname da costruzione), le altre immagini botaniche dell’egloga si concentrano intorno alla serie di doni e di fenomeni naturalistici che dovrebbero accompagnare la nascita e la crescita del puer. Una parte di essi è del tutto generica: al v. 23 si ricorda che la culla stessa del puer offrirà blandos flores, ‘fiori profumati’, ma indeterminati. Al v. 24 si dice che, per effetto della nascita, verranno meno le erbe velenose, ma anche qui senza specificare nessun esempio. Altri fenomeni sono più precisi: intorno alla culla la terra produrrà, spontaneamente e senza bisogno di intervento umano, edera, baccare, colocasia e acanto (vv. 18-20). Delle quattro piante citate già conosciamo l’edera e l’acanto. Il baccar compare qui per la prima volta, ma sarà citato anche nell’egloga settima, v. 27, come pianta apotropaica contro i sortilegi. Già Plinio era incerto circa la sua identificazione; oggi si tende a farlo coincidere con l’Helicrysum italicum, un fiore della famiglia degli astri, dal tipico colore giallo lucente (così scrive anche Gigliola Maggiulli, che però usa poi la denominazione di Helicrysum sanguineum, una margheritacea che è fra i simboli odierni di Israele). L’elicrisio fiorisce in tutto l’arco mediterraneo, specie in terreni vicini al mare, rocciosi e poco fertili. In alcune specie è coltivato anche nei giardini, come pianta a fioritura estiva, le cui corolle, essiccate, servono per corone di lunga durata (ideali, quindi, come dono da mettere intorno alla culla).

    (elicriso in fiore)

    Nessuna incertezza circonda invece la colocasia, che già Plinio identificava con il kyamon, l’odierna Nelumbo nucifera, una ninfea diffusa in Egitto, comunemente nota come ‘fiore del loto’. Poiché anche l’acanto, cui si accosta, è, come sappiamo dalla terza egloga, pianta esotica, l’effetto virgiliano sta nell’unire nell’elenco piante comuni (edera e baccare), utili per farne corone, con piante ricercate, a impreziosire il dono. E’ possibile che, più che al fiore, Virgilio pensasse alle foglie della Nelumbo, che sono grandi fino a 60 cm, di colore verde brillante, fuoriuscenti dall’acqua per un metro e anche più. In questo modo, sarebbe ulteriormente giustificato l’accostamento con l’edera e l’acanto, piante non particolarmente pregiate per la loro fioritura.

    (colocasia o fior di loto)
    (foglie e fiori di loto)

    Nascita e crescita del puer saranno accompagnate da una serie di adynata. Ovunque, ad esempio, fiorirà il prezioso amomo, v. 25, al momento diffuso solo nei territori orientali (in Assiria, dice Virgilio: come sappiamo dalla terza egloga, sarebbe più esatto dire in India). Al v. 28 si promette che tutta la campagna (campus) comincerà a biondeggiare (flavescet, un incoativo di forte effetto) di messi, indicate con l’espressione sineddotica mollis arista. Le aristae, o ‘reste’, sarebbero propriamente i filamenti rigidi con cui terminano le spighe delle graminacee, e quindi stanno qui per l’intera spiga, e la spiga per il grano: ciò che vuol dire il poeta è che il frumento sarà reperibile ovunque, senza bisogno di coltivarlo.

    (spighe con reste)

