Year: 2016

  • Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Il terzo ciclo all’interno del liber tibulliano dovrebbe essere, a rigor di logica, quello dedicato a Nemesi. La donna compare per la prima volta nella terza elegia del secondo libro e in forme più o meno fuggevoli occupa di sé tutti i componimenti da lì alla fine del libro, incluso il numero cinque, di fatto dedicato alla assunzione del figlio di Messalla nel collegio dei quindecimviri (ma in un fuggevole accenno finale, Tibullo sostiene di dover interrompere la composizione e non poter cantare oltre il giovane Messalla, perché troppo preso dal pensiero di lei). Eppure, quello che sosterrò ora un po’ provocatoriamente è che non esiste un vero ciclo di Nemesi, perché la donna, fedele al suo nome e alla funzione vendicativa che il suo nome suggerisce, in realtà non conosce nessuna delle evoluzione e dei passaggi previsti nelle puntate precedenti di questa rassegna tibulliana. Nemesi da subito, fin dalla sua prima apparizione, è un personaggio avido e desideroso di dona e di praeda. Questa immagine non conosce evoluzione, non conosce variazione. Delia, come abbiamo visto, dopo una menzione quasi casuale nella prima elegia del primo libro, diviene una figura dai tratti ben definiti, una sua storia, una continua interrelazione con il poeta, un’evoluzione in sé e nei suoi rapporti con Tibullo, che reagisce al di lei evolversi ma è anche motivo del di lei evolversi. Stessa cosa si può dire per Marato, pur nella specificità di quella situazione, e nella maggiore compressione dei tempi del suo sviluppo. Nemesi è invece sempre uguale a sé stessa. Nulla si può dire di lei, della sua vita, della sua persona, tranne che per due dettagli fugaci e non ben sviluppati che appaiono, guarda caso, nell’elegia conclusiva del ciclo e del libro: uno è la sua natura fors’anche onesta, ma viziata dalla presenza della solita ruffiana (un’idea che Tibullo aveva già sviluppato nel caso di Delia, e sulla quale quindi ora non insiste troppo, ma che, stando nel finale del libro, ci consegna il solito Tibullo incerto e titubante, che anche dopo aver preso risoluzioni drastiche è sempre disposto a tornare sulle scelte fatte); l’altro è il riferimento a una sorella morta in circostanze drammatiche. Un dettaglio, questo, che è di quelli che non si inventano e non appartengono a un topos narrativo: cosicché è l’unico dato reale, o almeno realistico, della biografia di questa donna, l’unico elemento che ci assicura trattarsi di una persona fors’anche davvero esistita, e non solo di un simbolo. Ma non è come persona reale che la tratta normalmente Tibullo: Nemesi per lui è una funzione narrativa, e le funzioni narrative, si sa, non hanno storia, non hanno evoluzione.

    Chi è allora il vero protagonista del libro? Ecco la mia idea: sono i rura, intesi come immagine della campagna che il poeta si è autoproiettato all’interno delle sue elegie, e che ama proiettare al lettore. Rispetto a questo tema, Nemesi è solo subordinata: è l’elemento necessario a creare l’evoluzione del racconto e a dare alla storia una parvenza esteriore di vicenda amorosa, come si compete all’elegia. Se sette sono, come indicato nelle puntate precedenti, i passaggi obbligati di una buona storia d’amore, Nemesi non conosce che gli ultimi due, o meglio conosce solo la sesta tappa (quella della diffidenza reciproca), perché anche la settima non è così sicura (il discidium forse ci sarà, forse no; e comunque, se ci sarà, non potrà richiamarsi nostalgicamente a un tempo felice che non è mai esistito). Non cosi per i rura. Nel primo libro essi sono un ideale di vita, entro il quale naturalmente deve starci anche un amore a-problematico con una puella che eserciti le funzioni della perfetta domina rustica e si faccia compagna di vita; poi, essi diventano il contenitore ideale per la specifica storia d’amore con Delia (I 2 e I 5), vista prima come possibile – finché Delia è una sposa possibile – poi come impossibile e perduta, quando Delia si rivela inaffidabile, dedita solo alla ricerca di un guadagno immediato. Ma essenziale è quanto ho appena detto della elegia proemiale: nella quale i campi sono un contenitore di per sé stessi, un luogo dove sarebbe bello vivere, meglio ancora se con una domina da tenere al fianco, specie nelle lunghi notte invernali; elemento tuttavia non indispensabile, dal quale non dipende la bellezza della vita in campagna, anche se la corona e completa. La bellezza dei campi sembra qui piuttosto corrispondere all’ideale antico di una vita semplice ma autosufficiente, in una proprietà di dimensioni sufficienti per avere pascua, messes, una silva e, soprattutto, una pubes agrestis (I 1) che poi si specificherà come turba vernarum (gli schiavi nati in casa, I 5 e II 1: quindi, anche i loro genitori dovevano essere schiavi domestici e la familia si rivela abbastanza ampia per esentare il dominus dal lavoro in prima persona, salvo che come vagheggiamente e possibilità non concreta, da fare interdum e senza troppa convinzione).

    L’elegia I 1 non racconta una realtà, ma un sogno, vuoi perché Tibullo vive in città (come si apprende dall’elegia successiva: e lì sta anche Delia, tutt’altro che la rustica domina vagheggiata in precedenza), vuoi perché il poeta è al seguito di Messalla, come gli capita più volte nel corso del liber. L’elegia delinea un traguardo, non un dato biografico: qualcosa di inattuato (non però di inattuabile: le forme al congiuntivo sono sempre al presente), verso il quale aspirare, ma che è lontano da sé. Le elegie per Delia specificano meglio questa idea, subordinando la conquista della campagna alla conquista di Delia, cosicché il fallimento della storia amorosa provoca l’allontanamento dalla vita nei campi. Questi tornano a farsi presenti nell’elegia I 10, l’ultima del primo libro, che chiude così circolarmente il percorso iniziato nell’elegia proemiale. Qui Tibullo si dice richiamato in guerra (v. 13 nunc ad bella trahor), e ciò lo pone di fronte al dilemma se abbandonare o meno ogni sogno di vita in campagna. Di fronte alle due possibilità, opta per mettere da parte la vita militare. Sceglie la campagna e la pace che (Vergilius docet) alla campagna normalmente si associa. Diciamo che questo potrebbe essere, stando allo schema indicato nelle puntate precedenti, il momento della scelta per i campi, non solo quello del loro vagheggiamento amoroso (I passo, coincidente qui con l’elegia I 1), ma anche del loro “corteggiamento” (II passo) e del desiderio di conquista.

    Nell’elegia proemiale del secondo libro (II 1) il tono cambia totalmente. Ora Tibullo è un vero proprietario terriero, che vive fra i suoi poderi, ne controlla la coltivazione, vi compie le dovute cerimonie religiose, estende perfino il suo ruolo ai vicini, che invita alla festa con il fare di un patronus che si rivolge ai suoi clientes. Se anche il campo è povero (l’ideale dei pauca iugera, del relictum solum, che era proprio già di Virgilio) basta a soddisfare i suoi bisogni e a conferirgli dignità. E’ il momento della pienezza della passione. Non ci sono ombre in questo ritratto; e non ci sono nemmeno donne. C’è una villica senza nome, che com’è giusto accompagna il dominus nelle cerimonie e le completa per la parte di sua competenza. Ma che non è né Delia né Nemesi: è la giusta e santa madre dei legittimi figli, quella che Delia avrebbe potuto divenire, ma Nemesi non potrà mai essere. Perfino Amore, il dio, in questo contesto diventa inoffensivo. Egli, dice Tibullo, è nato in campagna (una variazione mitografica, per quanto ne sappiamo), e quindi risparmia il mondo dei campi. Non che non vi si faccia sentire, ovviamente. Ma agisce senza drammi, senza ferite. Tutto è pacificato, perfino lui.

    Su questo grande idillio piomba poi Nemesi. Ci piomba dall’esterno, come il dives amator di Delia, come Foloe nella vita di Marato. Con Nemesi, piomba anche una scoperta inattesa: anche i campi sono soggetti a quella “legge economica” che si era vista per Delia e per Marato. Nella prima elegia che la nomina (II 3), Nemesi è infatti in campagna. Ma non la campagna dell’Io poetico, bensì quella di un altro, un rivale, un dives (anzi ditior) amator, che in questo caso è un ditior possessor. Se i campi possono essere considerati un soggetto economico, motivo per attirare puellae, possibile fonte di praedae e di dona, ne consegue che chi più ne possiede, più ha speranze in amore. La campagna, cioè, non è più un rifugio e una garanzia di pace: lo è solo se è ricca. La campagna è una (fonte di) praeda per le puellae insaziabili, non l’innocuo recipiente di amori spassionati. E’ fonte di dona, che non possono però più essere i semplici frutti di una terra più o meno povera: devono essere i soldi necessari a comprare vesti, oro, gioielli, prodotti cosmetici. E dunque, devono produrre denaro, o convertirsi in denaro. Fine dei pauca iugera, fine dei sogni (virgiliani) di autarcheia e di inemptae dapes. Fine anche della dignità sociale conferita – secondo il sentire romano – solamente dal possesso dei campi!

