Man mano ci addentriamo nel Liber virgiliano, troviamo situazioni e piante già incontrate in egloghe precedenti. La sesta egloga è speculare alla quarta: una profezia che dall’hic et nunc del poeta (il consolato di Pollione) volge lo sguardo verso un futuro umanamente lontano, in una; una narrazione che dal formarsi del mondo dal Caos indiscriminato arriva fino alla stretta contemporaneità del poeta, nell’altra. La sesta egloga racconta, sotto forma di mito (come la quarta sotto forma di profezia), la Storia del mondo, dalle origini all’oggi di Virgilio, simboleggiato dalla proclamazione a poeta dell’amico Cornelio Gallo. Nelle trasformazioni che hanno dato origine al mondo non mancano le piante: viene da quel contesto la frase Incipiant silvae cum primum surgere (v. 39), adottata, come sappiamo, quale titolo del libro di Gigliola Maggiulli, che ci fa costantemente da guida.
L’egloga ha struttura complessa. I primi sei versi servono di introduzione programmatica; al mondo agreste riporta l’immagine di Thalia, la musa della commedia e, per estensione, della poesia bucolica, che non erubuit silvas habitare. Dal v. 6 al v. 12 c’è una dedica, a un Varo tradizionalmente identificato nel giurista cremonese Alfeno Varo. In questa sezione due, e di tradizione, sono i richiami al mondo vegetale. Il flauto del poeta è indicato con l’immagine usuale della canna, tenuis harundo, v. 8; la poesia virgiliana è sintetizzata nel richiamo alle myricae, v. 10, e al nemus, v. 11, in modo del tutto simmetrico a quanto visto nell’egloga quarta alla quale, dunque, rimando (nemus è, come sappiamo, interscambiabile con silvae, il termine attestato nell’altra egloga).
Dal v. 13 al v. 30 si estende la cornice propriamente detta. In essa si racconta di come due pastori (pueri, v. 14), con l’aiuto della ninfa Egle abbiano costretto il ritroso Sileno a donare loro un canto da tempo promesso, sorprendendolo al mattino, ancora sotto l’effetto delle abbondanti libagioni della sera precedente (Sileno era stato tutore di Bacco, e da questo suo ruolo conserva un’evidente passione per il succo dell’uva). La scena si ambienta in aperta campagna, nei pressi dell’immancabile grotta (v. 13). Pochi, però, gli elementi vegetali: sul capo di Sileno pende, secondo una consuetudine greca, una corona di fiori, che si era soliti porre in testa in occasione del convivio (v. 16). I fiori della corona servono ai due pastori per ricavarne dei legacci, vincula, parola e situazione più volte insistite (vv. 19 e 23). Si tratta, ovviamente, di legami molto fragili, quasi scherzosi, più di parvenza che reali. Ma Sileno d’altronde, una volta svegliatosi e capita la situazione, non sembra contrario a offrire il suo canto. Il volto del semidio al risveglio è rosso, perché così l’ha dipinto Egle, v. 22, utilizzando come colorante il succo delle more selvatiche, il rubus ulmifolius. La ragione del gesto nel complesso ci sfugge; ma certo Sileno, così dipinto, assomiglia più che mai a una statua oracolare.
L’ultimo riferimento botanico di questa prima parte si riferisce all’effetto del canto di Sileno, che fa sentire la sua azione su creature e animali selvatici (Fauni et ferae, v. 27), ma anche sulle piante. Le rigidae quercus ondeggiano muovendo ampiamente la loro chioma, come per assenso alle parole del semidio (v. 28).