    Subito dopo, Virgilio ricorda che l’uva rosseggerà da sola perfino sui cespugli spinosi, degli inculti sentes non meglio definiti. L’ultima immagine è però quella che più ci interessa. Le querce trasuderanno direttamente miele (roscida mella, ‘miele rugiadoso’) dalle loro dure cortecce. Le querce sono effettivamente piante spesso utilizzate dalle api come sostegno per i favi: sono ampie, resistenti, presentano al loro interno cavità ottime per la costruzione del favo. Ma Virgilio qui non vuole presentare un’immagine usuale e quotidiana, seppure amplificata nella sua misura, trasformando in fenomeno comune quello che, al momento, sarebbe solo un caso particolare. Quello che il poeta vuole piuttosto dire è che il passaggio attraverso le api, la loro nidificazione, la loro produzione del miele diverranno a breve, come nel caso del lavoro umano, completamente inutili, perché il prodotto finale, il miele, verrà realizzato spontaneamente, senza bisogno di nessuna lavorazione. E’ questa la prima intuizione della società delle api come immagine da utilizzare in parallelo all’immagine della società umana, secondo un procedimento che troverà maggiore sviluppo nel quarto libro delle Georgiche. Nella foto posta qui sotto, che conserva alcuni elementi di copyright, ma è offerta libera da diritti in internet, si vede, a ingrandirla bene, una grande quantità di api che coprono – quale che ne sia la ragione – il tronco di una quercia. Il prodigio dell’apparire improvviso di sciami su piante, siano o no delle querce, ricorre più volte nell’immaginario antico, e torna anche nell’Eneide, VII 64-67, fra i prodigi che annunciano l’arrivo di Enea e dei Troiani al re Latino.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – II

    Le piante delle Bucoliche – II

    La seconda egloga ripresenta, naturalmente, alcuni elementi già incontrati nella prima. Come Titiro, anche Coridone canta all’ombra dei faggi. Non una singola pianta, in questo caso, ma un intero faggeto (inter densas fagos), attraverso il quale si conferma l’ambientazione montana dell’egloga (montibus et silvis studio iactabat inani). Questa ritorna anche in seguito, quando Coridone ricorda fra i possibili doni per Alessi i due capreoli trovati nec tuta valle, vv. 40-42 . Più difficile da interpretare il riferimento del v. 21 alle mille agnae che pascolano Siculis in montibus. Il richiamo alla Sicilia, da un lato, sembra un elemento di precisa identificazione topica, un dato che nella prima egloga mancava del tutto; d’altra parte, Coridone qui sta presentando una realtà che non trova conferma nel resto dell’egloga (l’inizio ci ha detto che non è un ricco pastore, proprietario di greggi: cfr. il precedente post “Mitomania e mitomani II”), dunque qualche dubbio è legittimo anche circa la precisazione geografica fornita: quelle greggi inesistenti si possono anzi tanto più amplificare, quanto più sono lontane, fuori dalla vista e dal controllo di chiunque. In ogni caso, il boschetto di umbrosa cacumina svolge la stessa funzione compiuta dal singolo faggio nella prima egloga, offrendo il riparo, all’ombra del quale è possibile il canto.

    Durante il proprio lamento Coridone offre di sé un’immagine differente: sta vagando sotto il sole cocente, alla ricerca di Alessi. E’ il tempo della mietitura; è l’ora del desinare. Gli arbusta, cespugli non ben definiti, proteggono le cicale che friniscono, v. 13; gli spineta, cespugli spinosi non meglio determinati anch’essi, fanno da riparo alle lucertole, v. 9. Una contadina prepara la focaccia che servirà di pranzo (nell’illustrazione dell’edizione Giuntina, Venetiis 1515, che serve da copertina, la porta invece in un canestro sul capo). Fra gli ingredienti si riconoscono l’aglio (alium cepa) e il timo (thymus serpillum), usati come condimento, e qualificati come herbae olentes, v. 11.

    (fioritura di timo selvatico)

