Torno sul bel post di Isabella Canetta e sulla discussione che ha suscitato, perché mi pare che l’intervento solleciti uno dei nodi centrali dei nostri studi e dello spazio da concedere al latino e a chi insegna latino nella scuola. Chiedo scusa se farò prima un discorso musicale, il cui senso e collegamento con quanto ci interessa si spiegherà solo alla fine. A chi abbia la pazienza di leggere, chiedo, appunto, la pazienza di arrivare fino in fondo.
Nel mese di settembre il Teatro alla Scala di Milano ha messo in scena alcune recite dell’opera Alì Babà di Luigi Maria Cherubini (1760-1842). Cherubini, fiorentino di nascita e di prima carriera, fu un cervello in fuga, attivo a Londra e a Parigi, dove si trasferì nel 1787 e dove rimase fino alla morte. Alì Babà, in realtà Ali-Baba ou les quarante voleurs, è un’opera francese, in francese, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1833. Dal 1822 al 1842, anno della morte, Cherubini fu l’amato/odiato direttore del Conservatorio parigino; ma la sua ultima composizione operistica di peso, prima dell’Ali-Baba, risaliva al 1813, ed era stata Les abencerages, su libretto ricavato da Chateaubriand. In mezzo solo due opere comiche di poco interesse e successo. Perché insistere su questo? Chi conosca Ali-Baba, da questa edizione scaligera o dalla sua sola precedente ripresa in tempi moderni, ancora alla Scala, nel 1963 (di quello spettacolo esiste, per fortuna, una registrazione dal vivo), sa che nel 1833 un’opera del genere era fuori tempo. Ali-Baba è infatti un’opera turchesca, come si usava nella seconda metà del Settecento; priva di vere arie, o quasi, con un grande impegno verso il declamato; con cori e danze inserite direttamente nel testo; con una certa seriosa austerità, alla latina direi una certa gravitas, pur nell’argomento complessivamente comico. Volendo trovare, nella mia memoria di ascoltatore, uno spettacolo affine a quello cui ho assistito alla Scala, evocherei un’opera vista alla (defunta) Piccola Scala agli inizi degli anni Ottanta, Les pèlerins de la Mecque, opera-comique di Gluck, un musicista di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Ma Les pèlerins è un’opera del 1763, andata in scena (dopo una serie di peripezie che qui non ci interessano) nel 1766. Cioè, settant’anni prima dell’operazione tentata da Cherubini. In quei settant’anni si inseriscono tutta la parabola del Mozart operista; tutta la parabola della generazione di mezzo, quella degli Spontini, dei Mayr, di Cherubini stesso; tutta la parabola del genio rossiniano, la cui carriera si chiude con il Guillaume Tell del 1829. Sei anni prima dell’Ali-Baba, nel 1827, Bellini e il suo tenore di riferimento, Giovan Battista Rubini, avevano creato, con Il Pirata, la figura dell’eroe romantico. Nel 1831, pochi mesi prima della nostra opera, Bellini aveva scritto Norma; nel 1833 Donizetti aveva già scritto Anna Bolena, Elisir d’amore e Lucrezia Borgia; due anni più tardi raggiungerà la sua punta massima con Lucia di Lammermoor (da Walter Scott). Insisto su Scott, come prima ho fatto per Chateaubriand, e ora faccio ricordando che le zuffe pro o contro Hernani, il drammone romantico di Victor Hugo, risalgono al 1831, proprio per segnalare questo: il Settecento di Gluck nel 1833 era un mondo tramontato, e tramontato più volte, da più stagioni culturali e generazionali. Riproporlo sulle scene dell’Opera dovette fare uno stranissimo effetto, e infatti tradizione vuole che una voce di spettatore (poi auto-identificatosi in Hector Berlioz) a ogni alzata di sipario gridasse a gran voce la propria disponibilità a pagare un prezzo sempre maggiore in nome di qualche idea musicale da rintracciare nell’opera; salvo, all’ultimo atto, affermare sconsolata di non essere abbastanza ricca per permettersi la posta che, a quel punto, era necessario mettere in palio.
