Carlo Migliaccio
Osservazioni su "Outis" di L. Berio


4. Appunti per una discussione
 

 

E' indubbio che l'ascolto di una composizione di Luciano Berio sia sempre carica di fascino e di forti suggestioni, soprattutto di tipo emotivo. Di Berio ho sempre apprezzato la freschezza, l' humour , la sperimentazione unita alla creatività; ma soprattutto la capacità mettere in parallelo il rigore compositivo con la ricerca del piacere uditivo, che non si esaurisce certo né nella mera applicazione di formule e di procedimenti standardizzati, né d'altra parte nella pura e semplice distillazione di sonorità e di timbri, autocompiaciuta e fine a se stessa. In tal senso la ferrea logica che regge le sue strutture musicali riesce a conciliarsi con il piano psicologico delle aspettative uditive dell'ascoltatore, sì che spesso anche il profano rimane sinceramente coinvolto da un flusso sonoro di cui riesce a riconoscere l'intima necessità.

Ascoltando quest'ultima composizione di Berio, io faccio però più fatica a ritrovare le caratteristiche e i pregi tipici della musica del compositore ligure, a cui fino a qualche tempo fa egli ci aveva abituati. Non che manchino momenti di grande pregio e di altissima levatura compositiva e che non si riconosca l'inossidabile qualità del mestiere, ma in generale mi appare prevalente piuttosto un'adesione pedissequa e manieristica a moduli compositivi appartenenti alla tradizione dell'avanguardia musicale che, per quanto validi da un punto di vista storicistico, risultano oggi a mio parere alquanto obsoleti.

In tal senso mi sembra che lo spirito di ricerca e di inventiva, presente nella prima produzione teatrale di Berio e che ha fatto di lui uno dei più geniali innovatori musicali italiani, insieme a Nono, Manzoni, Sciarrino, ecc., si sia nelle ultime sue composizioni notevolmente esaurito, tanto da divenire quasi sospetto di un certo conservatorismo.

Nell'epoca in cui vi sono compositori che tendono a ridare - anche se con scelte e modalità discutibili - al teatro musicale forme e caratteri di tipo narrativo, componendo fiabe o vicende melodrammatiche, Berio sembra voler ribadire in modo perentorio il carattere anti-narrativo del suo teatro. Penso che proprio questo ultimo aspetto sia il più discutibile e il più aporetico. Infatti, oltre che l'anti-narratività, l'obiettivo che il teatro di Berio si propone è anche la precipua e prevalente attribuzione alla musica di una funzione tanto generatrice quanto organizzatrice del contesto drammaturgico e della temporalità delle "immagini" teatrali.

Pur ponendosi in rapporto dialettico con quest'ultima, la "qualità" della temporalità della musica ha secondo Berio il sopravvento, poiché "ci permette di scrutare, analizzare e commentare quello che sta davanti ai nostri occhi, condizionandone la percezione". Una simile temporalità influenza e determina quindi una sorta di "teatro della mente e della memoria", che "invita a un'oscillazione continua della nostra attenzione dall'ascolto allo sguardo e ancora all'ascolto". Ora, a me sembra che le due idee, quella di un teatro similmente caratterizzato e quella di un teatro antinarrativo (come risulta dagli intenti degli autori), siano in sé inconciliabili, se non contraddittorie: a meno che non si ammetta un ulteriore livello di narrazione, che infatti Berio sembra perseguire.

I cinque cicli di cui Outis si compone, sebbene non seguano un percorso narrativo tradizionale, conservano pur sempre un ben preciso itinerario di situazioni: dalla memoria alla seduzione, dall'alienazione all'oblio, fino all'incomunicabilità e alla morte del ciclo conclusivo; itinerario segnato dalla preminenza del pedale di Si bemolle, il quale, in vari luoghi, rappresenta quasi un memento mori ineluttabile. Insistere quindi sull'antinarratività del teatro e ribadire la validità dei moduli compositivi della tradizione musicale del dopoguerra diviene oggi sospetto a mio parere di ideologia; anche perché nell' Outis, opera così carica di citazioni e di autocitazioni, Berio sembra non solo voler ammiccare al postmodernismo, ma soprattutto voler appropriarsi di una delle pratiche compositive oggi più di moda, per farla divenire così appannaggio di una specifica tendenza musicale, ormai storicizzata (quella alla quale egli appartiene), negando in tal modo la possibilità della sua concreta trasformazione stilistica in qualcosa di realmente nuovo e creativo.

 


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