    Nel complesso, le immagini vegetali dell’egloga si concentrano in tre blocchi. Il primo dipende da una certa sentenziosità di stampo elegiaco di cui Coridone si compiace spesso, fatta di similitudini e di comportamenti ripetuti, che è perciò il mondo della natura a fornire con una certa abbondanza. Da qui deriva ad esempio un costrutto come quello dei vv. 63-65, in cui Coridone ricorda l’inevitabile caccia che la leonessa compie nei confronti del lupo, il lupo della capretta e la capretta del citiso. Cosa questo sia, o meglio che cosa possa essere, l’abbiamo già discusso nel commento alla prima egloga. Nel passo in esame si conferma il suo carattere di pianta adatta al pascolo. Già in precedenza, v. 18, Coridone aveva però espresso attraverso un’immagine botanica un paragone fra Alessi e Menalca (un precedente suo amore, come sembrerebbe di capire). Alessi è più bello, perché candidus (il colorito nobile, da cittadino non costretto ai lavori agresti); Menalca era invece scuro di pelle, abbronzato, abituato alla vita all’aperto. Non si insuperbisca però Alessi per la superiorità: alba ligustra  cadunt,  vaccinia nigra leguntur, “i bianchi ligustri cadono al suolo – si intende: senza nessuno che li raccolga – i neri vaccini vengono raccolti”. Non è il colore a fare la vera differenza, ma l’utilità delle piante o, nel caso dei ragazzi, la loro disponibilità verso l’amante. In questo parallelo, il ligustro non pone problemi: il ligustrum vulgare è pianta cespugliosa (che può arrivare fino a 3 m di altezza), molto diffusa in tutto il bacino mediterraneo, in genere sempreverde e con dei fiori biancastri, poco appariscenti, a grappolo, che appaiono fra tarda primavera e principio dell’estate. Il ligustro oggi è abbastanza diffuso come pianta da giardino, ma non certo per la vistosità della sua infiorescenza, che nel complesso di una siepe tende a scomparire.

    (siepe di ligustro)
    (siepe di ligustro in fiore)

    Più difficile è identificare con certezza i vaccinia. Il termine ritorna al v. 50, in un contesto floreale (vd. infra), che ha fatto pensare all’identificazione della pianta con il giacinto, una bulbosa dal fiore primaverile, molto profumato e bello, che si coltiva tuttora a scopo ornamentale, anche dentro casa, e che fiorisce in quasi tutti i colori possibili e immaginabili, ma in natura vede prevalere le tinte scure.

    (giacinti ornamentali)
    (giacinto selvatico)

    Un’altra interpretazione vede invece nei vaccinia, citati anche nella decima egloga come nigra, i mirtilli. In questo caso, il parallelo con i ligustri, fiori candidi che producono bacche infruttuose, giocherebbe non tanto e non solo sull’opposizione di colori, ma anche sulla distinzione fra pianta fruttifera (il mirtillo) e pianta infruttifera (il ligustro, le cui bacche non sono commestibili). L’identificazione resta però incerta, ed entrambe le soluzioni proposte hanno i loro difensori.

    (mirtillo in fiore)
    (mirtillo)

    Il secondo ambito di riferimento delle immagini vegetali all’interno dell’egloga si riferisce a una quotidianità di lavori, rispetto alla quale Coridone si contrappone, o che si lamenta di avere interrotto per amore di Alessi. Già abbiamo visto la netta distinzione che si delinea, all’inizio, fra lui, che all’ombra canta senza speranza la propria passione, e i mietitori, che si riposano anch’essi, sì, ma dopo la fatica di una mattinata di lavoro. Anche in seguito, Coridone ricorda una serie di operazioni lasciate interrotte, o che potrebbe/dovrebbe riprendere, con maggior costrutto rispetto a un inutile lamento amoroso. Compare qui la vite semiputata (v. 70), “potata solo in parte” – la potatura della vite è prassi essenziale per la crescita e la produttività della pianta, ed è azione che si dovrebbe compiere a inizio primavera; se Coridone ancora non l’ha terminata alla stagione delle messi, è segno di grave incuria. La vite, in quel contesto, è descritta come in ulmo, secondo l’uso di farla crescere come rampicante intorno a un olmo. Vite e olmo legati fra loro (“maritati”, in termine tecnico) sono un’immagine ricorrente, anche nella tradizione poetica moderna, per una coppia particolarmente affiatata. La foto che propongo viene dalla valle del Chianti, in Toscana, dove si trovano ancora alcuni filari di questo tipo (non sono sicuro, però, che la pianta “marito” sia un olmo: del resto, in epoca moderna si sono usati anche l’acero campestre, il salice e l’ulivo). Oggi questa tecnica, che consentiva di risparmiare le spese d’impianto del filare e proteggeva la vite da eventuali colpi di calore, è pochissimo praticata. La produzione viticola è infatti molto più bassa di quella che si produce con il vigneto specializzato, a filari, mentre nella mentalità agricola ora domina la specializzazione produttiva, a scapito dell’autosufficienza delle singole proprietà; e la specializzazione favorisce, ovviamente, il vigneto a filare.

