L’opera di Virgilio ha spesso svolto un ruolo importantissimo durante le trasformazioni culturali che hanno portato alla contemporaneità. Anche se questo post è focalizzato su Wordsworth e Virgilio, sul dialogo di un poeta romantico con il poeta classico, vorrei prendere le mosse da un precedente interessante, che sta al di fuori dell’ambito letterario, ma che mostra come l’opera classica abbia visto progressivamente mutare il proprio valore nella coscienza dei moderni. Si tratta della polemica attorno alle Georgiche, divampata piuttosto accesa tra il colto agronomo inglese Jethro Tull (1674-1741) e Stephen Switzer (1682–1745), in un’epoca in cui il poema virgiliano era ancora considerato non solo esempio di grande poesia, ma anche depositario di consigli pratici e utilissimi in ambito agricolo. Tull, il quale con le sue invenzioni tecnologiche diede inizio a una nuova prassi metodologica del fare agricoltura, riteneva Virgilio solo un poeta che non aveva esperienza da agricoltore e che aveva appreso ciò che descriveva dai libri; lui, invece, possedeva un’esperienza trentennale, aveva imparato nei campi ciò che sapeva e considerava orgogliosamente i suoi metodi di coltivazione anti-virgilian. Stephen Switzer, dal canto suo, difendeva apertamente l’auctoritas di Virgilio e continuava a considerare il poema un manuale pratico e scientifico di agricoltura, oltre che uno scrigno di tesori estetici e di precetti etici. La polemica presenta così gli inizi di un movimento culturale che separa scienza e poesia, metodo pragmatico e belle immagini letterarie, o, come dirà Wordsworth nella prefazione alle Lyrical Ballads (1800), tra “Poetry and Matter of Fact, or Science” (come è noto, anche Wordsworth esortava a imparare dalla Natura più che dalla lettura). Virgilio viene gradualmente ridimensionato, la scienza e le lettere imboccano strade separate e non più comunicanti tra loro.
Torniamo però ora a William Wordsworth (1770-1850). Egli inizia a scrivere poesia in un clima culturale in mutamento, che modifica il giudizio sui classici ma non li elimina dal canone di scuola. Virgilio risulta così una presenza costante nella vita del poeta inglese, fin dai primi componimenti di fine XVIII secolo, confluiti poi in parte nelle Lyrical Ballads, e sino ad arrivare alla traduzione dell’Eneide, iniziata nel 1823 e mai terminata. Quello che vorrei mettere in evidenza è appunto il dialogo che il poeta moderno ha continuamente intrattenuto con Virgilio e il diverso ruolo che il poeta classico ha assunto nel corso della carriera poetica di Wordsworth.
I componimenti del poeta inglese, all’apparenza semplici e spontanei, come se fossero stati scritti seguendo l’ispirazione del momento e fossero giunti quasi per caso a noi lettori – ma si tratta del gioco di un abile prestigiatore! – nascondono, e nascondono bene, l’abbondanza di studi, di letture, di riflessioni sulla poesia che sta alle loro spalle. Il componimento Lines left upon a Seat in a Yew-tree (1798), ad esempio, descrive un paesaggio che si contrappone volutamente a quello bucolico: il viandante viene esortato a fermarsi per un poco in un posto dove non vi sono fiumi scintillanti, i rami degli alberi sono secchi, non si sente il ronzio delle api, ma le onde increspate si infrangono sulla spiaggia:
What if here
No sparkling rivulet spread the verdant herb?
What if the bee love not these barren boughs?
Yet, if the wind breathe soft, the curling waves,
That break against the shore, shall lull thy mind
By one soft impulse saved from vacancy.
Tuttavia, una contrapposizione così esatta mette in evidenza la precisa conoscenza del modello virgiliano, che lascia una traccia visibilissima nell’albero di cui il recluso, il fuggitivo dall’umanità – protagonista della poesia – ha piegato i rami a formare un cerchio d’ombra, e nelle zolle erbose che coprono una pila di pietre:
Who he was
That piled these stones and with the mossy sod
First covered, and here taught this aged Tree
With its dark arms to form a circling bower,
I well remember.
Qui è facile ravvisare il ricordo dell’ampio faggio che fa ombra a Titiro nella prima egloga (1.1) e della capanna che Melibeo non potrà più rivedere (1.68 tuguri congestum caespite culmen). In Wordsworth l’azione umana crea uno spazio per la meditazione e la solitudine, perché il recluso a causa del suo orgoglio ha deciso di rifuggire il resto degli uomini, dopo averne sperimentato la compagnia; ben diversi sono i destini di Titiro e di Melibeo: il primo, costretto a lasciare la sua dimora per la grande città, vi ritorna portando con sé la libertà di vivere serenamente in una campagna rigogliosa, circondato dagli affetti che gli sono cari; il secondo deve abbandonare la sua abitazione per andare verso luoghi sconosciuti. Sono passati i secoli, la Storia ha mutato il modo di percepire l’uomo e la sua idea di felicità; tuttavia, la serenità di Titiro e le svariate vicende che si leggono nelle Bucoliche hanno lasciato ancora una traccia.