Perché questa lunga tirata? Ali-Baba non è certo entrato nel canone, la sua vita è stata stentata sia nell’Ottocento, sia nel Novecento. Eppure, è opera gradevole, e il pubblico delle recite cui ho assistito è uscito da teatro soddisfatto e plaudente. Nella vacua eleganza dello spettacolo offerto dalla Scala, la serata è parsa povera di grandi contenuti, ma non priva di una sua dignità formale, premiata dagli applausi. Perché in musica non vige il concetto di canone; vige il concetto di repertorio. A un ascoltatore distratto, Ali-Baba suona come un’opera settecentesca, gradevole e ben fatta. La distanza che ci separa tanto dal Settecento quanto dall’Ottocento fa sì che non si avverta più la contraddizione in termini cronologici che aveva fatto indignare Berlioz e rendere freddi i primi ascoltatori dell’opera, determinandone la successiva sparizione. Certo, chi ragiona sulle date rimane, anche oggi, sconcertato; chi non vi ragiona, va a teatro e sente un’operina gradevole e relativamente ben rappresentata. E, badate bene, non è detto che si tratti di due persone differenti, un pubblico colto e un pubblico ignorante. La reazione, mista, può essere presente anche nell’animo di uno stesso spettatore.
Questo è il repertorio: un grande contenitore dove chi vuole pesca ciò che gli interessa; e ne può fruire accostandolo a cose diverse, badando più a un godimento estetico che a una cognizione storica (proprio per questo, per soddisfare quanti più gusti possibili, qualsiasi teatro di buon senso, nel suo cartellone, mescola opere di epoche, gusti, generi diversi). Un canone, come ha giustamente scritto Isabella Canetta, è un’altra cosa, e necessita di almeno tre elementi: un’autorità che lo imponga; un numero ristretto di pezzi a costituirlo, sempre gli stessi, accettati da tutti; una obbligatorietà imposta dall’autorità di cui sopra e dal consenziente ossequio di chi a quella autorità si sottomette. Edward Sorel nella sua vignetta metteva in luce perfettamente tutto questo: c’è Bloom-Mosè, che si considera interprete diretto delle parole di Dio; ci sono le Tavole delle Leggi, dalle quali non si può tralignare; ci sono dodici nomi, e solo dodici, gli unici eletti in tutta la letteratura americana; e ci sono i lettori di Bloom/Ebrei in fuga verso la Terra Promessa, disposti, almeno per un poco, a sottostare a quelle leggi e a quelle tavole. Il repertorio ha struttura in parte diversa: dipende anch’esso da autorità che lo impongono, ma è più inclusivo, ammette un numero maggiore di elementi e una loro maggiore mobilità. Non ha carattere obbligatorio: vige, per esso, la legge dell’auctoritas, ma anche quella della semplice casualità. Mi spiego di nuovo con esempi musicali: di Ali-Baba fu nota, per anni (e una semplice verifica su youtube lo dimostra) la sola ouverture. La ragione di questo sta nell’esecuzione che di essa diede Arturo Toscanini in uno dei concerti radiofonici da lui tenuti in America. Con quei concerti Toscanini ha creato per anni un repertorio direttoriale: ciò che lui ha diretto, è stato diretto anche da altri, in molti casi presumibilmente ignari di come Ali-Baba si sviluppasse dopo l’ouverture, di che tipo di opera fosse, di che cosa trattasse. Ma non importava: importava l’ouverture in quanto tale, in quanto brano “toscaniniano”, da eseguire perché l’aveva eseguito Toscanini. Viceversa, ciò che Toscanini non ha diretto ha faticato ad entrare in repertorio: ad esempio Mahler, ad esempio Shostakovich. Un direttore del calibro di Herbert von Karajan, che pure fu a sua volta un dittatore del podio e delle scelte musicali per almeno trent’anni, diresse in tutta la sua vita una sola sinfonia di Shostakovich (la Decima) e solo