    Fra le altre azioni che Coridone si lamenta di avere fatto, e non avrebbe dovuto farle, o di non avere fatto a tempo debito, c’è quella di avere lasciato sfogare il vento (vv. 58-59: Austro, il vento tempestoso) sui fiori, non proteggendoli a sufficienza. I fiori da proteggere dal freddo ritorneranno anche nella settima egloga, v. 6. Dal quarto libro delle Georgiche intuiamo che non si tratta di una coltivazione a scopo estetico: il giardino di fiori profumati serve a stimolare le api alla produzione del miele, ed è un elemento indispensabile della villa romana. Ancora, come cura dall’amore infruttuoso per Alessi, Coridone si propone di tessere qualche oggetto con i giunchi di vimine, vv. 71-72: per esempio, immaginiamo, gerle o canestri, da utilizzare nella raccolta della frutta (così propone lo stesso Virgilio nel primo libro delle Georgiche, come attività da compiere nei momenti di riposo dai lavori dei campi), oppure da vendere al mercato. Coridone descrive poi un mondo di lavori intorno a sé, che abbiamo visto già fare capolino nell’immagine iniziale dei mietitori, ma che ritorna nel sottofinale attraverso l’idea dei buoi che tornano dai campi alla fine della giornata, portando, ormai è sera, l’aratro suspensum, ‘sollevato dal suolo’ (v. 66). In questo modo, Virgilio ci suggerisce la durata dell’egloga, visto che il canto di Coridone era iniziato a mezzogiorno, e ora il giorno sta finendo. Da ultimo: Coridone invita Alessi a condividere con lui la vita in campagna. Assieme potrebbero suonare sul flauto di Pan, indicato con facile sineddoche come cicuta, “la canna”, dal materiale che lo costituiva e che già abbiamo visto abbondare lungo le rive del Mincio (vv. 36-39). Coridone propone anche di humiles habitare casas insieme (‘abitare le basse capanne, che non si alzano dal suolo’, v. 29. Nella prima egloga Melibeo aveva descritto la sua abitazione come un tugurium); di cacciare assieme i cervi; di viridi compellere gregem hibisco, vv. 29-30. E’ questa l’immagine su cui concentrare l’attenzione. L’ibisco (normalmente identificato con l’althaea officinalis più che con il nostro ibisco domestico, hibiscus syriacus, importato in Europa solo in epoca moderna), appartiene al genere delle Malvaceae. E’ pianta molto diffusa in tutta Europa, ma specie in quella mediterranea; ama il sole, però vuole le radici all’ombra e all’umido, per cui cresce spesso lungo i fossi, i canali, gli argini, attorno alle case di campagna. Di tendenza invasiva, è tollerata dagli agricoltori perché foglie e radici sono utilizzate in erboristeria, come emollienti e calmanti, quindi come antidolorifici naturali. I fiori, piccoli ma colorati (a colori tenui: spesso bianchi o rosa, talvolta lilla o rossi), numerosissimi da luglio a ottobre, ne fanno anche una pianta ornamentale, da giardino. I fusti, di altezza a volte superiori al metro, ne consentono la coltivazione sia a cespuglio che ad alberello. Nel testo virgiliano, hibisco può essere sia dativo che ablativo. Nel primo caso, sarà un dativo di direzione: Coridone invita Alessi a spingere (compellere) il gregge verso l’ibisco, non perché le caprette si nutrano in modo particolare di questa pianta (peraltro, da esperienza diretta, le capre distruggono qualsiasi siepe appena commestibile; dei fiori dell’ibisco che abbiamo in giardino è molto ghiotta la tartaruga domestica), ma per indicare campi ricchi di flora, di cui l’ibisco si farebbe così simbolo. Con uguale procedimento, un campo primaverile è indicato, nella sesta egloga, v. 53, come ricco di giacinti, ossia fertile di vegetali. Se intendiamo hibisco come ablativo, dovremo invece pensare a un bastone ricavato dal fusto della pianta, il che è abbastanza realistico pensando al nostro ibisco, un po’ meno all’althea selvatica.

