La terza egloga presenta la gara pastorale fra Menalca e Dameta, sotto l’arbitrato di Palemone. L’egloga è nettamente divisa in due. La prima parte vede il litigio, in presa diretta, fra i due pastori, incontratisi casualmente, passati rapidamente agli insulti reciproci, e alla fine pronti a dimostrare il proprio valore sfidandosi nel canto. La seconda parte, nella quale includerei anche le due battute di Palemone, è la gara di canto propriamente detta. Lo svolgimento è amebeo, a botta e risposta, e si estende per dodici battute di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi. Palemone prima della gara ne fissa le regole, dimostrando però nello stesso tempo la propria abilità di cantore, e quindi la sua competenza a farsi giudice. Nella battuta finale, che suggella l’egloga, dichiara il verdetto: i due pastori si equivalgono, ed è impossibile scegliere l’uno piuttosto che l’altro. Palemone sancisce la fine della gara con una metafora agreste, v. 111: claudite iam rivos, pueri; sat prata biberunt, “chiudete i canali di irrigazione dei campi, perché l’acqua con cui sono stati irrigati i campi è sufficiente”. Il verso, nella sua interezza, o nelle due parti di cui si compone, è poi divenuto proverbiale.
Per il resto, distinguerei fra le due parti di cui si compone l’egloga. Nella cornice i riferimenti agresti non mancano, ma non assumono particolare importanza o specificità. Sul luogo dell’incontro, ad esempio, e sull’ambientazione topica dell’egloga, nulla ci viene detto. Nella serie di insulti che i due pastori si scambiano, vv. 10-11, Menalca accusa Dameta – in un modo un po’ tortuoso, ma comunque abbastanza esplicito – di avere danneggiato le viti novelle di Micone (un terzo personaggio che resta ignoto: il nome, che ricorre nella settima egloga, v. 30, potrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo, a indicare un giovane ragazzo), con una mala falx, una falce ‘maligna, malevola, che agisce male’, per dispetto o, più probabilmente, per gelosia. Della vite e della sua coltivazione già sappiamo abbastanza dalle altre egloghe, ed è ovvio che tagliare i tralci quando sono ancora in crescita è un gesto poco amichevole. Vittima dell’ira di Dameta, assieme alle viti, è anche un generico arbustum, un cespuglio di non si sa cosa, forse l’intrico stesso delle viti, specificato subito dopo. A ricambio dell’insulto, Dameta accusa Menalca di avere distrutto volontariamente, per esplicita gelosia, l’arco del giovane Dafni, che era stato regalato al ragazzo da qualche non precisato rivale (magari anche lo stesso Menalca?). L’azione sarebbe avvenuta, vv. 12-15, ad veteres fagos, “sotto i vecchi faggi”, pianta che ormai sappiamo essere un elemento costante del paesaggio virgiliano. In questa sezione dell’egloga troviamo una sola pianta finora sconosciuta. Al v. 20 Menalca accusa Dameta di avere rubato a un altro pastore, Damone, il caprone che quello aveva guadagnato in una gara di canto e di essersi poi nascosto, durante la fuga e l’inseguimento, post carecta, ‘dietro i carici’. Dameta non nega il fatto, ma afferma che il caprone spettava a lui, e che Damone aveva vinto la gara senza meritarlo davvero. A noi comunque interessa il termine carecta. E’ un neutro collettivo, sul modello di salictum = salicetum, ossia la macchia di salici, nella prima egloga, v. 54. La pianta, di cui si individua una macchia, propriamente si chiama carex, e da Linneo è stata identificata con un genere di Ciperaceae, piante acquatiche, o comunque adatte a vivere su substrati umidi, che si rinvengono facilmente negli stagni e nei terreni acquitrinosi. Sono spesso piante infestanti dei tappeti erbosi abbondantemente irrigati e si distinguono per il colore chiaro, la compattezza, le foglie coriacee. Si trovano un po’ dovunque, specie nelle zone temperate. Virgilio ne riparla nelle Georgiche, 3.231, definendo la carex come acuta e come possibile pasto di un toro rimasto separato dal resto della mandria, proprio perché è pianta molto diffusa, ma che non si trova su terreni comuni. Nel nostro caso, è quindi come se Dameta si fosse nascosto, per eludere gli inseguitori, in qualche palude, celandosi nella vegetazione di contorno alla stessa, sapendo bene che nessuno l’avrebbe inseguito in un luogo così disagevole.