    Per ottenere denaro liquido, i campi vanno venduti: è quello che, paradossalmente, Tibullo propone nell’elegia I 4. E poco importa se così se ne vanno anche la libertà e la dignità ereditate dagli avi; convertiti in denaro liquido, i campi possono essere re-investiti in vesti, oro, gioielli ecc. Tutte le cose che Nemesi (e tutte le Nemesi del mondo) possono davvero desiderare. Nell’ultima elegia (II 6) i campi non tornano praticamente più, se non come immagine figurata. Il discidium da loro si è ormai consumato. Tibullo torna a porsi il problema se la sofferenza amorosa possa essere vinta con la vita militare: lo stesso dilemma che chiudeva il primo libro, ma che ora riceve una risposta opposta alla precedente. Sì, la milizia è una buona cura; non per sé, che non la saprà mettere in atto, ma per altri sì. Del potere dei campi, della pace, della vita tranquilla e sicura qui non si parla. Tibullo sceglierà di restare vicino a Nemesi, perché sa di essere debole e perché come tutti gli amanti è dominato dalla Speranza – una divinità che illude sempre, ma alla quale non sfugge nessuno: non lo schiavo che canta alla catena; non il pesce che si lascia prendere all’amo; non il contadino che affida i semi ai solchi. committere semina sulcis è frase tibulliana, ed era frase virgiliana. E’ l’atto stesso della coltivazione, atto di speranza e di fiducia. Che nella prima elegia del primo libro, all’inizio del percorso, era vista come una realtà sicura e garantita: si semina, e ne proviene una messe; si semina, e si attende la vendemmia. Qui, invece, viene negata la legge stessa; peggio, la si irride; peggio: la si trasforma in exemplum di un comportamento folle e irrazionale, e poco importa che sia la scelta del poeta, la sua debolezza estrema. Corrotti dall’oro e dall’umana cupidigia, i campi sono divenuti qualcosa di estraneo da sé, qualcosa da cui allontanarsi. La distanza dalla prima elegia, e dall’ideale romano, non potrebbe essere maggiore.

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Guida alla certificazione latina I

    Guida alla certificazione latina I

     

    Mercoledì 27 aprile si sono svolte le prove della certificazione latina 2016, che ora sono in fase di correzione. I testi e gli esercizi proposti sono però già disponibili sul sito dell’USR della Lombardia, e allora, in attesa degli esiti, è possibile ragionare un poco sull’intera operazione, così da valutare gli esercizi che la costituivano, come ci si sarebbe dovuti preparare ad affrontarli o come bisognerebbe preparare gli studenti ad affrontarli, quale ricaduta didattica essi possono avere. Incominciamo dal livello B e dalle prove di quel livello, esaminandole una per una. Questo post lo dedico all’esercizio 5 della prova B1, che coincideva con l’esercizio 1 della prova B2.

    Il testo proposto narra la morte di Ciro, ad opera di Thamyris (Tàmiri, detta anche Tòmiri), regina degli Sciti (o dei Massageti), alla quale Ciro aveva precedentemente ucciso il figlio. Il mito, raccontato da Erodoto, ha poi tutta una serie di riprese sia fra gli autori greci che fra gli autori latini. Quella che leggiamo è la versione di Orosio, della quale si ricorda anche Dante, nel XII canto del Purgatorio. Il celebre ritratto di Andrea del Castagno e un dipinto di Rubens costituiscono un’ulteriore testimonianza  della fama della vicenda.

    Tomyris-Castagno

    (Andrea del Castagno)

    Tomiris

    (Rubens)

     

    Ecco dunque il testo di Orosio:

     

    Cyrus proximi temporis successu Scythis bellum intulit. Quem Thamyris regina, quae tunc genti praeerat,cum prohibere transitu Araxis fluminis posset, transire permisit, primum propter fiduciam sui, dehinc propter opportunitatem ex obiectu fluminis hostis inclusi. Cyrus itaque Scythiam ingressus, procul a transmisso flumine castra metatus, insuper astu eadem instructa vino epulisque deseruit, quasi territus refugisset. Hoc conperto regina tertiam partem copiarum et filium adulescentulum ad persequendum Cyrum mittit. Barbari, veluti ad epulas invitati, primum ebrietate vincuntur, mox revertente Cyro universi cum adulescente obtruncantur. Thamyris exercitu ac filio amisso vel matris vel reginae dolorem sanguine hostium diluere potius quam suis lacrimis parat. Simulat diffidentiam desperatione cladis inlatae paulatimque cedendo superbum hostem in insidias vocat. Ibi quippe conpositis inter montes insidiis ducenta milia Persarum cum ipso rege delevit, adiecta super omnia illius rei admiratione, quod ne nuntius quidem tantae cladis superfuit. Regina caput Cyri amputari atque in utrem humano sanguine oppletum coici iubet, non muliebriter increpitans: “Satia te”, inquit, “sanguine quem sitisti, cuius per annos triginta insatiabilis perseverasti”.

    La prova prevedeva di scegliere, fra tre riassunti in gran parte molto simili, quello giudicato più esatto e preciso. L’esercizio ovviamente mira a verificare la capacità di comprensione del brano da parte dei suoi lettori, senza passare necessariamente dalla traduzione di tutto il testo. In fondo, quando leggiamo un romanzo in una lingua moderna, non comprendiamo di norma tutte le parole di ogni pagina; ma se vogliamo leggere il romanzo, di ogni pagina dobbiamo capire il senso generale, altrimenti la lettura non procede. Nel predisporre le prove si è scartata l’idea di richiedere un riassunto del brano direttamente ai candidati, perché questo avrebbe messo in gioco in misura troppo forte una serie di abilità, pur importanti e imprescindibili (come cogliere il punto centrale della narrazione; saperlo esprimere in italiano corretto ecc.) che esulano dalla competenza specifica della lingua latina. Queste competenze, naturalmente, non possono essere del tutto azzerate, perché fanno parte della nostra capacità di intendere un testo, qualunque testo, in qualunque lingua lo si legga: ma il loro dispiego andava ridotto il più possibile, e così si è cercato di fare. In una classe, al contrario, si potrà pensare di esercitare i ragazzi facendo sviluppare a loro stessi il riassunto dei brani proposti. Lo vedo anzi come un compito prioritario delle letture in latino: trasformare i testi tradotti in narrazioni (o in argomentazioni) continue, che abbiano un senso e una logica, che, come disse uno studente anni fa, “trasformino le versioni in storie” (o in argomentazioni): perché i ragazzi odiano le versioni, ma sono attratti dalle storie e dai ragionamenti sensati. Passo successivo dovrà essere, poi, quello di insegnare a riconoscere che ci sono delle ricorrenze nella struttura dei brani, e che riconoscere quelle ricorrenze vuol dire essere in grado di capire l’andamento della storia (o del ragionamento) senza bisogno di ricorrere alla sua traduzione puntuale – esattamente come facciamo quando leggiamo in una lingua moderna.

     

    Quelli che vi riporto sono i sommari proposti:

     

    Di impresa militare in impresa militare, Ciro arriva in Scizia. Lì regna la regina Tamiri, che attende il momento propizio per predisporre un agguato al nemico invasore, e perciò lascia che entri indisturbato nel regno. È invece Ciro a preparare un tranello agli Sciti. Tamiri vi perde parte dell’esercito e il figlio. Assorbito lo smacco, medita vendetta e predispone la propria imboscata, indietreggiando. Ciro vi cade in pieno, e muore in combattimento. Tamiri ne deturpa il cadavere e gioisce della vendetta

     

    Di impresa militare in impresa militare, Ciro arriva in Scizia. Lì regna la regina Tamiri, che non si preoccupa troppo dell’invasore, e perciò lascia che entri indisturbato nel regno. È invece Ciro a preparare un tranello agli Sciti. Tamiri vi perde parte dell’esercito e il figlio. Assorbito lo smacco, medita vendetta e predispone la propria imboscata, incalzando il nemico. Ciro vi cade in pieno, e muore in combattimento. Tamiri ne deturpa il cadavere e gioisce della vendetta.

     

    Di impresa militare in impresa militare, Ciro arriva in Scizia. Lì regna la regina Tamiri, che prima non si dà pensiero dell’invasore, poi attende il momento propizio per predisporre un agguato al nemico invasore. Fino ad allora, lascia che entri indisturbato nel regno. È invece Ciro a preparare un tranello agli Sciti. Tamiri vi perde parte dell’esercito e il figlio; inizia perciò a indietreggiare impaurita, finché Ciro non cade a sua volta in pieno in un’imboscata e muore in combattimento. Tamiri ne deturpa il cadavere e gioisce della vendetta.