    (althea officinalis)
    (piante di althea officinalis)
    (ibisco siriaco ad alberello)

    Infine, ecco l’ultimo ambito botanico al quale fa riferimento Coridone. Nel presentare una serie di doni che dovrebbero allettare Alessi e invitarlo a trasferirsi in campagna, Coridone immagina come presenti alla scena (ma il suo è ormai una sorta di delirio onirico) delle Ninfe che portano canestri di fiori e di frutta, vv. 45-55. Nell’elenco c’è un po’ di tutto: fiori e frutti che si producono in stagioni diversi; colori e profumi che si mescolano fra loro. Proprio l’aspetto cromatico e quello olfattivo sembrano anzi avere guidato la scelta del cantore, perché sono caratteristiche costanti di pressoché tutte le piante citate, anche quando Virgilio sottolinei solo una di esse. Nell’ordine infatti troviamo: pallentes violae, le violette bianche di primavera, la viola alba da sottobosco; summa papavera, probabilmente i papaveri da campo, papaver rhoeas, non quelli da oppio, di cui abbiamo parlato in un altro post; il narciso, narcissum poeticum, bulbosa colorata anch’essa primaverile, presente sia in natura sia, di maggiori dimensioni, nei giardini coltivati; l’aneto profumato, anethum graveolens, erba aromatica dalla gialla infiorescenza estiva; la casia, fiore di incerta identificazione, comunemente interpretata come la lavandula stoechas; i mollia vaccinia di cui abbiamo già parlato; la calendola (calendula officinalis), per quanto riguarda i fiori; pesche (malum dalla tenera lanugo, preferibili alle mele cotogne spesso indicate al loro posto nei commenti), castagne, prugne, alloro e mirto fra le piante. Degli uni come delle altre fornisco una rapida rassegna fotografica. Inizio dai fiori.

    (viola alba)
    (papaver rhoeas)
    (narcisi da campo)
    (aneto in fiore)
    (lavandula)
    (calendula officinalis)

    Ed ecco ora i frutti. Tralascio le castagne, già presenti nella prima egloga, ma anche le pesche e le prugne, che immagino a tutti ben note, ricordando solo che il pesco (prunus persica) è pianta di origine orientale, diffusa nel Mediterraneo a partire dall’epoca alessandrina; il pruno, prunus domestica, nell’età di Virgilio era ancora una pianta ricercata ed esotica, importata di recente dall’Asia, e non nativa dell’habitat mediterraneo (dove pure aveva facilmente attecchito). Dell’alloro e del mirto ricordo il carattere profumato di entrambi; e il loro essere consacrati rispettivamente ad Apollo e a Venere, due divinità che attraverso le piante di riferimento vengono così, in qualche misura, evocate all’interno del canto, a suggellare, nel finale della scena, il suo carattere di canzone amorosa.

    (filare di laurus nobilis, l’alloro)
    (myrtus communis)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – I

    Le piante delle Bucoliche – I

    Inizio oggi un’ambiziosa serie di post, che vorrebbe passare in rassegna la flora presente in ognuna delle dieci egloghe virgiliane. Anni fa avevo progettato, con un’amica fotografa, un libretto che illustrasse le egloghe pianta per pianta. Non se ne fece nulla. Adesso, grazie a internet, il compito è più facile. Strumento indispensabile di lavoro sono le foto disponibili in rete e, per la parte scientifica, il volume di Gigliola Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere (un verso della sesta egloga). E’ un libro utilissimo, in cui tutte le piante citate da Virgilio – non solo nelle Bucoliche – sono passate in rassegna una per una, per essere schedate, analizzate, discusse. Purtroppo, il fallimento della casa editrice che lo aveva prodotto e la data relativamente ‘antica’ del volume (Roma 1995) hanno impedito una sua adeguata diffusione e la messa in internet, che sarebbe stata cosa utilissima. In parte, cerco perciò di rimediare qui.