quattro su dieci di Mahler (quarta, quinta, sesta e nona). Quando Claudio Abbado nel 1982 inaugurò la Filarmonica della Scala con la Terza di Mahler, fece scalpore. Solo una decina di anni più tardi, Riccardo Chailly, allora direttore dell’Orchestra Verdi di Milano, poté invece imporre senza difficoltà che ogni concerto inaugurale di quella orchestra comprendesse almeno una sinfonia di Mahler. Era la fine degli anni Novanta: fino a quella data, le sole discografie integrali di sinfonie mahleriane erano quelle di Kubelik e di Bernstein; oggi, quasi ogni direttore che si rispetti ha la sua. Identico discorso per Shostakovich. E il repertorio non varia solamente nel tempo, varia anche nello spazio: fuori d’Italia, centro del repertorio operistico è senz’altro Wagner, e non solo nei Paesi di lingua tedesca; in Italia, lo è Verdi, e quando la Scala si inaugura con un’opera wagneriana, per quanto eccelsa essa sia, si possono dare per scontati i mugugni e gli alti lai. A Torino, la sindachessa cittadina ha cacciato in malo modo un ottimo direttore, colpevole di non dirigere abbastanza Traviate e Barbieri di Siviglia ogni anno! La biografia di Joan Sutherland scritta da Norma Major insegna quante difficoltà abbia avuto la cantante a imporre, a Londra e in America, suoi territori d’elezione, opere come Sonnambula, Norma, Puritani e la stessa Lucia di Lammermoor che in Italia, pochi anni prima, Maria Callas aveva in normalissimo repertorio, e come lei un numero elevato di altre, meno eccelse cantanti. E questo perché i recensori degli spettacoli della Sutherland sottolineavano certo sempre la grandezza della cantatrice, ma anche l’inutile spreco di tante doti in composizioni di autori come Bellini, Donizetti, il primo Verdi, che in Italia erano considerati il fulcro del repertorio, ma in Inghilterra erano visti come dei poveri dilettanti, inesperti di armonia…
Vengo a stringere il troppo lungo ragionamento. Un repertorio è più ampio; meno fisso; meno legato all’autorità che lo impone (pur essendo legato anch’esso a fenomeni di auctoritas, di cultura generale, di gusto personale), meno assertivo di un canone. Ne traggo due considerazioni. La prima, storica. Sia Isabella Canetta che Silvia Stucchi nelle loro osservazioni su Quintiliano parlano di “canone”. Io credo che quello di Quintiliano sia un “repertorio”, non un “canone”: un elenco di ciò che si può leggere, non un obbligo alla lettura, che Quintiliano voglia davvero imporre ai suoi lettori. Mancano, del canone, la misura ristretta; l’assertività assoluta e l’autorità impositiva di chi lo emana; il carattere esclusivo, anziché inclusivo, dei nomi fatti. Seconda considerazione, di interesse più pratico e immediato. La scuola italiana vive una contraddizione in materia di canone (non è la sua sola contraddizione, del resto). Da un lato, infatti, le nuove disposizioni ministeriali, che tanto nuove magari non sono più, ma che non sono mai state troppo seriamente applicate, vorrebbero un allargamento dei testi, dal canone al repertorio, nella direzione di un apprendimento della civiltà, e non della letteratura. Dall’altra parte, però, quelle stesse disposizioni stabiliscono, con formule ambigue e forse anche un po’ ipocrite, che lasciano libertà di variare, ma puniscono poi i tentativi di variazione, un canone – questo sì – di autori da privilegiare, e perfino una scaletta cronologica circa il loro approccio da parte delle classi liceali…
