In previsione degli incontri di Kavala, ma anche più in generale come tema di riflessione sull’Eneide, propongo qui, in forma parzialmente rifatta e adattata alle circostanze, il testo di una lezione tenuta a Milano il 12 Novembre 2008, in occasione della presentazione dell’edizione italiana del volume di Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane (Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane. Quel che possiamo imparare dai miti, a cura di G. Arrigoni, Novara, Utet Università 2008, ISBN 978-88-6008-156-8). La presentazione era stata organizzata da Giampiera Arrigoni; gli interventi di Giuseppe Zanetto (su Euripide) e il mio (su Virgilio) sono stati pubblicati sui “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, 2011, pp. 171-184.
Ecco dunque il testo promesso:
Il libro di Mary Lefkowitz chiama in causa il latinista solo per una piccola parte. Il capitolo che più interessa il latinista non si occupa degli dèi a Roma, ma de ‘Gli dèi nell’Eneide’ (‘The Gods in the Aeneid’). Viene cioè messo subito in chiaro che a rientrare nel discorso è l’Eneide in quanto poema epico, quel poema epico che ben conosciamo, intriso di Omero e di alessandrinismo, opera di un autore intriso di Omero e di alessandrinismo. Altro sarebbe ragionare circa la religione o la religiosità romana; altro quello circa la religiosità di Virgilio e delle opere virgiliane in toto, un ipotetico ‘Gli dèi in Virgilio’. Lefkowitz parte dalla constatazione di come, a differenza che nella tradizione biblica, gli dèi greci non creino l’uomo e si sentano perciò meno responsabili della sua sorte. L’uomo, a sua volta, non è formato a immagine e somiglianza di nessuna divinità (è semmai vero il contrario). Questo comporta che fra le parti in gioco ci possa essere un divario e, ogni tanto, una vera e propria difficoltà di comprensione. Ma ciò non toglie che gli dèi, e Zeus in particolare, seguano e controllino sempre gli uomini e le loro azioni e le giudichino secondo giustizia. Problema fondamentale è che la giustizia di Zeus non è quella degli uomini – così come i tempi di Zeus non sono i tempi degli uomini. Da questa discrasia deriva il fatto che gli uomini sono incapaci, o comunque in difficoltà, nel riconoscere che cosa è bene e che cosa no, quando gli dèi li hanno beneficati e quando puniti, cosa è giusto e cosa meno. Esemplare il caso dei marinai cretesi nell’Inno ad Apollo attribuito ad Omero: il dio li nobilita rendendoli suoi sacerdoti, ma loro impiegano tempo a convincersi di quanto Apollo sia stato generoso, provano timore, si preoccupano del futuro, chiedono di tornare a casa in nome di un’identità che ritengono smarrita, non accresciuta, dall’intervento divino (Hom. Hymn. 3, 388-544). Gli uomini, insomma, faticano a cogliere l’ordine di giustizia voluto dagli dèi; e gli dèi non li facilitano nel compito, anzi, spesso si approfittano dei mortali per conseguire fini particolari e ignoti alla comune umanità – fini che nella versione migliore, quella del Giove virgiliano, sono rivolti all’unità e alla moralizzazione del mondo sotto l’egida di Roma; ma nella versione peggiore possono risultare egoistici ed individuali.