     

    Che tipo di lavoro si può fare di fronte a un esercizio del genere? Io penserei che, dopo aver letto il brano di Orosio, il lavoro sia da svolgere inizialmente sulle tre parafrasi. È evidente che presentano alcune parti comuni e talune divergenze. La frase iniziale, ad esempio, è identica in tutte e quindi non merita particolare attenzione. In una collazione dei tre sommari, due punti emergono come luoghi di differenziazione fra testo e testo. Nella seconda frase si legge infatti (ho evidenziato in rosso le differenze):

     

    Lì regna la regina Tamiri, che attende il momento propizio per predisporre un agguato al nemico invasore, e perciò lascia che entri indisturbato nel regno

    Lì regna la regina Tamiri, che non si preoccupa troppo dell’invasore, e perciò lascia che entri indisturbato nel regno

    Lì regna la regina Tamiri, che prima non si dà pensiero dell’invasore, poi attende il momento propizio per predisporre un agguato al nemico invasore. Fino ad allora, lascia che entri indisturbato nel regno

     

    Dopo di che, dopo una parte ancora comune, relativa all’agguato predisposto da Ciro, alla morte del figlio di Tamiri e alla decisione di vendicarsi presa dalla regina, ecco ancora delle differenze nel descrivere la tattica adottata dalla donna:

     

    – …medita vendetta e predispone la propria imboscata, indietreggiando

    – … medita vendetta e predispone la propria imboscata, incalzando il nemico

    – …inizia perciò a indietreggiare impaurita

     

    Il finale è di nuovo identico in tutte le versioni. Due sono allora i punti di snodo: Tamiri lascia avanzare Ciro nel suo regno perché attende il momento propizio per attaccarlo (evidentemente fiduciosa che un momento del genere prima o poi ci sarà), oppure perché noncurante? Ammetto che la differenza può essere sottile, anche molto sottile, e andrà strettamente calibrata. Nel secondo caso, le tattiche sono più marcatamente diverse: nel primo e nel terzo riassunto, infatti, Tamiri indietreggia, nel seconda avanza e incalza gli invasori. A fare la differenza fra il primo e il terzo riassunto è l’atteggiamento della regina: già decisa alla vendetta in un caso, impaurita nell’altro. Qui le differenze non sono troppo sottili…

     

    Ora si tratta di cercare i corrispondenti passaggi nel testo. Naturalmente, bisognerebbe poter entrare nella mente di ogni lettore, nella sua capacità di cogliere le sfumature della lingua, di suddividere le frasi. Non essendo in grado di farlo, mi limito a segnalare i punti che do per sicuramente riconosciuti: la prima distinzione si riferisce all’avere lasciato passare Ciro primum propter fiduciam sui, dehinc propter opportunitatem ex obiectu fluminis hostis inclusi; la seconda, al fatto che la regina simulat diffidentiam desperatione cladis inlatae paulatimque cedendo superbum hostem in insidias vocat. A questo punto si tratta di interrogarsi sulle parole latine: il fatto che Tamiri abbia da subito in mente di poter contare sulla fiducia sui e sulla opportunitas locorum (primum…dehinc sono ragioni che si sommano all’interno di un piano strategico, non reazioni diversificate da una distinzione di piani temporali) è espressione di noncuranza o di baldanza? E il simulare diffidentiam cedendo a quale delle tre strategie evocate prima corrisponde? Il verbo cedere impedisce di pensare a un inseguimento delle truppe di Ciro, dunque il riassunto numero 2 è sicuramente da scartare. La fiducia sui sembra espressione di baldanza più che di noncuranza; l’avere in mente da subito una strategia pure; il simulare diffidentiam implica che Tamiri si finga impaurita, ma non lo sia (come insegniamo tutti a lezione, simulare è fingere ciò che non esiste; dissimulare nascondere ciò che esiste). Il che esclude, mi pare, anche il riassunto numero 3. Dopo di ciò, la scelta è fatta!

     

    Fin qui ho descritto le operazioni che si immaginano debba fare lo studente. Ma il docente? Il docente può decidere di adottare abbastanza abitualmente un esercizio del genere o, come dicevo, lo può perfezionare e realizzare in forme leggermente diverse, facendo costruire i riassunti direttamente ai ragazzi, oppure concentrando l’attenzione e le domande su un singolo punto, che gli sembri particolarmente importante, del racconto. Quello che trovo essenziale è che l’insegnamento punti a cogliere il cuore del ragionamento proposto dal brano: nel nostro caso, l’eccessiva sicurezza di Tamiri, che è la causa prima della morte del figlio, esposto allo scontro con un avversario più astuto di lui; poi, il fatto che, una volta sentitasi sfidata da Ciro, quella stessa sicurezza che la caratterizzava da sempre abbia portato all’adozione di uno stratagemma vincente in cui adesso è l’altro, insuperbito dalla vittoria e dal precedente così facilmente risolto, a cadere a capofitto. Una tragica gara tra furboni, insomma, nella quale Orosio mette in evidenza una serie di meccanismi psicologici di un certo interesse. Su questo si potrà ulteriormente lavorare in seguito, così da rendere il testo motivo di qualche ulteriore curiosità.

     

    Ci sono altre possibilità di lavoro analogo? Qualunque testo, naturalmente, si presta all’esercizio proposto. È invece vero che mancano, a mia conoscenza, repertori di prove in grado di aiutare gli insegnanti. E allora, ecco la mia idea. Questo sito è nato per condividere materiale e proposte, didattiche e non. Se ognuno di noi utilizza la funzione “leave a reply” presentando un testo e tre riassunti costruiti a questo modo, in breve avremo un meraviglioso repertorio di esercizi, a disposizione di tutti. Io stesso do il buon esempio, caricando un esercizio analogo proposto in un certamen di un liceo milanese. Ma attendo fiducioso altre prove, altre proposte…

     

     

     

     

  • A modest proposal

    A modest proposal

    A differenza di Swift, non sono sicuro che quanto vengo proponendo si possa definire «un metodo onesto, facile e poco costoso, atto a rendere i giovani parte sana ed utile della comunità» – e anzi, non sono sicuro che non si tratti da parte mia di un peccato di hybris. Fornisco però un possibile percorso didattico, sperimentato con qualche successo nelle aule universitarie, fra studenti dell’esame di latino per non specialisti. Può funzionare anche nelle scuole? Mi piacerebbe che qualcuno dei lettori di questo sito, se ci sono lettori di questo sito, lo verificasse dal vivo, e facesse sapere il proprio giudizio. Assieme, è possibile elaborare altri percorsi e altre proposte; da soli, ognuno combatte la propria battaglia. Non è necessariamente un male: ma forse, oggi più che mai, sapere dove vogliamo andare può essere un aiuto per tutti.

    Alla parte pratica di commento hanno collaborato Letizia Forte (per gli esercizi) e Luciana Preti (per le note di lessico), che qui ringrazio.

     

    Valerius Maximus, Facta et Dicta Memorabilia III.1.1 – De indole

    Aemilius Lepidus, puer etiam tum, progressus in aciem hostem interemit, civem servavit. Cuius tam memorabilis operis index est in Capitolio statua bullata et incincta praetexta senatus consulto posita: iniquum enim putavit eum honori nondum tempestivum videri, qui iam virtuti maturus fuisset. Praecucurrit igitur Lepidus aetatis stabilimentum fortiter faciendi celeritate duplicemque laudem e proelio rettulit, cuius eum vix spectatorem anni esse patiebantur: arma enim infesta et destricti gladii et discursus telorum et adventantis equitatus fragor et concurrentium exercituum impetus iuvenibus quoque aliquantum terroris incutit, inter quae gentis Aemiliae pueritia coronam mereri, spolia rapere valuit.

     

    PRESENTAZIONE (a cura del docente)

    Valerio Massimo e Livio raccontano come due figure ‘socialmente deboli’ del mondo latino, un bambino e una donna, avessero potuto essere insignite dell’onore di una statua, gratificazione per lungo tempo negata agli uomini di Stato, che se ne potevano altrimenti troppo insuperbire…

    La prima storia è quella della statua concessa dal Senato (senatus consulto posita) per onorare il giovane Emilio Lepido (non sappiamo di chi esattamente si tratti; la famiglia è ben attestata, e ha una sua rilevanza fino all’età augustea), che, avendo partecipato a un combattimento non meglio specificato in una guerra non meglio precisata, prima di avere l’età per essere ufficialmente arruolato, non solo non si era spaventato, ma anzi si era guadagnato una serie di riconoscimenti uccidendo un comandante nemico (di cui aveva quindi riportato gli spolia, l’armatura divenuta sua per diritto di vincitore), salvando anche la vita a un concittadino (dal che la corona civica, una sorta di equivalente dell’odierna medaglia al valore). Il Senato, però, aveva voluto che la statua, posta sul Campidoglio (il colle sacro di Roma) esibisse in bella evidenza i segni della pueritia di Emilio, effigiando il giovane con al collo la bulla, l’amuleto prima di cuoio, poi di cuoio o di oro, a seconda del ceto dei genitori, che i ragazzi portavano come protezione contro i rischi e i pericoli della vita (vedi immagini nrr. 1 e 3); e, con la bulla, aveva voluto che Emilio indossasse nella sua effigie anche la toga praetexta, cioè la toga intessuta (texta) intorno all’orlo (prae-) di un filo rosso, simbolo dell’inviolabilità del bambino [la toga praetexta era infatti portata anche dai magistrati durante l’esercizio delle loro funzioni, vedi immagine nr. 2, peraltro una ricostruzione al computer].