Ecco allora la domanda: spostare l’accento dal canone al repertorio cosa può produrre di nuovo? quali vantaggi e quali rischi? Un rischio, lo dico subito io stesso, è l’effetto Ali-Baba, la perdita di vista, cioè, che un testo del 1833 che sembra un testo del 1763, è un testo che ha in sé qualcosa che non funziona, oppure qualcosa di provocatorio: ma perdere di vista la continuità storica vuol dire rischiare di fruire di un’opera del 1833 come se fosse un’opera del 1763, senza porsi dei problemi che invece andrebbero posti. Un vantaggio, però, sarebbe l’allargamento di testi e di possibilità di ricerca e autonoma sperimentazione, anche nelle singole classi e nelle singole scuole: in un cartellone di teatro, si sa, tutto deve convivere con tutto, se il teatro vuole sopravvivere, e sarà il pubblico a decidere a che cosa assistere e a che cosa no, scegliendo liberamente sulla base del proprio gusto; ma non può essere il teatro a scegliere per il suo pubblico, se non vuole rischiare di assottigliarlo, alienandosene ampia parte. E questo anche a scegliere ciò che tutti fanno e tutti conoscono, come una sorta di dovere imprescindibile: perché, con buona pace della sindachessa torinese (che varie volte si è espressa in questa direzione), un teatro fatto di soli Barbieri di Siviglia e di sole Traviate non è un teatro che si apre al grande repertorio popolare. E’ un teatro che si chiude, e si avvita su se stesso, e in breve muore.
La scuola deve guardare a un livellamento sociale del sapere, e deve rispondere alle domande di chi la frequenta, e di chi valuterà un giorno chi la frequenta. Ma siamo sicuri che la metafora utilizzata per il teatro non valga anche per la scuola italiana in generale, per il canone dei testi latini in particolare? Concentrarsi sempre sugli stessi autori, gli stessi testi, leggere sempre e soltanto le poesie su Lesbia, la prima ecloga o il Carpe diem, non rischia di svilire gli autori antichi, di fornirne un’immagine parziale e dunque errata e, nel nome di un canone da rispettare, di uccidere la libertà e l’ampiezza del repertorio? Sì, certo, a non leggere queste cose si rischia. Perché se non lo si fa, lo studente rischia che alla maturità gli venga chiesto qualcosa che non sa, rischia di non saper rispondere a domande banali, rischia di non conoscere gli autori canonici, appunto, e i passi ritenuti canonici. Ritenuti da chi? Su questo, sollecito risposte.
© Massimo Gioseffi, 2018
Luigi Maria Cherubini – Ouverture da Ali-Baba, New York 1949, NBC Orchestra, dir. Arturo Toscanini (registrazione radiofonica di dominio pubblico)
Il discrimine tra canone e repertorio, almeno secondo le definizioni date da me e da Massimo Gioseffi, appare sottile. L’istituzione si alimenta con un canone, il teatro con i repertori, che però, a quanto pare, sottostanno anche loro a una sorta di auctoritas, se ogni direttore che si rispetti deve avere in repertorio tutte le sinfonie di Mahler e di Shostakovich, fino a quando un altro direttore autorevole e influente sorprenderà con qualcosa di nuovo. Nel repertorio c’è sicuramente una maggiore libertà, perché ognuno può metterci quello che gli piace di più. Io stessa, come ogni lettore assiduo, ho un mio repertorio di autori e opere, diverso da chiunque altro, composto dalle opere canoniche che la scuola mi ha imposto, da altre, sempre canoniche ma di letterature e lingue non studiate in ambito scolastico, che ho letto di mia volontà perché ne avevo sentito parlare, perché consigliate da un amico, perché esposte in libreria, e infine da opere che probabilmente in un canone non ci finiranno mai. Ricordo che la mia professoressa di letteratura italiana non ci fece studiare Carducci per lasciare più spazio ad autori come Calvino, in quegli anni solitamente trascurati; certo, temeva i rischi in cui potevamo incappare all’esame di maturità, ma per fortuna non cambiò idea (e per fortuna quell’anno non era necessario conoscere Carducci).