    Partiamo dalla prima egloga e dalle piante che vi sono nominate.

    Titiro suona sdraiato all’ombra di un faggio (v. 1). I faggi tornano nella seconda, nella quinta e nella nona egloga. Il faggio di Titiro è una pianta patula, ampia, che ‘si apre bene’, e che offre ristoro e protezione (sub tegmine). Il pastore, supino (recubans), suona il flauto, presumibilmente appoggiato alla grande corteccia dell’albero. Quello che a volte sfugge in questa immagine è che la fagus sylvatica, il faggio odierno, è pianta da habitat collinare e montano, piuttosto diffusa in tutto il paesaggio alpino e appenninico d’Italia, trovando il suo optimum abitativo intorno ai 900-1000 m di altitudine, anche se si conoscono casi eccezionali di faggeti (uno in Toscana, l’altro sull’appennino emiliano) che scendono fino a 150 m ca. sul mare. Insomma, il faggio non è una pianta di pianura: anni fa, la Banca Agricola Mantovana, oggi defunta, realizzò una strenna natalizia dedicata alle piante di Virgilio, e la foto del faggio andò a recuperarla lungo la valle del Chiese, nella zona del lago d’Idro, che credo sia una delle sedi abituali di seconde case dei Mantovani. Perché allora Virgilio dedica tanto spazio al faggio? La prima risposta possibile, è allontanare l’ambiente dell’egloga (e di tutte le egloghe) da ogni possibile interferenza con un paesaggio biografico. L’egloga racconta la storia di Titiro, non quella di Virgilio: e come Titiro è vecchio (e Virgilio nemmeno trentenne) o ex-schiavo (e Virgilio nacque libero, come attestano i tria nomina), così l’ambiente abitativo di Titiro non coincide, da subito, con quello di Virgilio (l’ager Mantuanus). Nella stessa ottica, il faggio si concilia invece con i monti, dalle cui pendici scendono le ombre della sera, nel finale dell’egloga (v. 83). Altra risposta possibile, è invece ricordare che i faggi sono ignoti a Teocrito, ma in greco fēgos è il nome della quercia (quercus robur), pianta ricorrente nelle Bucoliche, ma soprattutto pianta che gli antichi esegeti connettevano al verbo fagein, nutrire. La fagus virgiliana, come la fēgos greca, cioè, sarebbero piante arcaiche, primitive, connesse a un’idea di nutrimento naturale e spontaneo, da raccoglitori di frutti, che non conoscono agricoltura e fatica.

    (faggeto montano)

    Anche il nocciòlo (corylus) e la quercia (quercus) citati ai vv. 14 e 17 da Melibeo concorrono a un’immagine boschiva e da collina, se non proprio da montagna, almeno, ovviamente, nel loro habitat naturale. Nell’egloga il nocciòlo vede avvenire, sotto di sé, l’abbandono da parte della madre dei due piccoli capretti appena nati: in questo modo, una pianta che serve tradizionalmente alla nutrizione alimentare è testimone dello sfacelo, anche economico, portato dalle espropriazioni (spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit). La quercia, colpita dal fulmine, aveva pronosticato un simile scompiglio: la quercia è pianta solida, rigida, spesso utilizzata nelle similitudini per indicare un opporsi tetragono al destino. Ruolo che qui, simbolicamente, le viene invece meno.