Nella fase di cornice c’è un’altra apparizione del mondo vegetale. I due pastori, sfidandosi, decidono che cosa mettere in palio, come premio per il vincitore. Dameta propone una vitella della mandria che sta pascolando (è il premio che poi verrà scelto, e che a Dameta, pastore mercenario, che sta pascolando una mandria non sua, in fondo non costa molto). Menalca non accetta subito, perché teme di dover rendere conto dell’animale eventualmente mancante, al padre e alla matrigna, che a sera contano il bestiame. Propone allora delle tazze di faggio, cesellate con varie figure. Attorno a due personaggi umani (uno è l’astronomo Conone, l’altro non si sa bene chi sia), il fregio continuo è fatto di tralci di vite mescolati a foglie di edera. Della vite sono messi in evidenza i corymbi, ossia l’infiorescenza a grappolo. L’edera è pallens, il che individua l’hedera helix, a foglia bianca centrale, che è specie ornamentale e di maggior pregio.
Dameta non accetta la proposta, perché è già in possesso di due tazze di uguale valore e uguale materiale, cesellate con l’immagine di Orfeo che trascina le selve con il canto e, come fregio continuo, con foglie d’acanto. L’attributo mollis, ‘flessuoso’, con cui Virgilio designa questa pianta, indicandolo così come adatto a un fregio che contorni la struttura circolare di una tazza, identifica l’attuale Branca ursina, una pianta acclimatata in Italia come pianta ornamentale dei giardini (i capitelli corinzi, com’è noto, ne riproducono le foglie). L’acanto cresce in terreni incolti e aridi, sotto forma di macchie di cespugli, dal livello del mare fino ai 700 m circa di altitudine. Le foglie erano usate fin dall’antichità contro le irritazioni cutanee, e anche per questo la sua coltivazione è sempre stata abbastanza diffusa.
Venendo alla parte propriamente detta della gara, va tenuto conto del carattere molto stilizzato della stessa. Già Palemone, nella sua battuta introduttiva, vv. 55-57, fa riferimento ad elementi piuttosto generici, per descrivere un locus amoenus entro cui svolgere il confronto: parla di mollis herba, di ager e arbos che parturiunt (una bella, ma facile metafora), di silvae che frondent, di annus (‘stagione’) formosissimus. Il primo termine agreste lo troviamo in un distico di Menalca, vv. 62-63, che ricorda alloro e giacinto come piante sacre ad Apollo (in alloro si metamorfizzò Dafne, vanamente amata dal dio; Giacinto era un giovane amato anch’esso da Apollo, e da questi inavvertitamente ucciso). Il giacinto è qui raffigurato come suave rubens, ‘rosseggiante’
Dameta, vv. 64-65, ricorda invece la bella e vezzosa Galatea, che ama provocare i suoi possibili innamorati lanciando loro delle mele, per farsi notare, ma fugge poi, ritrosa quanto si conviene a ragazza di buoni costumi, a nascondersi fra i salici, quei cespugli vicini ai corsi d’acqua e delimitanti le proprietà romane, che già conosciamo dalla prima egloga, e che ben si adattano a Galatea, specie se Galatea fosse la ninfa marina, e non una qualsiasi pastorella (un dubbio che nell’egloga permane). Peraltro, Galatea si nasconde sì, come convenzione sociale vorrebbe, ma fa in modo che il pastore veda bene dove si è nascosta, e possa quindi facilmente raggiungerla e proseguire i loro giochi.
