Year: 2017

  • Ovidio tra gli Sciti

    Ovidio tra gli Sciti

    Un dipinto di Eugène Delacroix può fornire un utile spunto didattico per introdurre il tema dell’esilio, e in particolare la poesia ovidiana dell’esilio. Si tratta di un olio di dimensioni medie (90 x 130), esposto a Parigi nel 1859 e ora al British Museum di Londra; una seconda versione, oggi a Washington, di dimensioni più ridotte (30 x 50) e con alcune variazioni nelle figure e nel cromatismo, fu realizzata per un committente privato nel 1862. Il soggetto è Ovidio fra gli Sciti (Ovide chez les Scythes): un tema politicamente scottante, tenendo conto che dal 1856 Victor Hugo si trovava in esilio sull’isoletta di Guernsey, nel canale della Manica, per ordine di Napoleone III.

    Vero protagonista del dipinto è il paesaggio, improntato a un gusto tipicamente tardoromantico, con la natura che giganteggia affascinante e distante: brullo l’insieme, rada la vegetazione (un cespuglio, due piccoli alberi), rari gli interventi dell’uomo (nessun segno di coltivazione del terreno, povere capanne dal tetto di paglia sulla sinistra e sullo sfondo a destra). Lo scenario è animato da figure umane e animali: gli uomini sono vestiti succintamente, in prevalenza in toni del marrone e ocra, che riprendono quelli del paesaggio (in qualche caso potrebbe trattarsi di pellami piuttosto che di tessuti), la maggior parte scalzi e barbuti, alcuni armati di frecce e scudo; in primo piano una donna, ritratta di schiena, munge una cavalla (un dettaglio che doveva risultare davvero esotico al raffinato pubblico parigino e che non incontrò il favore della critica). Quasi al centro, un poco sulla sinistra rispetto all’osservatore, spicca la figura del poeta, completamente estranea al contesto: l’effetto di forte scarto si crea prima di tutto tramite le scelte cromatiche del bianco immacolato e del blu intenso del vestiario (i colori della Madonna nella più tradizionale delle iconografie), che non trovano corrispondenza precisa in nessun altro dettaglio del dipinto; i calzari bianchi con minute decorazioni dorate esprimono un’eleganza urbana (e ricordano i phaecasia, gli stivaletti bianchi alla moda indossati da Encolpio in Satyricon 82, 3); appoggiato sul terreno, al fianco del poeta, si trova del materiale scrittorio, sembrerebbe un ampio rotolo aperto. Molte delle figure sono rivolte verso Ovidio, in un atteggiamento non ostile ma di curiosità (il bambino con il grande cane lupo) e in un caso almeno di rispetto e offerta (l’uomo inginocchiato con il cestino, sostituito da una ragazza nella versione del 1862), così che la disposizione delle figure può ricordare un’adorazione dei pastori.

    L’opera di Delacroix rivela una certa consonanza con la Stimmung delle elegie ovidiane dell’esilio, pur prendendosi la libertà di sostituire la cittadina di confine, Tomi, con un paesaggio naturale e aperto. Le caratteristiche della natura sono del resto abbastanza rispondenti alla descrizione ovidiana di una regione aspra e selvaggia, sferzata dai venti e coperta di neve e di ghiaccio per buona parte dell’anno, costituita da terreni incolti, praterie brulle e sterili, con acqua di cattiva qualità (insomma, una specie di Siberia sul mar Nero) – si potrà confrontare specialmente la coppia di elegie di tristia III, 10 e 12, dedicate rispettivamente all’inverno e alla primavera a Tomi. Se in queste descrizioni ovidiane non pare esservi molto di oggettivo (la cittadina era in realtà una colonia greco-romana ormai pacificata e di popolazione prevalentemente greca; quanto al clima, vi si coltivava e vi si coltiva tuttora la vite), esse tuttavia racchiudono un nucleo di verità, in quanto esprimono per immagini l’esperienza sconvolgente dell’improvviso e violento sradicamento dal proprio mondo vissuta dal più grande poeta della sua epoca, poco più che cinquantenne e all’apice della fama. E particolarmente efficace, e a suo modo fedele allo spirito del testo ovidiano, risulta il dipinto nel rendere l’isolamento intellettuale del protagonista. Ovidio diviene qui la trasposizione pittorica di potenti immagini poetiche come quelle dei ‘grandi esiliati’ di Baudelaire: Andromaca a Butroto o il cigno, con i suoi gesti folli “comme les exilés”, o l’albatro, simile al poeta “exilé sur le sol” (protagonisti di poemi pubblicati in quegli anni e poi riediti nel 1861, nella seconda edizione de I fiori del male, dove Le Cygne è dedicato proprio a Victor Hugo, il grande esule francese, che a Guernsey stava componendo Les Miserables [apparsi poi a Bruxelles, nel 1862]).