Proprio la vicenda di Troia appare esemplare di questa disparità di valutazione, e ciò spiega perché così numerose siano state le sue declinazioni poetiche e perché tutte le generazioni vi si siano confrontate, cercandovi risposta ai propri dilemmi. Nell’Iliade la decisione di Zeus è stabilita fin dall’inizio del poema e non muta nel corso degli eventi. Il comportamento di Paride ha deciso il destino della città: Troia perderà la guerra. Il verdetto non è in discussione; in discussione possono essere la manipolazione di uomini e divinità inferiori e gli avvenimenti che porteranno a quel verdetto. È perciò possibile che Zeus ammetta, e talora addirittura favorisca, l’idea che altri dèi, offesi da singole azioni dei mortali, sentano il desiderio di vendicarsi e che essi vengano aiutati in questa esigenza – ossia, che Zeus riconosca loro il diritto di interferire, come avviene per Apollo, invocato da Crise, o per Teti, supplicata da Achille. La momentanea libertà d’azione di queste divinità non muta il corso complessivo delle cose, che rimane quello stabilito da Zeus. Nel passare a Roma cambia lo sguardo divino: da un lato gli dèi, a cominciare da Giove, tendono a ridursi sempre più a simboli, ad acquisire serietà e dignità a scapito della vivacità, a perdere individualità e libertà. Dall’altro, si allunga lo sguardo di Giove: nell’Iliade le decisioni di Zeus non vanno oltre i confini del poema; nell’Eneide abbracciano tutto l’arco temporale della Storia, dall’età eroica alla contemporaneità di Virgilio. Riconoscere l’esistenza di questo controllo non è tuttavia una rassicurazione, o almeno non lo è per il singolo. Se infatti si può trovare qualche consolazione nell’idea di un disegno più ampio che sta alle spalle degli avvenimenti, di una Storia che è esplicazione non di una serie casuale di fatti, ma della volontà di un dio che anticipa in qualche misura la provvidenza dei moderni, il sentire dell’individuo si concreta nell’attimo unico ed irripetibile, rispetto al quale non è consolatoria, o è troppo poco consolatoria, la fede in una dimensione lunga della giustizia. Il che significa, in altri termini, che si amplia il divario fra uomo e dio, che aumenta la probabilità da parte dell’uomo di non comprendere i fini del dio. L’uomo giudica sul suo tempo e sul suo ritmo; il dio su un proprio tempo, che è tempo lento, nel quale vengono trascesi i confini della durata umana.
Tema molto insistito negli studi novecenteschi sull’Eneide è la scoperta, da parte del suo protagonista, dell’incapacità di dominare gli eventi, la rivelazione di un contrasto fra sé e il mondo entro il quale si vede costretto ad agire; mondo che l’uomo, quand’anche di statura eroica, si accorge di non comprendere e di non dominare, finendo per sentirsi fallimentare e solo. All’origine di ciò sta la sfiducia nel proprio destino specifico, che pure non è sfiducia nel tempo lungo della Storia. Conseguenza di una simile idea è, invece, che il discorso sul divino in Virgilio si configura come un tema che non può essere inteso quale puro gioco letterario, nella maniera in cui, a volte, si è cercato di fare. Non tento un catalogo delle numerose affermazioni formulate in proposito. Ricordo soltanto che c’è chi nel poema ha sentito un’eco della giovinezza epicurea del poeta, negando così serietà e credibilità alle figure divine; chi ha sottolineato lo stoicismo progressivamente acquisito da Virgilio, fino a trasformare l’Eneide in una specie di manuale per il proficiens stoico; chi ha visto in Virgilio un rigido monoteista e chi ne ha evidenziato con forza il carattere di fervente e convinto politeista. Prima del volume della Lefkowitz, il saggio migliore sull’argomento era il bel volume di Denys Feeney, The Gods in Epic, del 1991, riedito in seconda edizione aggiornata nel 1993. Nel suo libro, Feeney difende la verità di comportamento degli dèi virgiliani, la loro irripetibilità di esseri dotati di un preciso carattere, una psicologia, una capacità di agire e reagire diversa da singolo a singolo. Attraverso l’analisi dell’atteggiamento di Giunone nel primo