Altrettanto può dirsi per le poesie successive di Wordsworth, i suoi Poems, in Two Volumes, editi nel 1807. Naturalmente Wordsworth si discosta dal mondo di Virgilio, cambia il paesaggio e cambia in parte i suoi abitanti: al posto della campagna mantovana ci sono le Highlands con la loro natura viva e partecipe, i boschi e i torrenti, le rupi e le valli; al posto dei pastori, delle ninfe, di Dafni e di Gallo vi sono viandanti e reclusi volontari (come nel componimento sopra citato), bambine inconsapevoli della morte (We are seven: la piccola pastorella di otto anni pensa ai fratelli morti come se fossero ancora vivi), ragazzi avventurosi scomparsi prematuramente (There was a boy….), una giovane costretta ad andare in città (Poor Susan: ancora un diretto ricordo virgiliano?), un vecchio povero e solo costretto a cercare sanguisughe per vivere (Resolution and Independence), una mietitrice solitaria (The Solitary Reaper); e assieme a loro, il poeta stesso, la sorella e gli amici che vivono in comunione con la Natura. Quindi, ancora personaggi rustici e poeti, i quali intersecano le loro sofferte vicende in un paesaggio che non è soltanto uno sfondo privo di significato, ma parte integrante della vita e della poesia. Wordsworth sembra attualizzare Virgilio, togliendo ciò che nella sua opera poteva apparire irreale e immaginario, ad esempio le figure mitologiche o un’Arcadia mitizzata, e conservando invece quella che potremmo definire la “distanza romantico-bucolica”: il poeta, colto e intelligente, descrive ciò che dice di vedere, racconta ciò che dice essere reale, sostiene di cogliere e donare al lettore ciò che è spontaneo, immediato e quindi vero. Ma in realtà tutto filtra attraverso il suo sguardo e la sua cultura, creando pezzi letterari che danno l’illusione della più assoluta verità. Come ho già detto, Wordsworth è un abile prestigiatore.
Virgilio fa sentire la sua influenza nel poemetto di argomento mitologico Laodamia (1815; una seconda versione risale al 1845). Wordsworth trae ispirazione dal sesto libro dell’Eneide, opera che stava rileggendo in quegli anni, e numerosi passaggi, come quelli che descrivono Laodamia o l’Elisio, sembrano riprendere dei passi virgiliani. L’opera si conclude con dei versi che forse reinterpretano il celebre sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (Aen. 1.462):
Yet tears to human suffering are due;
And mortal hopes defeated and o’erthrown
Are mourned by man, and not by man alone (vv. 164-166).
Le parole che Enea rivolge ad Acate mentre osserva le vicende di Troia effigiate nel tempio in costruzione a Cartagine vengono riutilizzate da Wordsworth per sottolineare il dolore insito nella condizione umana e la capacità, non solo degli uomini, come aggiunge Wordsworth, di compiangere le sofferenze altrui.
La lettura dell’Eneide si trasformerà qualche anno dopo in qualcosa di concreto: una traduzione, sebbene solo dei primi quattro libri. A partire dal 1823 Wordsworth si dedicò a rendere in lingua inglese il poema virgiliano. Nonostante il lavoro sia stato iniziato per caso – è il poeta stesso a dirlo in una lettera a Lord Lonsdale – suo scopo era sostituire la traduzione di Dryden, considerata poco “affecting”. Wordsworth affermava di essere rimasto commosso dal poema (“When I read Virgil in the original I am moved”) e nella sua traduzione cercò di rendere quella tenderness che altri prima di lui non avevano saputo ricreare. Egli trovava eccessivamente artificiale la lingua dei suoi predecessori e intendeva cercare un lessico e una struttura il più possibile vicini a Virgilio, in modo da suscitare le medesime emozioni dell’originale. L’opera si interruppe abbastanza presto, forse perché la traduzione, tesa a rendere in inglese le movenze del latino virgiliano forzando in certo qual modo la lingua d’arrivo, non piacque ai suoi primi lettori. La volontà di essere fedele a Virgilio in un esperimento di traduzione che sacrificava l’usuale struttura della lingua moderna allo scopo di rendere percepibile ai suoi contemporanei quelle emozioni che Wordsworth sentiva, ribalta la situazione iniziale: modello da rielaborare e ristrutturare per creare una poesia moderna agli esordi della carriera letteraria di Wordsworth, Virgilio diventa ora un autore per così dire intoccabile, non più trasformabile, perché è stato capace di trasmettere in modo inimitabile i sentimenti attraverso la parola. In fondo, quello cui Wordsworth aspirava fin dall’inizio, e che aveva cercato di raggiungere con la propria poesia.
Il Romanticismo, quindi, è forse meno anti-classico di come viene descritto di solito. Certo, il bisogno di rinnovamento, il fastidio per una “poetic diction” sentita come ormai antiquata, la necessità di imporsi come poeti “moderni” (anche la letteratura conosce i suoi corsi e ricorsi!) ha comportato un desiderio di distacco e di trasformazione del classico, il bisogno di reinterpretarlo all’interno di una nuova dimensione culturale. Ma senza davvero negarlo o per volersene sbarazzare, anzi alla fine cercando di impossessarsene di nuovo. Anche per questo, per comprendere appieno non solo un poeta moderno, ma il complesso movimento letterario e culturale in cui si inserisce, è necessario non sottovalutare né dimenticare i poeti latini, che pur appartenendo a un’epoca lontana hanno continuato a esercitare un influsso considerevole sulle epoche successive. Senza conoscerli, rischiamo di giudicare in maniera imprecisa la letteratura che è venuta dopo…
© Isabella Canetta, 2016
Pienamente d’accordo! E come non sentire nel “Morremo” della Saffo leopardiana il “Moriemur inultae, sed moriamur” della Didone di “Eneide”,IV? E’ per questo che la lettura e la conoscenza dell’opera virgiliana restano fondamentali e che fin dai primi anni di liceo è importante avvicinare con passione e amore i ragazzi alle pagine di questo poeta, veramente “Maestro e autore” di tutti noi, e non solo dell’inarrivabile Dante.
Grazie per la riflessione e l’arricchimento proposti con questo intervento!