    Eug??ne Delacroix, 1798 - 1863 Ovid among the Scythians 1859 Oil on canvas, 87.6 x 130.2 cm Bought, 1956 NG6262 http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG6262

    Delacroix (1798-1863), già in fine di carriera al momento della composizione del dipinto, in giovinezza era stato, lo ricordiamo, fra i grandi alfieri della pittura romantica. Amico personale tanto di Hugo, la cui casa in Notre-Dame-des-Champs aveva frequentato, quanto di Baudelaire, che teneva in camera da letto le litografie di Amleto firmate dal pittore, Delacroix con i suoi dipinti si era più volte proposto di illustrare i grandi capolavori accetti al Romanticismo francese (Dante, Shakespeare, Scott e Byron), come anche di intervenire sui principali fatti politici vissuti dalla sua generazione (la rivolta della Grecia contro i Turchi; la rivoluzione del 1830, che portò sul trono di Francia Luigi Filippo, suo antico committente). Nel trattare temi classici, Delacroix si era sempre compiaciuto di rivolgere il proprio occhio alla modernità e alla commistione delle iconografie. Significativo antecedente del lavoro compiuto su Ovidio è infatti il ritratto di Medea mentre uccide i figli (Médée furieuse), del 1838, ma poi ripreso anche nel 1862, oggi conservato a Lille, nel quale l’eroina greca è immersa in uno schema piramidale che ricorda la leonardesca Vergine delle rocce e mostra il proprio seno – in ossimorico contrasto con il gesto che sta per compiere – come nell’illustrazione della Carità di Andrea del Sarto. Una mamma pagana, che porta con sé, come Ovidio nel dipinto da cui siamo partiti, alcuni simboli della Cristianità, ma che infonde loro nuova vita in virtù del diverso tema che sono chiamati ad illustrare.

    delacroix medea

    © Elena Merli, 2017

    I dipinti sono concessi in libero usufrutto, per ragioni di studio, sui siti dei rispettivi musei che ne detengono la proprietà

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Gli esempi considerati finora ci permettono di tracciare un primo quadro di questa breve storia delle Metamorfosi nella musica del Novecento. Due elementi balzano agli occhi: ci sono composizioni che illustrano direttamente il poema di Ovidio, come avviene per le sei variazioni di Britten o l’opera Daphne di Strauss. Com’è ovvio, “direttamente” è parola da rideclinare poi caso per caso: Britten mette in musica sei momenti del poema ovidiano, ma nella sostanza usa il testo latino come banco di prova delle possibilità espressive di un singolo strumento musicale; e del concetto di metamorfosi, ricavato da Ovidio, mette in luce soprattutto la creazione di un nuovo linguaggio, che passa attraverso il mutamento e l’esperienza cosciente del mutamento. Strauss nella sua opera riscrive una vicenda ovidiana (il processo inizia prestissimo, e attraversa tutta la storia del melodramma). Quello che interessa è che, della trama di Ovidio, Strauss coglie soprattutto l’elemento di sopraffazione disturbante introdotto dall’azione del dio in una comunità pacifica e regolata da sue leggi – con evidente riferimento alla Germania del tempo. Della metamorfosi come fenomeno in sé quanto gli interessa è dunque la violenza che essa apporta, in  uno stesso tempo, alla civiltà e alla natura: solo quest’ultima, nel finale, riprende la sua forma, ma in assenza di uomini e di dèi.

    La seconda tipologia di ‘ripresa’ è quella esemplificata da Metamorphosen. Qui Ovidio, di fatto, offre solo un titolo e un concetto filosofico. La metamorfosi è una trasformazione che avviene con la violenza, per causa esterna, e che lascia alle sue spalle un cumulo di macerie – le macerie reali di Monaco bombardata, le macerie metaforiche degli eroi e delle eroine ovidiane. L’azione violenta, che per il poeta latino è opera di un dio capriccioso e vendicativo, anche quando agisca secondo giustizia (ma che il più delle volte agisce oltretutto indipendentemente dalla giustizia…), per Strauss è invece prodotta dall’uomo, o quanto meno dalla Storia, intesa come somma delle azioni umane. Ciò comporta un’enfasi tanto maggiore sull’elemento del pathos, in quanto tutto si realizza sul piano umano. E’ l’uomo che determina la metamorfosi, è l’uomo che la subisce.

