Luciano Berio - Outis


Giovanni Piana
Riscoperta dell'allegorico


3. Appunti per una discussione
 

 
  • Non è facile liberarsi, nel trattare di Outis, dalle "veline" che Luciano Berio e Dario Del Corno propongono nel libro-programma intorno a quest'opera. Tanto questi scritti sono belli e ricchi di cultura [1]!
     

  • Non sembri questo un avvio troppo polemico. Vi è chi pensa, come norma di metodo, che non si debba tenere alcun conto delle cose scritte dagli artisti sulle proprie opere, mentre io credo che esse facciano parte del contesto in cui le opere stesse sono state progettate e dunque debbano essere prese in seria considerazione. Tuttavia il rischio che si abbassi la soglia dell'attenzione critica di fronte agli Auctores è sempre stato serio e oggi lo è più che mai. Inversamente, più che mai si sente il bisogno di parlare in tutta franchezza delle cose nostre – anche quando la franchezza, per ragioni magari estranee alla specificità dell'argomento – persino ci dispiace.
     

  • Anzitutto va detto che si presentano qui – sia sul piano teatrale che su quello musicale – situazioni che ci invitano ad una forte retrodatazione. A titolo di semplice e rapido esempio: si evoca un'opera famosa di un autore nato più di cento anni fa – proprio così: Vladimir Propp, Kiev, 1895. La morfologia della fiaba, a sua volta, essendo stata pubblicata nel 1928 è vicina a compiere i settanta anni; e questa evocazione non si presenta solo a titolo documentario nei testi di accompagnamento, ma direttamente nel primo ciclo di Outis con citazioni di fiabe che sembrano essere appiccicate lì per questo unico scopo. Nella frammentazione operata nell'azione scenica e nell'idea della costruzione modulare, si risentono poi motivi che appartengono all'interpretazione che molti musicisti diedero una quarantina di anni fa dello strutturalismo linguistico e della ripresa in ambito antropologico da parte di Lévi-Strauss. Si risente ciò che essi intesero; e anche ciò che essi fraintesero, magari con felice errore.
     

  • Il guardare indietro non è in se stesso un male, come molti continuano a credere. Tanto più se a guardare indietro è proprio Luciano Berio che è fra i protagonisti assoluti del nostro passato musicale. Il problema è un altro. Quest'opera pretende di essere una meditazione e una proposta sul futuro possibile del teatro musicale, ed allora le cose cambiano, e di molto. Già per questa sua pretesa, essa nasconde pesantemente il compito di cui essa stessa dimostra inintenzionalmente l'urgenza: che si rifletta più a fondo su questo passato proprio in vista di un autentico futuro possibile.
     

  • Ciò premesso, vorrei soffermarmi per dire poche cose su un solo aspetto che riguarda la scelta letterario-musicale che qui viene effettuata. Alludo naturalmente alla scelta "antinarrativa", "antisequenziale" – senza pretendere di affrontare il problema in grande, ma appunto secondo un'unica angolatura.
     

  • L'idea germinale era interessante – la musica produca essa stessa la "trama", e questa sia soprattutto un tessuto di immagini: questa è, in una parola, la proposta di Luciano Berio nel saggio intitolato Dei suoni e delle immagini. La musica come produttiva di immagini è una idea ricca di implicazioni, anzitutto sul piano teorico. Ma un' idea, per quanto interessante, nel teatro musicale non può bastare a se stessa. Il teatro ha le proprie esigenze – inutile baloccarsi sulla loro problematicità. Con esse ci si deve misurare – che è cosa diversa che farsene un balocco. Quanto alla critica della sequenzialità narrativa – certamente anch'essa non nuova – essa ha dato risultati indimenticabili che sono, come in Joyce, forgiati con l'assillo di una vita e che hanno dato luogo a nuove e ricercatissime coerenze, a personaggi di straordinaria vivezza e ricchezza, all'invenzione di nuove tecniche narrative, a rielaborazioni quanto mai profonde del vissuto temporale della narrazione.
     

  • Che cosa accade invece qui?
    Quando le prime parole dell'opera sono pronunciate:

  • Evò se meno, se meno ciùrimu

    e veniamo ad apprendere dalla chiosa che trattasi di lamento funebre in greco-salentino, sappiamo già che cosa ci attenderà lungo tutta l' "azione musicale".
     