    Valerio è un retore della prima età tiberiana, che scrive per i retori, perché nelle loro orazioni (o negli esercizi all’interno delle scuole di retorica) essi possano trovare facilmente degli exempla da riutilizzare. Per questo la sua raccolta, Facta et dicta memorabilia, è organizzata per virtù, tutte ben evidenziate e catalogate, così da essere facilmente sfruttabili. Il libro terzo si apre con un capitolo, intitolato De indole (indolis, come ingenium, è la somma delle qualità innate di una persona) che dà voce al topos del puer senex (come lo chiamerà Curtius nel 1948): bambini cioè che, già nei loro primi anni di vita, mostrano le caratteristiche che li contraddistingueranno da adulti, e rivelano dunque una cura virilis. I casi addotti da Valerio sono tre: Catone Uticense, inflessibile già a quattro anni; Cassio, che medita il tirannicidio fin dai banchi di scuola; e, appunto, Lepido, intrepido sin dalla sua prima fanciullezza.

    Valerio enuncia subito il thema del suo racconto, ossia il suo argomento. Nel finale, riprende circolarmente le stesse idee espresse nella prima frase, solo con una variazione nell’esposizione a chiasmo delle azioni di Emilio e nel passaggio dal concreto (Aemilius Lepidus etiam tum puer) all’astratto (gentis Aemiliae pueritiae = Aemilius Lepidus puer); una piccola variazione si osserva anche nell’indicazione delle gesta del ragazzo, cui nel finale si sostituiscono le ricompense pubbliche ricevute per quelle stesse gesta (hostem interemit = spolia rapere valuit // civem servavit = coronam civicam mereri valuit). Dopo l’esposizione del thema, Valerio offre, come prova di quanto dice (index: lett. ‘accusa/accusatore’, quindi anche ‘prova provante’ a favore dell’accusa o, come qui, di una precedente affermazione, ora confermata nei fatti), la menzione della statua di Emilio posta sul Campidoglio, della quale offre una breve descrizione (la statua è perduta, ma il basamento è ancora visibile nei Musei Capitolini). Il resto è pura retorica.

    nerochildtoga praetextapuer bullatus

    immagine 1 = statua di Nerone bambino, con la bulla e la praetexta

    immagine 2 = ricostruzione al computer di statua di magistrato, con la praetexta

    immagine 3 = statua di bambino, con bulla e praetexta

     

    COMMENTO TESTUALE (a cura del docente)

    Struttura del testo
    Il passo si apre con l’esposizione dell’argomento che verrà poi trattato, il thema come si è detto, che poi, con elegante variatio e passaggio dal concreto all’astratto, è ripreso circolarmente nella frase finale, a chiasmo, così da validare tutto il racconto contenuto fra questi due estremi. Nella prima frase si nota una costruzione per cola paralleli, Aemilius Lepidus // puer etiamtum // progressus in aciem (dove la ripresa del nominativo a inizio di ogni colon segnala il parallelismo delle frasi) // hostem interemit / civem servavit (struttura paratattica in asindeto delle due azioni, i cui termini sono disposti in perfetto parallelismo). Nella seconda frase si notano la dislocazione a sinistra del tam memorabile opus (ciò che interessa il racconto), cui corrisponde quella a destra dell’autorità che sancisce l’affermazione, alias il senato (senatus consultum = termine del linguaggio giuridico). In mezzo, si trova la più banale descrizione della statua, con l’indicazione della sua collocazione e la descrizione degli ornamenti che la caratterizzano. Nella terza frase il senato, ultimo termine citato nella proposizione precedente, resta soggetto logico della prima parte del periodo (putavit), lasciando però poi progressivamente il posto al vero protagonista del racconto, Emilio Lepido (qui iam maturus fuisset, relativa al congiuntivo perché subordinata di secondo grado, esprimente il punto di vista dei senatori votanti la statua). Da osservare l’uso del termine honos, che anticipa il successivo laudes, cui fondamentalmente corrisponde, e l’evidenza concessa con la dislocazione a sinistra al giudizio di valore, iniquum. Infine, si osservi il gioco di parole implicito nell’uso di virtus (la capacità di un vero vir), assegnata a un puer etiam tum (“ancora bambino”). La quarta frase concede la dislocazione a sinistra al verbo principale, praecucurrit, contro l’uso finora visto come comune. Si enfatizza così il ruolo del verbo, che già indica di per sé una corsa, una gara, una velocità nel raggiungimento di qualcosa (qui lo stabilimentum aetatis = stabilis aetas, a sua volta variante di firmata aetas, come la chiama ad esempio Virgilio nell’egloga quarta [cum te firmaverit aetas]), e cioè l’età matura, indicata con termine astratto derivato dall’aggettivo verbale connesso al verbo stare = “rimanere fissi, fermi, immobili”, così da anticipare l’idea di un Emilio che non fugge, come sarebbe stato legittimo data l’età, di fronte a ciò che aliquantum terroris incutit, ma che con la rapidità del suo crescere anzi tempo anticipa la saldezza dell’età matura (con una simpatica contrapposizione fra termini di movimento e termini di stabilità). Viene così anticipata l’idea, enfatizzata dal complesso della frase, di una celeritas del ragazzo nel fortiter facere (costrutto allitterante, di tradizione epica). Il richiamo successivo alla duplex laus riporta alle due imprese gloriose di Emilio; l’idea che, data l’età, già sarebbe stato glorioso essere anche solo spectator, e non addirittura actor, della battaglia è a sua volta enfatizzata dall’utilizzo del nomen agentis in –tor, connesso però alla radice di un verbo che definisce un ruolo puramente passivo, che Emilio ha già lasciato alle sue spalle. Quinta frase: qui si trova un semplice elenco di termini, spesso costituiti da sostantivo + aggettivo disposti a chiasmo fra loro (ad es. arma infesta // destricti gladii), in generale tutti intesi a rievocare le varie fasi di una battaglia. La legge della variatio e quella della amplificatio fanno sì che da semplici termini in accumulo si passi progressivamente a nessi e iuncturae sempre più elaborate e sonanti (es. concurrentium exercituum impetus, con forte insistenza del suono cupo in -u-). I termini sono in generale di valore tecnico. Gli arma iniziali si specificano in gladii (“spade”) e tela (“armi da lancio, indifferenziate nella tipologia”, frecce, giavellotti e quant’altro possibile); dalla generica attribuzione di essere infesta (“in mano ai nemici” => “nemici essi stessi”), si passa alla più precisa idea dell’essere snudati e tenuti in pugno (destricti), oppure lanciati (discursus, che anticipa le immagini successive di eserciti in corsa, prima la cavalleria al galoppo, poi la fanteria all’inizio dell’assalto). Il finale (sesta frase) ricorda, dopo l’insistito costrutto del genitivo partitivo (aliquantum terroris), che Emilio non si fece spaventare, sottolineando ancora una volta il suo valore (valuit) e gli effetti che ne conseguirono: salvare la vita a un concittadino, ottenendo così la corona civica; uccidere il (capo?) nemico, riportandone a casa gli spolia. Il racconto, come si vede, è concentrato e si riassume in queste due azioni. Il resto si può considerare una sorta di grande variazione sul tema, in modo tale da renderne possibile l’utilizzo come exemplum retorico, indirizzando già anche il lettore all’uso che se ne poteva fare.