libro del poema, lo studioso sottolinea come sia proprio la serie di pensieri e di azioni della dea a dare grandezza alla sua persona. Feeney segnala anche che sarebbe stato impossibile tentare un’epica di tipo omerico senza assegnare un ruolo importante agli dèi – che potranno dunque essere simboli, ma nello stesso tempo sono, e devono essere, figure umane ben tipizzate, con una loro vita autonoma. Un po’ quello che Proust diceva di certe immagini di Giotto quali l’Invidia degli Scrovegni, simbolo e figura allegorica, ma altresì immagine di straordinario realismo, un concentrato di ciò che sono l’ira e una persona adirata. E ancora: sempre Feeney aveva già ricordato che senza dèi dotati di individualità propria non potrebbe realizzarsi quell’unione di mito e di Storia che è il vero scopo dell’Eneide. Ma per Feeney gli dèi virgiliani sono pur sempre caratteri creati dal poeta su un fondo preesistente, da lui completamente rifatto e reso elemento della letterarietà del poema, personaggi fra i personaggi e come tutti i personaggi indirizzati a uno scopo sostanzialmente narrativo. È invece possibile andare in un’altra direzione e scommettere sulla consistenza degli dèi virgiliani quali esseri dotati di un modo di pensare ‘esterno’, estraneo e indipendente da quello del poeta, soltanto entro certi limiti da lui costruito. Ciò non significa negare né il peso delle convenzioni letterarie, né che alle spalle del poeta ci sia una religione di stampo romano; Virgilio, poi, fa opera di poeta, non di filosofo o di teologo. Ma in ogni caso, per Virgilio e i suoi lettori dietro al testo poetico c’era un tema più ampio e generale – la fragilità e l’ansia di remunerazione dell’uomo – di cui gli dèi della tradizione si fanno interpreti e portatori. E questo tema è la manifestazione di un’inquietudine che non nasce in uno spazio vuoto, ma si fonda su una linea continua, sviluppatasi a partire dall’età arcaica greca; linea nel cui svolgimento Virgilio segna solo una tappa. Lungo questa strada, il poema virgiliano si segnala proprio per quello ‘sguardo lungo di Giove’, che ho già ricordato. Con Virgilio cambia il rapporto fra l’uomo e la divinità, cambio che si traduce in un diverso peso della divinità sulla storia (fabula), e di conseguenza anche sulla Storia. Non è un gioco di parole. Il Giove virgiliano è, in certa misura, bifocale. Vede bene ed estende il suo volere alla Storia lontana, all’evolversi dei secoli, ad avvenimenti che cadono fuori dal racconto e dai suoi limiti; ma sembra poco interessato all’immediato narrativo. Manda Mercurio a rendere malleabili i Cartaginesi allorché i Troiani sbarcano sulle coste libiche (1, 297-304), ma non si preoccupa di redarguire Giunone, responsabile di quel naufragio, né di quanto avverrà dopo. Sicché, quando Iarba lo costringe a rivolgere di nuovo lo sguardo alle coste africane (4, 203-218), lo vediamo ‘distratto’, intento ad altro, disperso nella concentrazione (4, 220 oculos … ad moenia torsit: dove li teneva prima?). Stesso discorso per gli avvenimenti successivi. Giove non si occupa di Didone, come non se ne preoccupano Giunone e Venere, sebbene la prima, almeno formalmente, sia la protettrice di Cartagine e della sua regina; né Giove fa alcunché per impedire o mitigare i combattimenti nel Lazio. L’effetto è sconvolgente. I lettori virgiliani – ma il discorso vale anche per i personaggi di Virgilio – vengono progressivamente a scoprire una verità che domina il caos: e cioè che gli dèi potrebbero facilmente comporre le liti che li dividono e che viceversa rovesciano e amplificano sui mortali; ma di fatto, quando prendono la decisione di riconciliarsi fra loro, lo fanno con la stessa facilità con la quale, prima, avevano litigato. Mentre pari facilità non c’è per i mortali: sicché essi ereditano colpe e litigi non propri; se ne impossessano; li ingigantiscono; li trasformano in ragione esistenziale; poi faticano a liberarsene, e in loro nome vivono, combattono, muoiono, vittime di un gioco di cui gli dèi si sono sbarazzati, ed al quale gli uomini, al contrario, non sanno sottrarsi.