Anche il finale dell’egloga presenta elementi di cornice (vv. 82-86). Del canto di Sileno si dice infatti che è un canto famoso, che era stato composto da Apollo – il dio della poesia – che se ne avvalse mentre viveva sulle rive dell’Eurota (il fiume di Sparta e della Laconia tutta, sulle cui sponde il dio corteggiò inutilmente Dafne e amò tragicamente Giacinto). L’Eurota si era fatto interprete e memoria di quel canto, lo aveva insegnato alle piante di alloro che sorgono numerose lungo il suo corso, e da quelle piante, presumibilmente, lo deve avere appreso Sileno. Il legame alloro/Apollo è comunque tradizionale, così come quello alloro/poesia, visto che di corone di alloro si incoronavano i vincitori delle gare pitiche, che prevedevano competizioni per musicisti e poeti.
Veniamo al canto vero e proprio. Sileno rievoca la formazione del mondo, con linguaggio fortemente epicureo. Le piante sono, come s’è detto, un elemento di questo processo, ma non particolarmente insistito (vv. 31-40). In seguito, Sileno traccia una storia dell’umanità dalla conquista del fuoco al diluvio universale (l’ordine, nell’egloga, è inverso), al mito degli Argonauti e della nave Argo, la prima a solcare i mari. Dal v. 45 in poi, Sileno si concentra sulla figura di Pasifaë, la mitica moglie del re Minosse di Creta, che, per una vendetta di Afrodite, si innamorò di un bianco torello con il quale, alla fine, concepì il Minotauro. Virgilio si interessa soprattutto alla parte dolorosa della storia, quella dominata dall’impossibilità pratica di un’unione fra una donna e un toro, e dal dolore che ne consegue nell’animo di lei, dominato da una passione forzatamente insoddisfatta. La vicenda si presta a introdurre diversi elementi vegetali: mentre Pasifaë vaga incessantemente sui monti, alla ricerca di un amato che sempre le sfugge (perché liberamente al pascolo; e perché, ovviamente, non capisce le attenzioni della donna), il torello, tranquillamente sdraiato sull’erba (molli fultus hyacintho, v. 53), rumina l’erba rendendola pallida con i succhi gastrici (pallentes ruminat herbas, v. 54), all’ombra di un leccio (ilice sub nigra), o, se proprio ne ha voglia, presta le sue attenzioni alle altre mucche della mandria. Il giacinto naturalmente non può sorreggere un toro, né costituisce il componente primario di un campo. Ma un campo ricco di giacinti selvatici (da non ricercare necessariamente in montagna) è un campo fiorito, florido, invitante, nel quale è bello pascolare e fermarsi a ruminare. Quanto al leccio, è una new entry nell’immaginario bucolico virgiliano. Noto anche come elce, appartiene al genere delle querce (quercus ilex è il suo nome scientifico), ed è, come quelle, pianta spontanea nei nostri climi, anche se diffusa soprattutto lungo la costiera tirrenica, di longevità secolare ed ampie dimensioni (può arrivare ai 20 m di altezza e ai 4/5 di diametro) e fitto fogliame scuro (nigra). Una ilex sovrastava, stante la testimonianza di Orazio, il fons Bandusiae probabilmente situato nel suo possedimento in Sabina (carm. 3, 13).
Messa da parte una fuggevole allusione ad Atalanta e alle mele d’oro delle Esperidi (che non sono piante reali), v. 61, un altro mito ad alto tasso botanico, diciamo così, è quello delle sorelle di Fetonte che, dopo il recupero e il seppellimento del cadavere del fratello (fulminato da Giove per i disastri procurati guidando con imperizia il carro del Sole), addoloratesi oltre misura, furono trasformate in ontani. Il narratore esterno dice che, vv. 62-63, con il suo canto (o forse meglio, ‘nel suo canto’, all’interno dei temi trattati), Sileno le musco circumdat amarae corticis, e poi le solo proceras erigit alnos, “le circonda con l’amara corteccia di muschio” (non è il muschio ad avere corteccia, naturalmente, ma l’alnus; il muschio si estende sulla corteccia delle piante) e “le fa sorgere dal suolo trasformate in alti ontani”. L’ontano, alnus glutinosa, è una pianta arborea alta 10 e più metri, che vegeta un po’ in tutta Italia dal livello del mare fino ai 1000/1200 m di altitudine, con una certa preferenza per la regione delle Prealpi e dei laghi prealpini. L’ontano ama infatti i terreni umidi, acquitrinosi, quando non addirittura paludosi, e i corsi d’acqua: il che si adatta perfettamente al mito di Fetonte, secondo tradizione caduto nelle acque del fiume Eridano (sia questo, o no, l’attuale Po). La corteccia dell’ontano ha proprietà curative, e viene perciò utilizzata in decotti di odore gradevole, ma sapore amaro (amarae corticis).