     

     

    ANALISI LESSICALE (a cura del docente, in collaborazione con la classe)

    Lessico delle età
    Come dimostra il testo di Valerio, i Romani hanno una distinzione fra le diverse età che si fonda più su rapporti giuridici che su una misura anagrafica. Ecco allora le principali distinzioni evidenziabili:
    infans = ‘bambino ancora privo di parola’
    puer = ‘bambino in età pre-puberale, non ancora arruolabile, né soggetto a giurisprudenza, protetto dalla bulla contro gli spiriti malvagi, e caratterizzato dalla toga praetexta che ne indica l’impunibilità
    iuvenis = ‘giovane in età da combattimento’, secondo gli antichi etimologicamente connesso al verbo iuvare (iuvenis, qui iuvat rem publicam, ‘chi difende la patria [impugnando le armi]’)
    vir = ‘uomo adulto’, ‘maschio’, combattente e abile alla riproduzione (=> vir = ‘marito’, detto da una donna)
    senex = ‘uomo ritiratosi dalla vita attiva’ (secondo gli antichi etimologicamente connesso a senium, ‘abbandono, degrado’); da senex => senatus, originariamente l’assemblea degli anziani

    Altro lessico
    acies = ‘punta’, ‘schiera militare’ (a punta), ‘esercito’, cfr. acus, “l’ago” e il verbo acuere, ‘aguzzare’; l’aggettivo acutus; e, ancora, parole come acumen (ital. acume) e acer, acerbus, acerbitas.
    consulere = “provvedere / prendere provvedimenti”, da cui [senatus] consultum nel nostro testo, ma anche consilium (l’assemblea degli ufficiali nell’esercito romano, distinta dalla contio, che è l’assemblea di tutti i soldati, che devono lasciare agli esperti il compito delle decisioni), e consul, la massima carica amministrativa, colui che provvede all’ordinaria amministrazione, il potere esecutivo
    emere = ‘prendere e portare legittimamente via’ => ‘comprare’, da cui anche adimere, demere, ma soprattutto eximere ed interimere.
    gradior = ‘marciare’, da cui – a detta degli antichi – l’epiteto di Marte Gradivus, ‘il Signore [degli eserciti] in marcia; ma anche gradus, ‘gradino’; gressus (‘passo’), con i derivati ingressus; regressus; aggressus e congressus, e i rispettivi verbi ingredior, regredior, aggredior, congredior, e poi anche degredior, digredior, egredior. Nella tradizione musicale, si ricorda il Gradus ad Parnassum (Muzio Clementi, 1817 => Claude Debussy, Children’s Corner, 1908).
    incutere = ‘battere contro’, e per traslato ‘infondere [per percussione]’, composto di in + quatere, ‘scuotere’: cfr. i termini connessi alla stessa radice concutere, percutere, excutere, e i sostantivi concussio, discussio, percussio, percussor, excussio
    index = ‘accusatore’, in connessione a indicare = ‘accusare’ (in- + dicare = ‘consacrare con ostilità’)
    infestus = “ostile, nemico, dannoso” (<= in + fendere, lett. ‘che colpisce addosso’)
    mereri = ‘guadagnare’, da cui anche meritum. La frase mereri stipendium [in cui stips = ‘piccola moneta’ => ‘guadagno’] allude alla paga del soldato, dunque al periodo della sua ferma
    tempestas = ‘circostanze di tempo’, ‘tempeste, tempo cattivo’, in connessione alla stessa radice di tempus, e ai derivati intempestivus (relativo al tempo cronologico, inopportuno), intempestivitas, intempestus (relativo al clima sfavorevole, buio, ecc.)

     

     

    TESTI PARALLELI (da discutere con la classe)

    E.R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, Bern 1948 (trad. ital. Firenze 1992), p. 115

    TOPICA 8 – GIOVANE E VECCHIO

    Questo topos ebbe origine dalla situazione spirituale della tarda Antichità. In generale le civiltà, al loro inizio ed al loro apogeo, apprezzano i giovani e nel contempo onorano la vecchiaia. Ma è proprio delle fasi tardive di una cultura il foggiare una figura umana ideale in cui la polarità fra gioventù e vecchiaia tende alla compensazione. Cicerone (Cato maior 11, 38) dichiara: ut enim adulescentem, in quo senile aliquid, sic senem in quo est aliquid adulescentis, probo. Virgilio (Eneide IX 311) vanta il carattere maturo del giovinetto Iulo: ante annos animumque gerens curamque virilem. Alla fusione di carattere maturo e di doti giovanili nello stesso individuo Ovidio annette il valore di dono celeste concesso solo ai regnanti e ai semidei (ars I 185-86). Valerio Massimo (III 1,2) elogia Catone per aver posseduto già da ragazzo la nobile gravità del senatore. Stazio (Silvae II 1,40) precisa, nell’elogio funebre di un giovinetto, che questi aveva mostrato una maturità morale molto superiore alla sua tenera età. Ma talvolta, in quella medesima epoca, si trovava una esagerazione ‘patetica’: dell’adolescente da encomiare si dice, ad esempio, che ha l’acume “di un anziano”. Silio Italico (VIII 464) scrive di un ragazzo: “per acutezza intellettuale era pari ad un uomo molto vecchio”. In modo assai simile Apuleio descrive un adolescente (senilis in iuvene prudentia, Florida IX 38). Gli esempi dimostrano che già all’inizio del II secolo il topos del puer senilis era conosciuto e diffuso. Intorno al 400 Claudiano lo usa più volte […] Il topos perdura, in senso elogiativo, in scritti sia profani che religiosi, fino al Seicento […]. Ci troviamo di fronte a un archetipo, cioè ad un’immagine dell’inconscio collettivo, nel senso descritto da C.G. Jung. I secoli della tarda Antichità romana sono pieni di visioni, che spesso non sono interpretabili se non come proiezioni dell’inconscio.

     

    Corriere della Sera, 15 novembre 2014

    Il presunto video amatoriale girato in un territorio di guerra (presentato come se fosse in Siria) era stato caricato su YouTube lunedì, 10 novembre, da Shaam News Network, un canale di notizie gestito dagli attivisti siriani a Damasco. Nel giro di poche ore è stato ripreso dai maggiori portali d’informazione. Non senza qualche punto interrogativo, tuttavia con diversi gradi di cautela. Le notizie e i filmati che quotidianamente arrivano dalle zone di guerra, in questo caso dalla martoriata Siria, sono infatti sempre difficili da confermare. Nel video «originale», che nel frattempo è stato cliccato quasi 4 milioni di volte, si vede un ragazzino (apparentemente siriano) sfidare la morte e i cecchini del presidente Assad per portare in salvo una bambina terrorizzata, bloccata dalla paura in mezzo alla strada sotto un camion bruciato. Non basta: per ingannarli, il piccolo finge per due volte di essere colpito e si getta a terra. Poi si rialza finché riesce a portare via la bambina per mano. In sottofondo si sentono voci di adulti al riparo dietro a delle mura esclamare «Allahu akbar» (Dio è grande) quando si rendono conto che il piccolo è ancora vivo. Alla fine entrambi sembrano si mettono in salvo. Peccato che si tratti solo di una messinscena, non c’è nulla di autentico. Insomma: un falso. Come rivela la BBC, dietro alle riprese ci sono alcuni registi norvegesi. Il filmato è stato girato a Malta lo scorso maggio su un set utilizzato in passato per pellicole come Troy e Il Gladiatore. Il bambino e la bambina? Attori professionisti provenienti da Malta. E le voci in sottofondo sono di alcuni rifugiati siriani che vivono sull’isola. Il 34enne regista di Oslo, Lars Klevberg, ha spiegato di aver scritto la sceneggiatura perché era rimasto sconvolto da ciò che succedeva in Siria. «Pubblicando un video che poteva apparire autentico speravamo di sfruttare a nostro vantaggio uno strumento che viene spesso usato in guerra: fare un video che pretende di essere vero. Volevamo vedere se il video avrebbe attirato l’attenzione e stimolato un dibattito, soprattutto riguardo i bambini nelle zone di guerra», ha detto Klevberg a BBC. «Se avessi fatto un video e fossi riuscito a far credere che fosse vero, le persone lo avrebbero condiviso e avrebbero reagito con speranza», ha aggiunto il regista. La pellicola ha ricevuto finanziamenti dal Norwegian Film Institute (NFI) e dell’Arts Council nell’ottobre 2013. «Non volevamo attirare l’attenzione in maniera cinica, avevano motivazioni oneste» ha sottolineato Ase Meyer, responsabile dei corti per il NFI.

     

    Livio, Ab urbe condita libri¸ II 13

    Cloelia virgo, una ex obsidibus, cum castra Etruscorum forte haud procul ripa Tiberis locata essent, frustrata custodes, dux agminis virginum inter tela hostium Tiberim tranavit, sospitesque omnes Romam ad propinquos restituit. Quod ubi regi nuntiatum est, primo incensus ira oratores Romam misit ad Cloeliam obsidem deposcendam: alias haud magni facere. Deinde in admirationem versus, eam dixit deditam intactam inviolatamque ad suos remissurum. Pace redintegrata Romani novam in femina virtutem novo genere honoris, statua equestri, donavere; in summa Sacra via fuit posita virgo insidens equo.