Tutto ciò comporta un rapporto con la divinità fondato in gran parte sulla distanza, che è un lascito della tragedia greca, ma un lascito che in Virgilio si ingigantisce. Parlando dello Ione (una tragedia sottovalutata di Euripide: per i suoi rapporti con l’Eneide si veda però già M. Fernandelli, ‘Banchetto a teatro e teatro a banchetto: presenze dello “Ione” di Euripide nel libro I dell’Eneide’, Orpheus n.s. 23, 2002, pp. 1-28), Lefkowitz scrive: “Il coro chiude il dramma con una riflessione sull’importanza per gli uomini di regolare le proprie attese sul tempo degli dèi … È pur vero che ai mortali spetta di avere pazienza,perché gli dèi hanno i loro tempi … Ma il dramma chiarisce pure che l’essere di per sé ‘buoni’ non potrà mai bastare ai mortali come garanzia di ottenere ciò che si è meritato”. Sostituiamo a ‘buoni’ il termine latino pii, e siamo già dalle parti dell’Eneide. Nel poema virgiliano gli uomini imparano che un comportamento irreprensibile non è una difesa. Laocoonte, sacerdote di Apollo (in Virgilio, di Nettuno), diviene vittima dell’ira divina nel momento in cui esercita le sue funzioni sacerdotali (2, 199-231). Panto, altro sacerdote di Apollo, protetto dall’infula sacrale, è il solo, oltre ad Anchise e ad Enea, che sia degno di toccare i Penati (2, 318-335 e 429-430); Rifeo è il più giusto dei Troiani, 2, 426-428 – tanto da rendere possibile la sua assunzione nel cielo di Dante, Pd. 20, 67-72. Ma né Panto né Rifeo si salvano: la pietas non basta contro il decreto che condanna tutti i Troiani, ad eccezione di pochi, diversamente selezionati. I personaggi dell’Eneide scoprono che degli dèi non ci si può fidare, nemmeno quando appaiono benevoli: essi omettono dettagli importanti (Enea, ad esempio, non viene avvertito della necessità di perdere la moglie, 2, 735-740 e 777-779, né della morte che attende il padre, 3, 710-715); si servono di chi, in teoria, dovrebbero guardare con benevolenza, come Didone e Giuturna; ingannano in vario modo. C’è una scena nella quale vediamo un dio arrivare, con le sue illazioni, perfino alla soglia della calunnia. È quanto fa Mercurio – signore della menzogna a priori, e di questo si dovrà tener conto. La scena è la seconda apparizione ad Enea, nel quarto libro, vv. 560-570. Mercurio invita Enea a fuggire precipitosamente da Cartagine, a non fidarsi della regina tradita e delusa: varium et mutabile semper / femina. E aggiunge: decisa a morire, Didone agita pensieri di morte anche per te; se indugi, all’alba vedrai il mare rilucere di fiamme e riempirsi di navi – la flotta lanciata all’inseguimento di quella troiana (4, 566-568 Iam mare turbari trabibus saevasque videbis / conlucere faces, iam fervere litora ammis, / si te his attigerit terris Aurora morantem). Ma i lettori seguono passo per passo i pensieri di Didone, il loro farsi e disfarsi. E sanno che la regina non si è proposta, fino a quel momento, una simile possibilità. Anzi, nell’ultimo soliloquio che immediatamente precede l’abbiamo vista ipotizzare ancora di potersi accompagnare ad Enea, da sola o con i più fedeli dei suoi concittadini (vv. 537-546). Sarà più tardi, dopo e non prima delle parole di Mercurio (vv. 591-594) che il pensiero di reagire farà capolino nella sua mente: Ite – dirà allora ai suoi uomini, peraltro assenti dalla scena – / ferte citi flammas, date tela, impellite remos! (per inseguire la flotta e darle fuoco). Ma subito si domanda, v. 595: Quid loquor? Aut ubi sum? Quae mentem insania mutat? e il pensiero le esce di testa – se mai si può dire che vi sia entrato.
Possiamo continuare un poco. Gli dèi virgiliani talora si schierano senza giustificazioni: è quanto avviene con Marte, che appare, Aen. 9, 717 – lui, che pure sarà padre del fondatore di Roma! – fra le divinità alleate dei Latini. Ma gli dèi sono lontani, non conoscibili e inaffidabili anche per chi proteggono. Venere ed Enea, madre e figlio come Teti ed Achille nell’Iliade, si incontrano uno di fronte all’altra, nel poema, solamente tre volte: a Troia Venere invita Enea alla fuga e gli mostra l’ostilità in atto di tutte le altre divinità, così da convincerlo a partire (2, 589-623); però, come abbiamo visto, si dimentica di indicare al figlio il prezzo doloroso che l’attende, né gli dà indicazioni circa la destinazione e le peripezie che dovrà affrontare – cose che Enea è costretto ad apprendere da solo. Il secondo incontro avviene a Cartagine: Venere sta operando per il figlio, ma Enea non ne ha coscienza e arriva a dubitarne. Quando i due si parlano, Venere è in incognito; la maschera cade solo al momento in cui si allontana (1, 