  • L' "antinarratività" consisterà per lo più in uno svuotamento interno dei personaggi e degli eventi – i personaggi saranno ridotti al loro puro nome, marionette senza il teatro delle marionette – e ad essi verranno di volta in volta messe in bocca parole strane, che in realtà non riescono nemmeno ad incuriosire avendo la curiosità sempre bisogno di un contesto che la muova. Ciò di cui si sente subito la mancanza è proprio il contesto della curiosità . Qui e là affiora invece la bellezza di un verso, e si delineano dimensioni emotive che la musica sa sottolineare a fare emergere. Qui e là. All'interno di nonsensi ultrasapienti: sui quali, peraltro, lo spettatore è implicitamente dissuaso dal tentare un'interpretazione o un commento, di stabilire raccordi o collegamenti, di interrogarsi sul chi, il come e il perché. Lo si potrebbe fare soltanto per una sorta di generosità che potrebbe essere mal ripagata. Scatta infatti il congegno, anch'esso vecchiotto e malandrino, secondo il quale la stesura del testo è compiuta su presupposti tali da far sì che ogni domanda possa facilmente essere dimostrata falsamente impostata ed ogni commento erroneo.
     

  • Di questo congegno fa naturalmente parte il "si può dire tutto e il contrario di tutto". Il titolo parla chiaro. "Nessuno" non è un personaggio, essendo nessuno (ma pretende anche di esserlo). E gli altri personaggi non sono da meno. Se l'ascoltatore ingenuo tentasse una qualche caratterizzazione psicologica correrebbe il rischio di una pesante, quanto ingiusta, ridicolizzazione. È vero poi che una storia viene spiattellata chiara e tonda dal Suggeritore, e più volte, a dimostrazione dell'eterno ritorno. Si ha anche cura di non farlo cantare – ma parlare, perché quella storia possa essere da tutti udita. Ma questo Suggeritore non fa parte del Teatro, almeno credo, ma del Meta-Teatro... e quindi appartiene e non appartiene all'azione musicale. Infatti non canta.
     

  • Se mi si obbiettasse che in questo momento starei implicitamente parlando a favore del "libretto d'opera", questa obiezione non mi confonderebbe più di tanto. Non siamo al punto che si debba ancora polemizzare con il lieto fine. Le mie osservazioni tuttavia sono puntate in altra direzione. A me non sembra che ci si renda abbastanza conto che questo modo di affrontare il problema conduce, per una logica interna della ricezione e quindi indipendentemente dagli intenti costruttivi, ad una depressione delle cose e persone, azioni ed eventi, a pure e semplici allegorizzazioni. Il teatro antinarrativo così inteso riscopre l'Allegoria. Cosa serissima, peraltro. Che appartiene integralmente alla teoria ed alla storia dell' arte. Il punto è che non siamo sicuri che si volesse fare questa riscoperta. "Outis" è simile ad una macchinetta che distribuisce allegorie. Non c'è quasi dettaglio scenico che non abbia un senso allegorico o tanto esplicito da essere plateale – il supermarket, la borsa, il coro dei deportati – o suggerito come un enigma: di cui è impossibile, e del resto privo di interesse, venire a capo (la prima cosa, il proporre enigmi, fa parte della tradizione delle rappresentazioni allegoriche, la seconda no). Vi è l'Assassinio ovvero l'Assassino, il Padre ovvero la Paternità, Edipo, il Figlio e la Sposa, la Nave e il Viaggio, l'Impermeabile e la Valigia, il Regista e il Suggeritore, l'Amor Casto e l'Amor Profano, ecc. Poiché tuttavia questa circostanza non è riconosciuta, essa non viene esplicitamente tematizzata e tanto meno fatta propria e sottoposta ad un'efficace elaborazione. La sequenza di stilemi allegorici finisce così con l'avere assai meno senso dello squadernamento delle carte dei tarocchi, per quanto si possa nella costruzione e nel progetto tentare di far valere rapporti di coerenza immaginativa. E' infine appena il caso di dire quale sia l'impressionante spreco di archetipi immaginativi, di motivi che hanno in se stessi e nella tradizione letteraria una straordinaria potenza fantasmatica: basti pensare alla figura del Doppio, qui ridotto alla brutale letteralità di un raddoppiamento che ha quasi soltanto il senso deteriore di uno stratagemma teatrale per giustificare, con le resurrezioni di Outis, l'idea immensa della ciclicità del tempo.
     


Nota

[1] Insieme al libretto, per le edizioni del Teatro alla Scala, vengono pubblicati i saggi: L. Berio, Morfologia di un viaggio, pp. 37-38; Dei suoni e delle immagini, pp. 39-42; D. Osmond-Smith, Teatro senza narrazione, pp. 43-45; D. Del Corno, Nessuno, pp. 49-55. - ritorno al testo
 


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