    (quercia fulminata)

    Titiro, nella sua risposta, paragona Roma e la città conosciuta fino a quel momento da lui e da Melibeo, quella al cui mercato essi erano soliti recarsi, rispettivamente a un cipresso e a un cespuglio di viburno. Mi pare significativo che, nelle Bucoliche, nessuna di queste due piante torni più: quella di Titiro è un’immagine poetica, costruita su sapere comune, non su un panorama che si voglia in qualche misura ricostruire. Il cipresso (cupressus sempervirens) è scelto come simbolo di Roma per il suo svettare solitario, v. 25. Con i viburna Virgilio individua invece dei cespugli a basso fusto, ed è possibile che il termine avesse, per lui, valore del tutto generico. Il moderno viburnum lantana, detto anche popolarmente “lentaggine” (e lenta è l’aggettivo con cui Virgilio caratterizza qui i viburna: ‘flessuosi’), è pianta piuttosto diffusa in Italia centro-settentrionale, usata come ornamento dei giardini, ma presente anche allo stato selvatico, che arriva fino a 3/4 metri di altitudine, entro un habitat non superiore ai 1000 m di altezza sul mare. Fiorisce in primavera, con fiorellini bianchi, piccoli ma numerosi; per il resto, è pianta abbastanza insignificante, adatta a creare ombra o a fare siepe. Nei giardini odierni se ne conoscono sottospecie differenti.

    (viburno da giardino, coltivato a siepe)

    Possiamo ora passare velocemente sopra le pinus ricordate da Melibeo al v. 38, o su termini generici come poma (qualsiasi pianta da frutto; come frutti maturi, mitia poma, la parola ritorna al v. 80) e arbusta, un altro termine generico. Al v. 48 Melibeo descrive i beni di Titiro come una palude ricoperta di giunco, ossia di canneti: pianta da territorio paludoso, e che ben si adatta a descrivere i dintorni di Mantova (oggi bonificati), e un po’ tutta la pianura padana (anche Milano, fino all’età moderna, lo ricordo, era circondata da paludi).

    (canneto lungo le rive del Mincio)

    Più interessante è lo spazio che viene concesso, entro quel medesimo contesto, alla salix. Poiché di tale pianta si contano oltre trecento specie, è difficile dire a quella di esse si riferisca qui Virgilio. La più diffusa è la salix alba, cui fa seguito la salix viminalis, che assolvono entrambe le caratteristiche che riconosce loro il poeta. Intanto sono piante fluviali, che nascono spontanee in natura, ma sono anche coltivate dalla mano dell’uomo, specie a protezione di canali e rive di fiumi, per le loro capacità di consolidamento del terreno, cui impediscono di slittare verso l’acqua. La salix in effetti è, con i canali d’acqua, il confine usuale delle proprietà individuate dalla centuriazione romana. Quindi, quando Melibeo rievoca un Titiro felicemente addormentato inter flumina nota (v. 51: non necessariamente ‘fiumi’, ma qualsiasi ‘corso d’acqua’, anche i canali delimitanti la proprietà), vicino a una siepe di salici (vv. 53-54), alla cui ombra può tranquillamente dormire, cullato dal ronzio delle api (v. 55), di fatto sta descrivendo un personaggio beato, circondato dalle sue cose, al centro di beni di indiscusso possesso, entro i quali continuare senza pensieri la vita di sempre. Preciso che il cosiddetto ‘salice piangente’ (salix alba tristis) è una sottospecie di salix, assai più rara, estranea al paesaggio bucolico.

    (salix alba)
    (salix viminalis)

    La proprietà di Titiro si caratterizza anche per la presenza di un alto olmo, sul quale ha nidificato la tortora. Non è qui importante individuare esattamente la specie cui Virgilio poteva fare riferimento (la ulmus minor, ovvero ‘olmo campestre’, e la ulmus glabra, ovvero ‘olmo montano’ sono le due più quotate, con una preferenza per la prima); importante è il panorama complessivo che Melibeo viene nel complesso a delineare. Come abbiamo visto, i beni di Titiro sono delimitati da una siepe di salice e dai corsi d’acqua, chiamati anch’essi a fare da confine; includono terreni umidi e un po’ paludosi, o, al contrario, sassosi e morenici (v. 47), ma comunque sufficienti a fornire dei pascua; un pomario, nel quale si ritrovano alberi da frutta produttivi; e, presumibilmente più vicino alla casa, un olmo a proteggerla e difenderla, sul quale gli uccelli nidificano indisturbati. Quella che viene così descritta è la tipica fattoria romana, rispetto alla quale solo la fagus iniziale appare in contraddizione. L’olmo, qui pianta domestica, nelle altre egloghe tornerà in continuazione come supporto della vite, una tecnica di coltivazione effettivamente praticata nel mondo antico.