314-410). Ben diversamente, Teti nell’Iliade giungeva da Achille a consolarlo sulla riva del mare e gli appariva di persona, senza camuffamenti; mentre nel tredicesimo libro dell’Odissea Atena poteva conversare con il suo beniamino mettendo da parte il consueto apparato di inganni e di trappole al quale entrambi avevano inizialmente fatto ricorso, quasi come una seconda loro natura. Ma tra Venere e il figlio non c’è colloquio, non c’è confidenza, non c’è intimità, mai. Nel terzo incontro, anzi, la madre si limita a un frettoloso abbraccio e a poche parole per consegnare le armi promesse, e non attende nemmeno la risposta di Enea: Enea per il quale, peraltro, prima si era data non poco da fare, convincendo un esitante Vulcano a costruire le nuove armi, necessarie alla guerra (8, 608-616). Certo, questo non è che un risultato di quel mondo stilizzato tipico dell’Eneide, che poi è il mondo romano nel suo complesso, poco propenso a smancerie e gesti di affettività. Anche fra Enea e Ascanio non c’è colloquio fino alla fine del poema (12, 435-440). È però significativo che, al contrario, fra Enea e il padre troviamo ampie manifestazioni d’affetto, oltre che di rispetto, manifestazioni che l’eroe troiano invano rivendica dalla madre. Anzi, mi pare particolarmente significativo che nel poema virgiliano sia sempre Venere a imporsi al figlio; il quale, se vuole conforto e consolazione (o aiuto pratico), deve rivolgersi non alla madre, ma ai sacerdoti di Apollo, ministri umani di un culto diverso da quello familiare. Non è che Venere non si dia cura del figlio, tutt’altro: e basti ricordare l’invio delle colombe così da consentire a Enea di trovare il ramo d’oro, necessario alla discesa negli Inferi (6, 183-200), o l’intervento con il dittamo a curare l’eroe ferito poco prima del finale del poema (12, 411-429). Ma lo fa come una dea, distante e impegnata nel proprio compito; non come una madre che interviene ad aiutare e consolare il figlio, e nemmeno come una divinità che risponda dappresso all’invocazione del primo dei suoi fedeli.
Quanto ho detto per Venere vale anche per tutti gli altri dèi virgiliani (che sono sostanzialmente quattro: oltre a Venere, Giove, Giunone e Apollo, quest’ultimo solo marginalmente presente nell’azione, e più attraverso oracoli e sacerdoti che in prima persona – dove anzi lo vediamo operare in un episodio marginale del racconto, 9, 638-663). Giove non fa nulla per rendere la vita più facile ad Enea, e questo sebbene Enea non lo abbia mai offeso personalmente. Così avviene anche per Giunone, che ad Enea fa scontare solo la colpa di essere troiano. Quanto ad Enea, lui può trovare conforto in quel futuro glorioso della sua gente che più volte gli viene pronosticato: ma di quel futuro radioso, per parte sua, non vedrà nemmeno l’inizio, né avrà tempo di gioire della vittoria: poco dopo avere sconfitto e ucciso Turno, la morte attende pure lui, come più volte viene ripetuto nel poema. Ne consegue che Enea non tragga grande piacere dalla propria esistenza e non sia sempre nemmeno consapevole di ciò che gli dèi hanno in serbo per lui. Attraverso questa contraddizione, Virgilio fa capire che cosa significhi farsi carico di una grande missione dovendosi confrontare con l’ostilità divina e potendo contare solo occasionalmente sul sostegno di divinità favorevoli. Certo, l’eroe troiano è cosciente che senza l’aiuto degli dèi non sarebbe arrivato mai sul suolo italico, e di quell’aiuto non può fare a meno neppure quando si tratta di stabilire il nuovo insediamento in Italia; ma quel trasferimento va contro i suoi espliciti desideri (4, 340-344), è la rassegnata obbedienza a un ordine che non lo riguarda da vicino e che non capisce nemmeno fino in fondo (4, 345-347). Così come incomprensibili restano, per lui, le lotte nel Lazio. Mai Virgilio ci fa dimenticare (o fa dimenticare al suo eroe) che la guerra è stata causata da una dea e che un accordo fra gli dèi avrebbe potuto fermarla … Anche nell’Iliade l’ira è causa di morte e dolore, ma nell’Eneide si tratta dell’ira di una divinità, perciò più potente e irragionevole perfino dell’ira del massimo fra i guerrieri Come scrive giustamente la Lefkowitz, “In quest’epoca più recente [alias, l’età di Virgilio] le forme esteriori della religione tradizionale non sono mutate, ma i poeti hanno cominciato a farcene comprendere con maggiore precisione i limiti di adeguatezza”. Compito delle generazioni successive sarà sottolineare ulteriormente i limiti di questa ‘adeguatezza’ e cercare formule sostitutive. Ma, a quel punto, la storia degli dèi greci sarà giunta alla fine.