     

     

    POSSIBILI ESERCIZI (a casa o in classe, da soli o sotto la guida del docente)

    1) comprensione e analisi:

    Dopo aver riletto il testo di Valerio Massimo, rispondi alle seguenti domande:

    • La frase iniziale introduce immediatamente il tema della straordinarietà dell’impresa di Emilio in relazione all’età; perché, secondo te, la frase finale riprende quanto già detto, ma con un passaggio dal concreto (Aemilius Lepidus puer) all’astratto (gentis Aemiliae pueritia)?
    • Nella quarta frase (praecucurrit igitur etc.) sono evidenti degli elementi che oscillano tra l’idea di stasi e quella di velocità; quali sono e, attraverso di essi, quale profilo di Emilio viene tratteggiato da Valerio Massimo?
    • Come vengono rievocate le varie fasi di una battaglia di cui Emilio, incredibilmente, non ha paura? Come viene enfatizzato quello che, a una prima lettura, può apparire un semplice elenco?
    • È più corretto definire Emilio come un personaggio piatto o a tutto tondo? Per quali motivi?
    • Valerio Massimo pone attenzione ai pensieri del suo personaggio? Qual è il punto di vista adottato nella narrazione?

     

    2) approfondimenti:

    • Dopo aver letto e tradotto (in classe) il passo di Livio, riusciresti a riprodurre la “struttura del testo” fornita dal docente per Valerio, applicandola – con tutti i correttivi necessari, ovviamente! – al racconto dell’impresa di Clelia?

    • Quali differenze riscontri fra i due casi e le due narrazioni?


    3) ulteriori approfondimenti:

    Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina caedes rapinae discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae algoris vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax subdolus varius, cuius rei libet simulator ac dissimulator, alieni adpetens, sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus inmoderata incredibilia nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae libido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. Incitabant praeterea conrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

    Lucio Catilina, nato di nobile stirpe, fu di grande vigore d’animo e di membra, ma d’indole malvagia e viziosa. Fin dalla prima giovinezza gli piacquero le guerre civili, le uccisioni, le rapine, la discordia fra i cittadini, e in ciò spese tutta la sua gioventù. Il corpo era resistente alla fame, al gelo, alle veglie oltre ogni immaginazione; l’animo temerario, subdolo, mutevole, simulatore e dissimulatore di qualsivoglia cosa, avido dell’altrui, prodigo del suo, ardente nelle cupidigie, facile di parola, ma privo di buon senso. Spirito vasto, anelava sempre a cose smisurate, al fantastico, all’immenso. Dopo la tirannide di Silla, era stato invaso da una sfrenata cupidigia d’impadronirsi del potere, senza farsi scrupolo della scelta dei mezzi pur di procurarsi il dominio. Sempre di più, di giorno in giorno quell’animo fiero era agitato dalla povertà del patrimonio e dalla consapevolezza dei suoi delitti, cose accresciute entrambe dai vizi sopra ricordati. Lo incitavano, inoltre, i costumi d’una cittadinanza corrotta, tormentata da due mali funesti e fra loro discordi, il lusso e l’avidità.

    Il brano di Sallustio parla anch’esso, con modalità e finalità diverse, di indole, di rapporto tra il carattere e l’ambiente e di quello tra l’adolescente e il sistema di valori di riferimento. Sappiamo che l’opera di Valerio Massimo ha tratto spunti da questo autore.
    1. sapresti dire cosa unisce i due testi e cosa “fa la differenza”?
    2. il carattere pragmatico e moraleggiante attribuito ai Dicta et facta memorabilia può essere attribuito anche al testo qui presentato di Sallustio?

  • La zattera della Medusa

    La zattera della Medusa

    Il 5 luglio 1816 la fregata Méduse si incagliò al largo delle coste della Mauritania, per l’insipienza del suo comandante. Centocinquanta persone cercarono salvezza su una zattera di fortuna. Solo 15 si salvarono… Il celebre dipinto di Géricault, esposto al Salon del 1819, ha reso immortale l’episodio.

    Una versione meno tragica di quell’avvenimento è quella riproposta dal disegnatore francese Uderzo, che qui riportiamo con le didascalie che ci sono state suggerite. Come sempre, è possibile continuare a intervenire utilizzando la funzione “Leave a Reply” del post.

    medusa

    Quadragesimo quarto die. Omnia cibaria edidimus. Nunc comites edemus…                                                (Greta Romano)

    Altre soluzioni degne di nota:

    Galli victoriae confidebant cum Druidum potionem se bibisse crederent. Sed, ante profectionem, aliquis perperam paterae potionis pateram cervisiae substituerat. Victi, rate constructa, nunc ad auxilium quaerendum fugiunt.
    (Beatrice Baraldi)

    Cum viri, acti nocturna ebrietate, domum redire crederent, at suam sedem invenire non possent, dormitionem, desperationem, controversiam conceperunt et per medium mare iverunt. Traditum tamen est eos, iam fessos ac debilitatos, cotidie cum vexillis lusisse ad auxilia frustra quaerenda.                                          (Mattia Marchesi)

    Galli fugam petiverunt. Quoniam proelium apud flumen fuerat, nonnulli parvam ratem aedificaverunt et amnem tranarunt, perfugium quaerentes. Maesti fessique erant; et propter gravia vulnera paulatim pars eorum animam efflavit.
    (Olena Igorivna Davydova)

     

  • Certificazione, atto terzo

    Certificazione, atto terzo

    La certificazione torna a far parlare di sé. Mercoledì 20 gennaio, a Milano, si è svolto un incontro alla presenza di Paolo de Paolis, professore all’università di Cassino, ma, soprattutto, attuale presidente della CUSL, la Consulta Universitaria di Studi Latini, ovvero l’associazione che riunisce tutti i docenti universitari di materia e che svolge, attualmente, la funzione di istituto certificatore. Con lui erano presenti Massimo Gioseffi, padrone di casa, Guido Milanese, che della certificazione è stato uno dei padri nobili, e Francesca Papaleo, in rappresentanza della provincia di Ferrara dove, negli ultimi due anni si sono tenute delle prove esattamente parallele (per tempi di svolgimento e per tipologia di esercizi) a quelle svoltesi in Lombardia. La discussione ha avuto come tema principale la possibilità – e oggi forse anche la necessità – di trovare un modello nazionale di certificazione. Ricordo che le prove finora si sono svolte in via sperimentale, e secondo tipologie parzialmente diverse e indipendenti le une dalle altre, in Liguria (dal 2012), in Lombardia e a Ferrara (dal 2014), in Sicilia (dal 2015). Oltre a queste regioni, ora anche il Piemonte e la provincia autonoma di Trento hanno stretto protocolli d’intesa con la CUSL per attuare, nei prossimi mesi, una loro certificazione (si veda il post “A proposito di certificazione”, dedicato all’incontro di ottobre al liceo Rosmini di Rovereto). Il coinvolgimento nella discussione di numerosi docenti di liceo ha dato impulso al dibattito, testimoniando l’interesse della scuola nei confronti di questa opportunità.

    Nel suo intervento introduttivo Guido Milanese ha sottolineato che l’apprendimento della lingua latina deve essere valutato per mezzo di certificazioni rilasciate da un ente autonomo e riconosciuto a livello internazionale, come è prassi per qualsiasi altra lingua europea. Su questo obiettivo, ha detto De Paolis, si sta muovendo appunto la CUSL, adoperandosi per dar forma a una prova di certificazione unica a livello nazionale. Nella medesima prospettiva di equiparazione della certificazione latina a quella delle altre lingue, è stato affrontato il tema della sua ‘spendibilità’. Gioseffi ha suggerito che l’attestato potrebbe integrare i punteggi dei test di valutazione preliminare degli studenti immatricolati a Lettere o essere impiegato in sostituzione delle prove scritte per gli esami di Letteratura Latina nelle sedi universitarie che un simile esame prevedano (ad esempio, la stessa Milano). La certificazione però non deve essere vista soltanto come un passaporto per le facoltà umanistiche. Secondo Gioseffi dovrebbe essere resa accessibile a tutti coloro che desiderino conseguirla, indipendentemente dal percorso universitario che decideranno di intraprendere, e anche dalla loro attuale posizione scolastica. Come per le lingue moderne, si deve trattare di un riconoscimento cui aspirare anche solo per interesse personale, o per spenderlo in quegli ambiti professionali (archivi, biblioteche di conservazione ecc.) dove il certificato possa avere valore. Francesca Papaleo ha sottolineato infine il successo della certificazione nella provincia di Ferrara, il che conferma la tendenza delineatasi in Lombardia, dove, per il 2015, sono state 300 le domande di ammissione accolte, a fronte di quasi 700 richieste.