In uno scambio di distici dedicati ai doni per gli amanti, Menalca ai vv. 70-71 promette di inviare a un suo puer non meglio identificato dieci mala aurea tratti da un albero silvestre, e altri dieci gliene promette per il giorno dopo. E’ discusso se si debba pensare a mele rosse molto appariscenti, di particolare maturazione e brillantezza; alle mele dorate delle Esperidi (un frutto mitologico); a qualche altro frutto specifico, e diverso dalle mele comuni, come potrebbero essere le mele cotogne, cydonia oblonga – anche se il loro sapore aspro le rende improbabili come pegno d’amore, ed è solo con la cottura che si enfatizza in loro la presenza degli zuccheri, utilizzati ad esempio per la cotognata, un dolce di carattere gelatinoso.
Nei distici dei vv. 80-83 i due contendenti paragonano i rispettivi amati, Amarillide e Aminta, a cosa spiacevoli il primo (perché Amarillide è descritta irata), a cose piacevoli il secondo (perché Aminta è ben disponibile alla compagnia). Nell’elenco molti sono i riferimenti agresti: il vento è pericoloso per gli alberi, la pioggia per le messi pronte al raccolto; d’altra parte, ai campi coltivati piace l’irrigazione, alle pecore la lenta salix, il salice flessuoso, ai capretti l’arbutus. Si tratta dell’arbutus unedo, o ‘corbezzolo’ e ‘albatro’, una pianta cespugliosa sempreverde, molto frequente nella macchia mediterranea, dai frutti rossi e gialli, ma dai colori comunque sempre vivaci, commestibili e dolci al gusto.
In un makarismos indirizzato ad Asinio Pollione, protettore del poeta al tempo della composizione delle Bucoliche, Dameta si augura che in onore del suo patronus il miele possa scorrere a rivi, e l’ispido rovo – probabilmente la mora selvatica, ma il termine come già sappiamo è generico – possa produrre l’amomo, v. 89. Si tratta evidentemente di un adynaton. Quanto il rubus è senza pregio, tanto l’amomo, il cardamomo odierno (elettaria cardamomum), è frutto prezioso, di origine orientale, dai piccoli semi di sapore aromatico e bruciante, utile contro tosse, raffreddore, infiammazioni gengivali e mal di denti.
Al v. 82 Dameta invita dei non meglio identificati pueri, usciti per cogliere le fragole di bosco, a stare attenti al serpente (probabilmente, una vipera) che si nasconde / si può nascondere nell’erba.
Al v. 100 Dameta lamenta infine che il suo toro rimanga magro nonostante non gli manchi il pascolo. La causa di tale magrezza viene individuata nella passione amorosa, anticipando tutta quella sezione delle Georgiche in cui proprio gli amori fra bovini assurgono a simbolo della forza e della follia della passione amorosa. I codici parlano di un toro macer nonostante sia pingui in arvo o, a seconda dei testimoni, pingui in ervo. Quest’ultimo sembra il termine più esatto: arva per Virgilio sono di norma i campi coltivati, arati. Ervum è invece la moderna vicia ervilia, o vecciola, una leguminacea – dunque, una pianta ad alto valore nutritivo – simile alle lenticchie, ma soprattutto ancora oggi usata come mangime di alto potenziale per ovini e bovini.
Siamo all’ultimo passaggio. La gara si conclude con due indovinelli, che, nonostante i molti tentativi fatti, non hanno ancora trovato piena spiegazione. Dameta chiede quali siano le terre in cui il cielo è visibile per uno spazio non più vasto di tre ulne (alias tre cubiti: un cubito misura ca. 50 cm). Menalca risponde chiedendo in quali terre nascano i fiori che recano iscritto il nome dei re. Su quale fiore sia così individuato, non esiste dubbio: è il giacinto, che già conosciamo, e nei cui petali gli antichi vedevano le iniziali YA- e AY- dei nomi di Giacinto, appunto, e Aiace. Poiché però il fiore aveva, secondo il mito greco, questa doppia origine, dall’uno o dall’altro eroe, nell’incertezza di quale sia la soluzione caldeggiata da Menalca, l’indovinello resta forzatamente senza risposta.
© Massimo Gioseffi, 2019