Due piccoli corollari vorrei ancora aggiungere a questo post: il primo consiste nel sottolineare come il quadro delineato faccia sì che Enea, come Turno, Didone e tutte le altre vittime del poema (tale si può considerare perfino Enea) siano figure in certa misura fortemente individuate, ma nel contempo siano pure figure/simbolo dell’intera umanità. Ci troviamo cioè un passo avanti in quel processo di ‘trasformazione in romanzo’ dell’epica che culminerà nelle Metamorfosi apuleiane, nelle quali non troviamo più un eroe simbolo dell’umanità in generale, come Enea, ma un uomo qualunque, Lucio, figlio di nessuna dea, eppure ugualmente protetto dalla benevolenza di Iside e innalzato agli stessi dilemmi di Achille e di Enea. Il secondo corollario è questo: ferma restando l’immagine dei rapporti fra dèi e umani in Virgilio delineata finora, è giusto aggiungere che due elementi arricchiscono, completano, ma anche complicano il quadro. Uno è il richiamo, da parte di Niso, alla dira cupido (quella che gli uomini eleggono a loro specifica divinità) a 9, 184-185, all’inizio di un episodio famoso. Di fronte al progetto di una grande impresa, Niso, parlando all’amico Eurialo, si chiede infatti: … Dine hunc ardorem mentibus addunt,/ Euryale, an sua cuique deus fit dira cupido? E di dira cupido avevano già parlato la Sibilla rivolta a Palinuro, 6, 373 (per un’azione che vorrebbe violare tutte le leggi dell’Oltretomba), e soprattutto, in termini filosofico/religiosi, Enea nel colloquio dei Campi Elisi con il padre: … Quae lucis miseris tam dira cupido? (6, 721, in riferimento alle anime purgate e desiderose di tornare a nuova vita sulla terra). L’altro elemento è costituito da una categoria intermedia di divinità, quella degli dèi minori, che furono uomini e ora sono dèi. Il divario uomo/dio è infatti rotto in almeno tre modi all’interno dell’Eneide: attraverso le similitudini, che abbassano gli dèi al rango di umani, come nel caso di Vulcano paragonato alla donnetta che si sveglia nel cuore della notte per tessere e sostentare così la propria vita, 8, 407-415, o dell’oratore che placa la folla e Nettuno che seda la tempesta, 1, 148-15. Poi ci sono le divinità indigetes, il destino che attende anche Enea dopo la sua morte, senza dimenticare figure già riconosciute ufficialmente come Fauno, Pico, Carmenta, Giuturna e soprattutto Ercole (ridotto al silenzio e al pianto nell’episodio che lo vede in azione, la morte di Pallante, 10, 464-465; ma importante controfigura di Enea e di Augusto nel libro ottavo). Proprio quest’ultimo libro dà corpo al terzo legame significativo fra mondo umano e mondo divino. Penso alla grande scena che inizia con i riti in onore del dio alla corte di Evandro, prosegue con la passeggiata di Evandro ed Enea sul sito dove sorgerà Roma, finisce con un invito esplicito ad Enea (vv. 364-365) … te quoque dignum / finge deo. Per quello che sappiamo di questa scena e delle sue valenze etiche e politiche – soprattutto politiche, per cui Enea lì è, grazie a una coincidenza di azioni e di date, sicura prefigurazione di Ottaviano di ritorno dall’Oriente – e per quello che ancora sappiamo dell’Eneide e della sua epoca di composizione, connessa a un’immagine della Storia che termina con la morte di Marcello, discendente naturale del principe, e quindi Storia che con quella morte vede rimesso in discussione il proprio sistema di valori e il proprio sguardo sul futuro, viene il sospetto che lì si nasconda il vero significato del poema. Opera legata alla tradizione, certo; però anche opera legatissima a un’attualità contemporanea, che è poi l’attualità della Roma augustea; nella quale le divinità e la mitologia servono soprattutto da modello di comportamenti e scelte che riguardano da vicino la quotidianità di chi scrive e dei suoi lettori.
© Massimo Gioseffi, 2016