    Il dibattito si è poi concentrato sulla tipologia di prova da somministrare in sede di certificazione. Gioseffi e Milanese hanno insistito sul fatto che la traduzione e la composizione latina si rivelano inadatte allo scopo, poiché chiamano in causa ulteriori abilità da parte dello studente e non permettono di adottare parametri oggettivi e matematici di valutazione. Per la stessa ragione non convincono altre forme di esercizio che sono state recentemente proposte, e che prevedono o di riassumere in italiano un testo latino (anche attraverso la scelta di un titolo adatto), o di scegliere fra traduzioni contrastive – esercizi interessanti gli uni e gli altri, ma che di nuovo mettono in campo capacità indipendenti dal possesso della lingua latina. Per arrivare a una proposta condivisa, sono state presentate le prove somministrate in Lombardia negli ultimi due anni, discutendone  i possibili miglioramenti. Nel 2014 il test concepiva due livelli di riferimento, base e avanzato. Per il primo, la prova consisteva in un esercizio di comprensione del testo con domande a risposta chiusa, di carattere prevalentemente grammaticale e solo in parte contenutistico; per il secondo, nella traduzione con brevi domande di comprensione di un brano latino (un passo del De civitate dei di Agostino). Nella fase di valutazione dei test erano però emersi i limiti di una prova così strutturata: la soggettività del correttore nell’attribuire un punteggio alle diverse traduzioni e la disparità di livello tra studenti che pure avevano ottenuto la certificazione per la medesima soglia. Per il secondo anno di sperimentazione si è perciò deciso di introdurre un’ulteriore differenziazione interna al livello base (A1 e A2) e avanzato (B1 e B2), allineandosi al Common European Framework of Reference for Languages (CEFR). Anche la tipologia della prova avanzata è stata modificata: al testo latino sono stati associati cinque esercizi, tre finalizzati a valutare la competenza lessicale e la comprensione del testo, con domande di riconoscimento dei vocaboli interni al testo, o di risposta “vero/falso” ad affermazioni pertinenti al testo; a ciò, si aggiungevano la richiesta di individuare i punti di snodo del passo proposto (un brano di Galileo) e una parafrasi del testo latino con un esercizio di filling the gaps. La traduzione è stata invece mantenuta come prova aggiuntiva e distintiva solo per il livello B2, proponendo agli studenti il seguito immediato del passo utilizzato nel livello B1; alla traduzione si accompagnavano tre brevi domande di comprensione del brano tradotto, cui rispondere in latino, utilizzando le espressioni del brano stesso.

    Dal dibattito è emersa come prioritaria la necessità, per tutte le componenti in gioco, di strutturare un modello di prova unico a livello nazionale, che permetta una valutazione oggettiva delle competenze linguistiche raggiunte dagli studenti, e possa fornire così dei parametri di riferimento alla didattica. La certificazione, in questo modo, si avvicinerà alla certificazione delle lingue moderne, e come quelle potrà essere valida anche al di fuori dei confini nazionali. Per quanto riguarda la struttura della prova, i docenti di scuola intervenuti al dibattito sono stati concordi sull’idea di escludere dal test quegli esercizi che non attengono alla verifica della competenza linguistica e che chiamano in causa altre abilità in possesso (o meno) dei candidati: dunque, niente traduzioni (o almeno, non un loro impiego in via esclusiva), né riassunti, né scelte fra traduzioni contrastive, né quesiti di cultura classica – esercizi oggi invece ancora presenti in altre certificazioni attuate in Italia.

    © Giacomo Ranzani, 2016

  • Conversation Pieces (II)

    Conversation Pieces (II)

    Riporto le proposte risultate vincenti al gioco dei Conversation Pieces, II serie. Ovviamente, è possibile aggiungere ancora altre proposte – utilizzando la funzione “Leave a Reply” in fondo al post.

     

    BOTTICELLIMadonna con bimbo e angelo adorante (Boston, part.)

    botticelli

    Libenter ambularem per campos! Immo… praeter modum piger sum… requiescam!

    (Greta Romano)

     

    DUERER, Cristo fra i dottori (Madrid, part.)

    durer

     

    Nescio qua de causa capillorum concinnator pro suo arbitrio semper faciat. Sic transit gloria tonsi…

    (Giulia Repetti)

     

     

    GAINSBOROUGH, Ritratto di Jo. Chr. Bach (Bologna)

    gainsborough

    Translatio tua mihi non satis facit… Videbo te postera sessione…!

    (Greta Romano)

    Segnaliamo anche la proposta dell’amico Stefano Costa, ispirata a Sen. Rhet. Contr. IV, prol. 4: Utinam magnitudo patris produceret et non obrueret!

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    Ecco alcune delle altre proposte:

    per BotticelliSuavis iste aër oculos meos paene clausit, et mihi somnum fecit… Eia! Mihi non est dormiendum! Aaaah…

    “Est Europa nunc unita / et unita maneat; / una in diversitate / pacem mundi augeat…” Mane paulisper! Quid Europa est? Quid mea refert, si melos placet? “…Semper regant in Europa / fides et iustitia / et libertas populorum / in maiore patria” (Hymnus Latinus Europae,  © Peter Roland et Peter Diem)

    per DürerModo dicebam tibi in conspectu esse me senectutis: iam vereor ne senectutem post me reliquerim. Aliud iam his annis, certe huic corpori, vocabulum convenit, quoniam quidem senectus lassae aetatis, non fractae nomen est: inter decrepitos me numera et extrema tangentis (cf. Sen. epist. 26, 1).

    Tam senex quam sapiens sum: quotienscumque cogitationem habui, capillus mihi cecidit…

    Longam et canam barbam habere clarorum philosophorum est. Cuperem etiam crinem!

    per GainsboroughOmnes fere musicam patris mei praeferunt meae… Sic stantibus rebus, me conferam in Angliam ad fortunam quaerendam…

    Hercle! Clamores puerorum me non permittunt legere…

  • Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Del ciclo di Marato parlerò più brevemente. Non per pruderie, amori omosessuali nella lirica latina non ci stupiscono (le prime elegie a carattere sicuramente amoroso attestate a Roma – quelle di Lutazio Catulo e dei suoi colleghi – sono decisamente bisessuali, quando non apertamente omosessuali), ma perché, sia pure narrata a ranghi ancora più serrati (in tutto sono solo tre elegie), la storia che esse raccontano è la stessa che abbiamo visto con Delia. Segnalerei però tre cose, preliminarmente:

    1. amori del genere sono, in alcune città della Grecia (non tutte) e in alcune epoche (non sempre), accettati o addirittura incoraggiati;

    2. di conseguenza, essi compaiono relativamente spesso anche in letteratura;

    3. ci sono tuttavia alcune norme da rispettare. Semplifico, ma nella sostanza direi che sono queste: nelle coppie di questo genere sono sempre ben distinti un amante e un amato, con ruoli nettamente separati e definiti; c’è un’età diversa a seconda dei ruoli; la liaison è a tempo, con una fine imposta dal crescere dell’amato (che di norma deve essere di età inferiore ai sedici anni); un simile amore non è quindi mai una scelta definitiva per nessuna delle due parti in causa: l’amante avrà altri amori, di entrambi i sessi, mentre l’amato diverrà a sua volta amante, di entrambi i sessi, e l’amante sarà perfino disposto ad aiutarlo in questa trasformazione, se si dà il caso. A questo, quando l’uso passa a Roma (o almeno, in certi ambienti della Roma “bene”) si aggiunge un’ulteriore condizione. L’amato è di origine servile, schiavo o liberto che sia, ma non è comunemente un libero cittadino. Questo comporta, anche in letteratura, alcune conseguenze: c’è sempre una disparità nella coppia (anagrafica, di ruolo, sociale); c’è sempre una corsa contro il tempo, perché l’amato cresce velocemente e arriva presto il momento in cui cambierà di ruolo; il legame perciò è precario e non può avere che fine infelice; ma questa fine la si può vivere più o meno signorilmente.

    Tutto ciò viene rispettato anche nel ciclo tibulliano su Marato: la prima elegia che lo nomina (I 4) è il momento della sua descrizione, dell’elencazione delle ragioni d’amore (“oggettive” e generali, per così dire, ma anche “soggettive” e personali, legate a quel preciso puer, e non a un qualsiasi puer che per caso si chiami Marato), della difficile e, a priori e per definizione, insicura conquista del suo affetto – siamo in un amore per forza di cose più incerto e costretto, come dicevo, a bruciare le tappe. Tutto ciò in Tibullo assume però una struttura insolita, perché l’elegia prende la forma di una lunga parenesi, quasi un’ars amatoria prima del tempo, che il dio Priapo rivolge all’Io parlante (diciamo, per comodità, Tibullo), perché questi se ne faccia portavoce con un amico e con chiunque altro vuole ascoltarlo; ma che il poeta, che la riferisce fedelmente, sa essere inutile, sia per l’amico – cui la moglie non lascia tempo e possibilità per amori con i pueri – sia per se stesso, tutto preso com’è dalla passione per Marato, che non gli consente di mantenere una lucidità sufficiente a mettere in pratica i precetti di cui si fa portavoce. Ciò fa sì che la parte generale prevalga qui nettamente su quella particolare: l’elegia è più una celebrazione dei fanciulli e del loro fascino e un’ampia rassegna delle attività da affrontare per stare loro vicino e conquistarne l’affetto, che non la descrizione della singola vicenda vissuta da Tibullo al fianco di Marato. Sebbene il finale, molto rapido e conciso, non lasci dubbio sul fatto che tutto quello che il dio ha detto con valore generale sia stato valido anche e soprattutto per Tibullo, e che quindi tutti gli stadi e le azioni descritti in precedenza (e che costituiscono i diversi momenti di innamoramento, corteggiamento, conquista dell’amato) siano stati vissuti, per l’appunto, anche da chi parla in prima persona.