    Nel Novecento il concetto filosofico prevale sulla citazione del classico, come del resto ci aspettavamo: le Metamorfosi musicali per lo più non hanno in comune con Ovidio nient’altro che il titolo. Philip Glass (1937-vivente) nel 1988 scrive cinque pezzi per pianoforte dal titolo Metamorphosis, ma le Metamorfosi che vuole illustrare sono quelle di Kafka, non quelle ovidiane. Dei cinque brani che compongono la suite, almeno il secondo è famosissimo, perché divenuto elemento portante della colonna sonora del film di Stephen Daldry, The Hours (2002), dedicato alla vita di Virginia Woolf e interpretato da Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore. Nel 1966 Gian Francesco Malipiero aveva composto un’opera, Le metamorfosi di Bonaventura, derivandone il canovaccio da un testo tedesco di inizio ‘800, Die Nachtwachen des Bonaventura (I giri di guardia notturna di Bonaventura”). E’ un’opera che non sono mai riuscito ad ascoltare, ma a leggerne il sommario sembra un pasticcio incomprensibile; anche Montale, che fu presente alla prima a Venezia, ne parlava come di un testo dall’interesse drammatico pressoché nullo. Non so. Quello che è certo è che le metamorfosi cui si fa riferimento lì sono quelle che intercorrono fra autore e personaggio, i confini fra i quali, a un certo punto della realizzazione dell’opera d’arte, diventano labili e incerti.

    Nel campo delle metamorfosi ‘filosofiche’ possiamo inserire anche il quartetto nr. 1 di Gyorgy Sandor Lìgeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi Notturne”. La composizione risale agli anni 1953-1954, a Budapest; la prima esecuzione (con qualche variazione rispetto al testo originale) avvenne poi a Vienna, nel 1958. Di mezzo, i fatti di Ungheria del 1956 e la fuga di Ligeti da Budapest all’Austria, nel dicembre di quell’anno. Il quartetto è una composizione in un unico movimento (qui diviso in due, per ragioni di spazio) e 17 parti. Vari sono stati i tentativi di definire l’opera e di suddividere le sequenze di cui si compone. La cosa più curiosa la scrisse forse Ligeti stesso, nelle note di copertina di un CD realizzato per la casa discografica Sony, nel 1996. Ligeti definì il suo quartetto come una serie di variazioni senza un reale tema, ma solo una cellula melodica di base. In realtà, l’opera, pur concedendosi numerose dissonanze, è ancora sostanzialmente tonale.  Ligeti diverrà un adepto della musica dodecafonica ed elettronica solo dopo il passaggio in Occidente, e lo spostamento da Vienna prima a Colonia e poi ad Amburgo – le città dove ha insegnato e lavorato più a lungo.

    Sul senso della composizione e il suo titolo ci illumina di nuovo l’autore: nell’Ungheria sottoposta al controllo sovietico prevaleva un’estetica legata al socialismo reale e al recupero delle musiche folkloriche. Ligeti, che non si riconosceva in questa estetica (era, del resto, un rumeno di nascita, divenuto ungherese dopo l’annessione, nel 1940, della Transilvania all’Ungheria. Di religione ebraica, aveva ben altre radici da quelle care al regime), è costretto ad aderirvi nelle sue composizioni ufficiali e, diciamo così, ‘diurne’. Di notte, ecco invece la possibilità di sbizzarrirsi più liberamente in composizioni che non verranno mai né pubblicate né eseguite, realizzate solo per se stesso. Da qui il titolo di Metamorfosi (inteso come ‘cambiamento di pelle’) e l’aggettivo Notturne (in riferimento al tempo della trasformazione, ossia della composizione). In realtà, il quartetto, che rielabora testi di Bela Bartók, è in fondo una metamofosi anche nel senso più tradizionale nel campo musicale.

    Quello che interessa a noi è però che la metamorfosi, vista come mutamento del proprio aspetto esteriore, per recuperare una intima, più vera natura, qui diviene una conquista di libertà, un libero sfogo contro tutte le costrizioni di un potere assillante. Anche questo senso di rivolta non è assente dal poema ovidiano, così come non lo è il sospetto che la metamorfosi, per quanto crudele e imposta dagli dèi, altro non faccia che rivelare la più vera natura del singolo. Licaone, in fondo, era già lupo prima di diventarlo…

     

     

    L’esecuzione, dal vivo, a Basilea nel 2011, è quella del Quartetto Mirus, dal cui canale l’ho ricavata, dove è offerta alla libera consultazione. Al canale rimando per tutti i diritti e le informazioni circa i bravissimi interpreti, pronto a cambiare edizione se dovessero decidere diversamente circa la possibilità di condividere le loro esecuzioni.