    (ulmus minor)

    Anche la proprietà di Melibeo doveva avere le stesse caratteristiche. L’orizzonte mentale di Melibeo è fatto di arva (campi arati) e agri (campi coltivati), novalia (campi messi a riposo nel ciclo della rotazione), segetes  e aristae (messi e spighe), terre ben coltivate (tam culta). Il pomario si precisa come fatto di peri e di viti (v. 73), per ognuna delle quali Melibeo conosce una specifica tecnica di coltivazione: la riproduzione ad innesto, e la disposizione a filari.

    (innesto del pero)

    Non mancano naturalmente nemmeno i pascua, o comunque i terreni di cui Melibeo può disporre per questo scopo. Essi includono una rupe (v. 76), una grotta (v. 75), i già noti salici e, piante finora sconosciute, i generici dumi (cespugli non ben identificati; un dumetum è, di norma, un roveto), e la florens cytisus, descritta qui come pianta da foraggio particolarmente apprezzata dalle capre, nella decima egloga come pianta mellifera di grande valore. La moderna cytisus (la ginestra di leopardiana memoria) non coincide con queste caratteristiche, e l’identificazione della cytisus virgiliana resta incerta. Probabile che si tratti della medicago sativa, la cosiddetta ‘erba medica’ dei nostri campi, una leguminosa foraggera per eccellenza e che, in quanto azoto-fissatore, arricchisce nuovamente il suolo in modo naturale, dopo l’impoverimento dato da precedenti coltivazioni di altre famiglie, ed è per questo molto diffusa nelle campagne italiane.

    (medicago sativa)
    (medicago sativa in fiore)

    Altri hanno invece pensato al Trifolium pratense, che ha le stesse caratteristiche della precedente, ma – a differenza di quella – meno si presta a terreni aridi e assolati, e ha necessità di una certa irrigazione: cosa che ben si adatta all’immagine della campagna paludosa e solcata da canali che Melibeo ha delineato fin qui.

    (trifolium pratense in fiore)

    Resta un’ultima pianta a chiudere l’egloga. Con un’offerta finale di ospitalità, Titiro invita Melibeo a restare per una notte presso di lui, promettendogli come cena formaggio, frutta e castagne. Il castagno appartiene anch’esso al gruppo delle fagaceae, come i faggi iniziali e le querce. Diciamo che l’egloga si chiude così con una certa circolarità. Benché si possa trovare già a un’altezza sul mare di ca. 200 m, e fino agli 800 ca., anche il castagno è comunque pianta che prevede un habitat ondulato, se non proprio collinare (ricordo invece che i cittadini ippocastani non hanno nessuna parentela diretta con il castagno e appartengono al genere della aesculus, originario dell’Asia e importato in Italia a puro scopo ornamentale).

    (castagneto nel Lazio)

    Possiamo provare a concludere qualcosa? Diciamo che a me sembra che Virgilio abbia descritto un paesaggio umano e sociale molto preciso, fatto di gesti, azioni, operazioni e anche tratti paesaggistici indiscutibilmente romani e legati alla sua epoca. Viceversa, quando si riferisce a un paesaggio naturale, che serva di ambientazione geografica, non ‘sociologica’ e storica, i tratti si fanno più incerti, e resta molto dubbio che egli volesse ritrarre una località precisa. Se però così non fosse, l’impressione è che tale località andrebbe cercata più nella parte settentrionale dell’attuale provincia mantovana, che non in quella meridionale: più verso le ondulazioni che digradano dal (o portano al) lago di Garda, che nella zona in cui il Mincio si avvicina al Po e vi si getta. In ogni caso, si tratterebbe di andare in cerca delle proprietà di Titiro e Melibeo, non di quella di Virgilio. E questo mi sembra che l’egloga lo sottolinei fortemente in ogni suo tratto.

    © Massimo Gioseffi, 2019