    Dopo di che c’è una lunga pausa, nella quale Tibullo regola la questione con Delia e celebra il patrono Messala (elegie I 5-6 e I 7); poi Marato torna in due composizioni consecutive, le elegie I 8 e I 9. Nella prima di esse è descritto il “tradimento”, ancora perdonabile, dell’amore per Foloe (una fanciulla): segno, semplicemente, che il giovanetto sta crescendo e cambiando di ruolo, da amato divenendo amante; ma  di per sé ragione di non troppa ira – è una legge di natura e di tradizione letteraria – e, anzi, è una situazione nella quale l’Io parlante può perfino farsi terzo e assumere il ruolo del buon maestro, che guida il suo (ex)amante verso la conquista di un nuovo amore e un nuovo status sociale, e usa la propria arte per aiutarlo. Dopo un inizio dedicato al ragazzo (perché non si vergogni della sua passione e non cerchi di nasconderla all’amico), l’elegia è infatti pressoché tutta dedicata a Foloe, che Tibullo cerca di convincere ad essere generosa verso Marato. Cosa che fa usando prima le armi dell’argomentazione logica, poi supplicandola con l’aiuto delle Muse, infine minacciandola se continuerà a mostrarsi dura e spietata.

    Solo che non tutto va come Tibullo vorrebbe. Marato, per soddisfare le crescenti esigenze di una puella che presumibilmente è sempre Foloe, la di lei rapacità, il desiderio di regali (munera o dona) e di praeda (tre termini ricorrenti nel lessico di Tibullo), finisce per accettare le profferte di un dives amator – ma anche qui sarebbe più giusto dire: un ditior amator – che lo corrompe offrendogli quello che il poeta non può dargli, o almeno che non può dargli nella misura dell’altro. E questo è un tradimento inaccettabile, ben diverso da quello con Foloe: perché con Foloe era legge di natura; con il dives amator è scelta volontaria, dominata dal bisogno di denaro, non giustificabile né in base alla natura (il ruolo dell’Io parlante e del dives amator è lo stesso) né in base alla passione. Da qui gli insulti e le maledizioni, a Marato e al suo nuovo amante in primo luogo, ma anche alla puella e a se stesso, che tanto si era dato da fare per aiutare l’amico nei suoi amori per la fanciulla, fornendogli canti e fornendogli aiuti concreti e materiali; ma da qui, soprattutto, l’inevitabile discidium. Come si vede, la trama è la stessa che abbiamo visto nel ciclo di Delia, rispetto al quale va solo fatto notare che il finale è meno irrisoluto: se con Delia, infatti, Tibullo perfino nell’ultima elegia si mostrava, almeno a parole, ancora aperto a una possibilità di perdono (sebbene gli elementi elencati nel precedente post smentissero poi questa possibilità, e Delia da lì in avanti sparisce infatti di scena), con Marato la separazione è molto più netta e definitiva, e gli insulti vanno sul pesante, specie quelli rivolti al rivale.

    Va anche osservato che, come ho già detto, queste tre elegie e la storia che esse raccontano non fanno che ripercorrere, in definitiva, la storia d’amore che Catullo aveva delineato con Lesbia e con Giovenzio, storia che Tibullo fa propria, almeno nelle linee generali e nei passaggi obbligati, sia con Delia che con Marato. Nel complesso della vicenda, però, a mio parere si segnalano anche altre cose di una certa importanza:

    – un’elegia è, innanzi tutto, per sua natura più lunga di un carmen, ma nello stesso tempo la storia complessiva che un ciclo di elegie racconta è, per forza di cose, più rapida e veloce di quella che si può raccontare in un libro composito come quello catulliano: perché in Catullo la storia si scandisce attraverso molti momenti, ciascuno dei quali è fatto oggetto di uno o più specifici carmina, nettamente separati fra loro; mentre in un’elegia la vicenda tende a comprimersi, e più momenti che in Catullo sarebbero stati separati qui si sommano entro una medesima composizione, che risulta perciò, inevitabilmente, più lunga e più complessa (questo perché i diversi momenti sono, per così dire, “consumati” uno dopo l’altro, risultando bruciati più velocemente di quanto avveniva nel Liber catulliano);

    – rispetto alla vicenda narrata da Catullo, naturalmente (o almeno, rispetto alla storia con Lesbia; diverso forse il caso di Giovenzio e delle altre donne occasionalmente presenti nel Liber), in Tibullo i personaggi in gioco hanno più basso rango sociale: Lesbia è una gran signora del mondo romano, sia essa o no Clodia; la cosa non si può dire né di Delia né di Marato (e, come vedremo, nemmeno di Nemesi);

    – la vicenda di Delia e quella di Marato non hanno solo una struttura complessiva identica (pur con le differenze imposte, come dicevo all’inizio, dai diversi contesti, etero- e omosessuale), ma sono unite da un altro elemento comune, forse perfino più importante di quello notato finora. A mettere fine all’una come all’altra vicenda è infatti la comparsa, a un certo punto di ciascuna storia, dell’oro che tutto corrompe. E questo, rispetto al precedente di Catullo evocato prima, è un elemento nuovo, che sembra specifico di Tibullo, un suo spunto di riflessione, un’aggiunta del tutto personale (fermo restando che non sappiamo se e quanto questo elemento avesse peso negli Amores di Cornelio Gallo, per noi un “buco nero” nella storia dell’elegia latina). Significativo è che Delia e Marato non sarebbero di per sé avidi, per lungo tratto anzi non lo sono affatto; lo diventano con il tempo, ma la loro avidità, il loro vendersi, sono determinati da circostanze esterne e, diremmo noi, ‘sociali’, non personali o caratteriali. E questo non era così scontato, alla data di Tibullo in particolar modo, e mi pare anzi qualcosa fuori dall’ordinario e tutt’altro che pacifico per chi viveva nella prima età augustea;

    – nella storia con Delia c’è un tono più drammatico, in quella con Marato sono ammessi anche toni comici, o almeno autoironici; ma questo ci sta, perché è un elemento connesso al (sotto)genere complessivo: gli amori per i pueri, lo dicevo prima, non sono e non si propongono mai come amori per tutta una vita, sono una corsa contro il tempo, hanno fin dall’inizio una fine prevista e prevedibile – fine che si può raggiungere nel migliore dei modi possibili, oppure no, come avviene appunto con Marato, in virtù della corruzione portata dal bisogno di denaro del giovane;

    – infine: mentre con Delia era possibile immaginare una vita in campagna, dove Tibullo potesse essere il colonus padrone dei suoi beni, dedito alla cura degli dèi e all’amministrazione dei campi, e lei svolgesse la parte della perfetta villica, alla quale demandare i rapporti con gli schiavi, quelli con le divinità minori, l’amministrazione della casa e del bestiame minuto, l’accoglienza agli ospiti di prestigio (questo, almeno, finché le sue scelte di vita non l’hanno rivelata indegna di un simile compito), con Marato tutto ciò è, ovviamente, impossibile. Marato è di sicuro un cittadino, e amori come questi sono possibili, secondo Tibullo, solo in un ambiente medio-colto cittadino. Marato, del resto, per le ragioni dette prima non può essere il compagno di una vita, non può assumere compiti sacrali o istituzionali. In questo Tibullo, che per altri aspetti abbiamo visto essere abbastanza anticonformista, si rivela più conformista (ma non poteva essere altrimenti, direi) rispetto a Virgilio, che solo pochi anni prima delle elegie tibulliane al suo Coridone, protagonista della seconda egloga, faceva immaginare una lunga vita al fianco di Alessi. Inutile però segnalare che Coridone e Alessi sono, nelle Bucoliche, creature di fantasia; di rango servile e pastorale, e non equestre, come si suppone essere l’Io parlante tibulliano; e che comunque la vita che Coridone si propone resta, in ogni caso, un sogno, non una realtà: ma che i sogni di Coridone non abbiano corrispondenza nel vero è cosa sulla quale il narratore Virgilio ha messo da subito in guardia i suoi lettori e che quindi vale anche per questo dettaglio specifico (sul che mi sia però concesso rimandare al mio “Passeggiate in un bosco bucolico [a partire dalla Einführung di Michael von Albrecht]“, reperibile on line all’indirizzo https://unimi.academia.edu/massimogioseffi).

     

     © Massimo Gioseffi, 2016                        (ma**************@***mi.it)

    Illustrazione di Otto Schoff, 1884-1938, per il volume Albius Tibullus, Das Buch Marathus. Elegien der Knabenliebe, deutsche Nachdichtung von Alfred Richard Meyer, Berlin, Gurlitt, 1928