  • La tolda del Titanic

    La tolda del Titanic

    Interrompiamo per un attimo la serie di post seri o seriosi. Non amo le raccolte di stupidari: tutti ne abbiamo di divertentissimi, naturalmente, ma in fondo non fanno  onore a nessuna delle parti in gioco. Per una volta, voglio contraddire la mia affermazione con questo post. Mi si perdoni…

    Mercoledì 11 gennaio a Milano si sono tenuti gli esami scritti del corso di laurea magistrale in Lettere. Segnalo che l’esame magistrale di latino serve a raggiungere i 24 CFU che la legge italiana impone a chi voglia insegnare latino in un istituto superiore; non è quindi un esame obbligatorio per nessuno, ma solo per chi aspiri a un certo ruolo e una certa posizione. L’esame consta di una parte scritta e una orale. La parte scritta comporta la traduzione di un brano, facilitata da una serie di esercizi sul modello della certificazione (in particolare: scelta del riassunto appropriato; vero/falso; individuazione dei punti di snodo del racconto). Mentre si svolgeva la prova, nella mia casella di posta è pervenuta una lettera che lamentava l’eccessiva difficoltà delle versioni proposte di norma agli esami e accusava il sottoscritto di scegliere apposta versioni dalle difficoltà stratosferiche, per rendere impossibile agli studenti il superamento della prova, obbligarli ad andare fuori corso e costringere di conseguenza i loro genitori a finanziare l’università con ulteriori tasse di iscrizione ai corsi.

    Non entro nel merito delle singole affermazioni. E’ evidente che a chi ha scritto la lettera sfuggono molte cose, ad esempio che una Facoltà oggi è semmai penalizzata, non premiata, se i suoi studenti non si laureano in corso (la ripartizione dei fondi ministeriali tiene conto di questo parametro e anzi gli attribuisce una certa importanza) ecc. ecc. Non si tratta però di ribattere alla lettera, come dicevo. Voglio invece segnalare, poiché di traduzione e stato del Latino qui si è parlato spesso, e poiché a Milano stanno per tenersi due convegni interessati al mondo dell’insegnamento, come nello stesso momento in cui ho ricevuto la lettera gli studenti arrancavano su un testo di Curzio Rufo, che descrive l’assedio posto da Alessandro Magno a Tiro (il brano proposto all’esame, reperibile, oltre che in diversi eserciziari, in molti blog, e in un articolo di “Repubblica” del 13 maggio 2007 ancora recuperabile on-line, ma anche solo su “SplashLatino”, al nr. 10629).

    Ora quali sono state le maggiori difficoltà del brano? Curzio, IV 2, dice che Alessandro cerca di entrare in città con l’inganno, chiedendo di poter fare un sacrificio ad Ercole nel tempio del dio che si trova entro le mura cittadine. La speranza, inespressa ma ovvia, è di potere così penetrare in città e, una volta dentro, impossessarsene senza dover ricorrere a un lungo assedio (ci vorranno invece sette mesi). Ecco la frase latina:

    [Alexander] Herculi, quem praecipue Tyrii colerent, sacrificare velle se dixit.

    Facciamo un gioco: chi indovina la percentuale esatta, su 62 studenti presenti all’esame, di persone che hanno scritto che Alessandro voleva “sacrificarsi/ immolarsi” ad Ercole? Do un aiutino. E’ una percentuale alta…

    L’altra maggiore difficoltà è stata questa: i nobili di Tiro che hanno trattato con Alessandro, impressionati dalla conoscenza diretta del re e del suo armamento, una volta tornati in città consigliano ai concittadini di sottostare al Macedone. Ecco le parole di Curzio:

    [Legati] suos monere coeperunt, ut regem quem Syria, quem Phoenice recepisset, ipsi quoque urbem intrare paterentur.

    Ecco la traduzione ‘vincente’: “Gli ambasciatori iniziarono ad ammonire i loro [compatrioti] affinché lasciassero entrare in città il re che aveva conquistato tutta la Siria, tutta la Fenicia”. Anche qui, si può scommettere sulla percentuale delle risposte ‘esatte’…

    Un’ultima cosa. Questo era il riassunto fornito per la versione:

    Alessandro intende fare un sacrificio in onore di Ercole; i Tirii gli concedono il permesso ma in un tempio fuori città e così Alessandro minaccia di conquistare e distruggere la città.

    Parliamo tanto di didattica, ma siamo sicuri che il problema sia il latino? L’iceberg si avvicina e non so se si potrà scongiurarlo…

    Saluti a tutti

    © Massimo Gioseffi, 2017