Difficile dire quale sia l’eminenza grigia che decide che cosa debba entrare in un canone: i docenti universitari? i lettori e il pubblico? chi lavora nei vari uffici scolastici? In ogni caso, come dimostrano le Canon Wars di cui ho parlato, è sempre possibile intraprendere un’azione di protesta e magari anche affermare le proprie ragioni. Tuttavia, credo che lasciare troppo spazio ai repertori individuali, cosa che in giusta misura esiste ed è auspicabile, provocherebbe una certa confusione, la mancanza di un sapere condiviso e quindi la possibilità di confrontarsi, discutere e sapere chi siamo come società e come individui.
Mi permetto di finire questa risposta sin troppo lunga come ha iniziato Massimo il suo post, e cioè con un esempio tratto dalla musica, benché non quella colta. A cinquanta anni e più di distanza dalla nascita del rock psichedelico, progressivo e “urlato”, inizia a formarsi una sorta di canone ad opera di appassionati ed esperti – e spesso con feroci polemiche tra i fan delle varie band. Genesis, Led Zeppelin, Jethro Tull, King Crimson e Pink Floyd – che quasi tutti comunque giocavano con la musica classica – ne sono probabilmente il nucleo fondamentale, ma altre band sono lasciate ai margini per motivi che è difficile comprendere oggi e solo il tempo ci dirà se a ragione. Questo “classic rock”, come oramai viene definito, inizia ad essere studiato anche nelle scuole medie, probabilmente ad opera di insegnanti che attingono al loro repertorio. Presumibilmente tra qualche tempo entreranno in un canone scolastico, con buona pace del musicologo che nel 1967 in un’intervista a Roger Waters e a Syd Barrett biasimava con supponenza la musica a suo giudizio eccessivamente “loud” dei Pink Floyd (ma chiaramente le sue critiche miravano altrove). Insomma, come per i poetae novi o i romantici, si è perso il sapore della lotta per una musica moderna e innovativa, perché oramai divenuta in un certo senso classica e canonica – e vecchissima per chi è nato nel XXI secolo – ma che può stare o non stare in un repertorio di un ascoltatore. Nessun canone è assoluto e definito per sempre: secondo me si rinnova, per quanto lentamente, col passare del tempo e l’abitudine alle novità.
Le osservazioni di Isabella sono utili e interessanti, ma invitano anche a qualche ulteriore precisazione.
1. E’ chiaro che esiste un repertorio personale, che è, in ogni campo dell’Arte e del Sapere, la somma delle esperienze e dei gusti del singolo individuo. Questo però non è “il” repertorio, che, viceversa, nella discipline ormai ufficializzate è qualcosa di comunque riconoscibile e palpabile ad una maggioranza, se non addirittura alla totalità, dei fruitori. Faccio il solito esempio musicale: nel ventennio di permanenza scaligera, Riccardo Muti ha più volte diretto composizioni sinfoniche e strumentali di autori come Martucci o Catalani. Sul sito, agguerritissimo, del maestro se ne può trovare l’elenco. Ma Martucci (o il Catalani sinfonico, altra cosa dal Catalani operista, mai però presente in Scala dal lontano 1968) era un piacere personale di Muti. Stava nel “suo” repertorio, e infatti lo ha diretto più volte; ma non è mai entrato nel repertorio comune e infatti, sparito Muti, è sparito anch’esso!