Quanto al muschio, si tratta di pianta pioniera, ossia tra le prime a insediarsi per colonizzare un ambiente, che ama anch’essa l’umidità ed è capace di trattenere una grande quantità d’acqua per lunghi periodi, per poi rilasciarla lentamente nell’ambiente circostante. Una pianta di muschio è formata da piccoli fusti e da foglie microscopiche, prive di tessuti vascolari e di vere radici. La funzione di ancoraggio al terreno è infatti svolta da strutture filamentose sotterranee, i rizoidi, attraverso i quali la pianta si espande a coprire la massima superficie possibile.
La scena centrale dell’egloga è però costituita dall’investitura poetica di Cornelio Gallo, vv. 64-73. Essa si svolge lungo le rive del Permesso, il fiume che scende dall’Elicona, già luogo sacro alle Muse nella poesia esiodea. Proprio Esiodo è esplicitamente nominato come predecessore di Gallo. A celebrare la grandezza di questi, arrivano Apollo e tutto il corteo delle Muse. La cerimonia vera e propria viene compiuta tuttavia da Lino, mitico cantore e figlio di Apollo, già evocato nella quarta egloga. Lino ha sul capo una corona trionfale, fatta di generici fiori e di apio amaro, v. 68. L’apium graveolens, il banale sedano della nostra cucina (secondo altri, il prezzemolo), è pianta usata per incoronare i vincitori dei giochi Nemei, che al loro interno prevedevano anche gare di canto. I giochi erano stati istituiti, secondo la tradizione, per una circostanza luttuosa, e Lino, a sua volta, era considerato il fondatore del genere elegiaco, praticato da Gallo, ma che in origine era utilizzato soprattutto per le lamentazioni funebri. Ciò spiegherebbe l’aggettivo amarum, che mal si addice al sedano in sé (o al prezzemolo).
Nel corso dell’investitura, Lino consegna a Gallo una zampogna, indicata con l’immagine tradizionale dei calami, v. 69. Dello strumento si dice che con esso Esiodo fosse stato capace di smuovere le piante, come un novello Orfeo. L’immagine è espressa con la scena delle rigidae orni che, al suono della zampogna, abbandonano i monti e seguono il cantore (v. 71). L’ornus, o più esattamente fraxinus ornus, in italiano detto anche orniello o frassino della manna, è pianta di media altezza (in genere non supera i 10 m), diffusa un po’ in tutta Italia, ma specialmente nelle regioni alpine e prealpine del Nord, fino a un’altitudine di 1200/1500 m, e in quelle appenniniche, fino a un’altitudine massima di ca. 1000 m. E’ pianta robusta, capace di ripopolare terreni desertici, che si usa anche come ornamento dei giardini in virtù della sua ampiezza e della bella fioritura tardo primaverile, oltre che, alle volte, per il suo legname. Ha radici tenaci e robuste, che impediscono al terreno di franare, ma forma slanciata, che non impedisce alla restante vegetazione di crescere alla sua base. Il fogliame è leggero e viene mosso con facilità dal vento: caratteristiche che, nel loro complesso, possono spiegare sia l’habitat montano assegnatogli da Virgilio, sia l’idea di una complessiva rigidità, eccezionalmente però scossa, come sono scosse dal vento le chiome dell’ornus.
© Massimo Gioseffi, 2019