2. Isabella individua molto chiaramente, quando parla del “classic rock” un problema essenziale: di canone e/o di repertorio si può parlare solo in campi entro i quali sia già avvenuto un processo di musealizzazione dei suddetti campi, e di storicizzazione del loro sviluppo. Per questo, per il “classic rock” è forse ancora troppo presto; per la musica strumentale e operistica (a dispetto dell’interesse che ho sempre mostrato per loro nuove affermazioni, due generi certamente conclusi nel ruolo storico di arti/guida di un’epoca), invece no. Lì c’è un repertorio ben riconoscibile, anche se quel repertorio è, come detto, anch’esso sempre mobile e mutevole nel tempo, per ragioni di autorità o per ragioni anche puramente casuali (ad esempio, la presenza o l’assenza di interpreti adeguati). Identico discorso vale per la letteratura latina, che è anch’essa un campo che ammette ancora possibilità originali (si veda il post su Rimbaud poeta latino, e altri conto se ne aggiungano in futuro); ma, nella sostanza, resta un’esperienza conclusa e “musealizzabile” – quindi nella quale è possibile riconoscere canoni e repertori (concetti simili, e però differenti tra loro, come spero si evincesse dal post, e certo si evince dalle parole di Isabella).
3. e qui vengo alla parte che più interessa, quella relativa alla didattica. Isabella pone la questione cruciale: “Difficile dire quale sia l’eminenza grigia che decide che cosa debba entrare in un canone”. Certo, militando fra di essi, posso rispondere “non i professori universitari”; e nemmeno direi i lettori e il pubblico (di che cosa?). Più probabilmente, chi lavora nei vari uffici scolastici (ministeriali), al massimo i consulenti editoriali delle case editrici di editoria scolastica. Ma questo è il punto cruciale. Chi stabilisce cosa si deve leggere in aula e quando, in quale anno e in quale quadrimestre dell’anno? E chi dovrebbe invece stabilirlo? Per me, il singolo docente, con l’accordo della sua aula, ed entro un quadro che sia quello del “repertorio”, non del “repertorio personale”. Mi spiego: io posso pensare che le poesie latine di Hermann Weller (peraltro, un indologista che usò il latino contro il Nazismo: una figura che riveste quindi qualche interesse) siano l’apice della poesia latina. Ma sarò, se non il solo, uno di due o tre sole persone che lo pensano in tutto il mondo. Posso quindi farci sopra un post, e magari un giorno lo farò, per segnalarne l’importanza ai miei lettori, se mai ce ne sono; posso farci sopra lezione, tanto gli studenti universitari di rado hanno la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso sugli argomenti prescelti; posso scriverci sopra qualcosa di maggiormente scientifico, sperando di riportarlo in repertorio. Ma so che non è un autore di repertorio. Se però entro Catullo, Virgilio o Orazio (i tre esempi fatti nel post) io decido di cercarmi un percorso autonomo, e a me e alla mia classe più confacente, di quanto previsto da libri di testo tutti fatti con lo stampino, da formule banalmente trite e ritrite che non significano poi nulla, da indicazioni ministeriali fumose e contradditorie, dalla serie immancabile “carmina per Lesbia/prima egloga/carpe diem”, io non sto operando contro il repertorio, ma sto agendo con libertà entro il repertorio. Rifiutandone la riduzione a canone, cioè a passaggio obbligato, reso obbligato dalla scelta di altri (e, come scrive Isabella, altri senza nome e senza identità precisa, sottratti quindi a ogni possibilità di una messa in discussione e di un confronto).
Ecco, questo tenevo a precisare. Mi scuso per il lungo intervento
Grazie Massimo per la tua risposta, che precisa con chiarezza punti sui quali sono stata un poco vaga. Per quel che vale, sono pienamente d’accordo con te, con quanto dici sulla didattica. Anch’io credo che ogni insegnante e ogni classe abbia il diritto di decidere e di scegliere, nell’ambito di un repertorio riconosciuto, poesie, passi o autori che solitamente non si studiano. Questo per tante ragioni, e non solo per la sacrosanta libertà di insegnamento. Per esempio, per evitare appunto che il sapere sia unico e prestabilito per tutti, per allargare la visione della letteratura, latina e non, che è fatta di tanti aspetti differenti e che uno studente potrebbe utilmente conoscere, per stimolare la curiosità dei ragazzi….. ma questo dipende moltissimo dalla volontà del docente di conoscere lui per primo il repertorio e di proporlo ai suoi studenti.