Dopo due post dedicati alla pars destruens, mi sembra necessario dedicarne uno alla pars construens. Abbiamo dunque stabilito che le Bucoliche non sono un racconto autobiografico delle vicende di Virgilio; non hanno scopo celebrativo nei confronti di Ottaviano Augusto; non creano il mito dell’Arcadia; non sono opera priva di contenuti realistici, tutt’altro. Che cosa sono, allora? Anche per questo darei almeno quattro risposte…
La prima, in realtà, l’ho già data in un post precedente, dicendo che le Bucoliche sono un instant book, scritto a ridosso degli avvenimenti che l’hanno provocato (i fatti che vanno dal 42 al 40 a.C. – anche se nel libro è incluso un probabile riferimento al trionfo di Pollione che ci riporta al 39 [anno di conseguimento del trionfo] o al 38 a.C. [anno della sua celebrazione, dopo il ritorno di Pollione a Roma]). Per fare un parallelo, la monografia sallustiana sulla Coniuratio Catilinae è esattamente contemporanea alle Bucoliche (si data fra il 44 e il 40 a.C.), ma racconta avvenimenti del 63 a.C., cioè di circa 20 anni prima. E’ come se oggi tornassimo a raccontare la fine della cosiddetta “Prima repubblica”: certo, per uno della mia età è storia contemporanea; ma per i giovani, non erano neanche nati. Virgilio intuisce invece che il secondo triumvirato e le espropriazioni dei campi, azione simbolo di quella magistratura, costituiranno lo “shock generazionale”, come l’ho chiamato prima, della sua generazione. E a questo shock reagisce con la propria opera, che quegli avvenimenti, con i loro strascichi, ampiamente, duramente commenta.
C’è un secondo elemento, di carattere più letterario, che rende le Bucoliche virgiliane un’opera di valore storico. Per noi, sono il primo libro di poesia latina (non epica) che ci sia arrivato organizzato così come l’ha voluto l’autore. Dopo il naufragio della poesia arcaica, il libro catulliano non segue un’organizzazione autoriale. I testi vi sono stati riorganizzati dopo la morte di Catullo, e infatti sono disposti per metro e per associazioni interne, ma non seguono una logica unitaria e consequenziale (prova ne sia che uno dei primi, l’11, si presenta come l’addio definitivo a Lesbia, sebbene debba essere ancora descritta ampia parte della storia d’amore vissuta con lei). Le Bucoliche seguono invece un ordine che fu certamente dato loro da Virgilio, come rivela una serie abbondante di riferimenti e di bilanciamenti interni. Del resto, gli antichi le chiamavano anche “egloghe”, e cioè, letteralmente, “testi scelti”: scelti nella loro disposizione, e non perché fossero solo una parte di quelli composti da Virgilio (nessuno dei poeti a lui contemporanei fa infatti riferimento a egloghe virgiliane differenti da queste). Qual è dunque questo ordine? E’ quello che in una delle “puntate” precedenti ho chiamato struttura a perno sull’egloga cinque. Mi spiego: la prima e la nona egloga (equidistanti dalla quinta: in entrambi i casi, ce ne sono in mezzo altre tre) trattano delle espropriazioni dei campi. La seconda e l’ottava (anch’esse equidistanti) contengono canti d’amore infelice; la terza e la settima sono gare di canto amebeo, ossia a botta e risposta; la quarta e la sesta hanno valore cosmologico: la quarta è una profezia che anticipa che cosa succederà del mondo da qui in avanti; la sesta racconta la storia del mondo dall’atto che per gli antichi lo costituì (non la sua creazione, perché la materia è sempre esistita; ma da un caos informe si passò a un insieme di cose ordinate, l’universo così come lo conosciamo) fino ad arrivare alla realtà contemporanea del poeta, a un hic et nunc che nell’egloga è rappresentato dalla celebrazione di Cornelio Gallo, amico e coetaneo di Virgilio, come massimo poeta della propria generazione. La quinta egloga è costituita da due canti, che si scambiano due amici incontratisi per caso, in quella che non è una gara poetica, ma un semplice gioco di cortesie. I due canti hanno un medesimo argomento, e cioè gli avvenimenti successivi alla morte di Dafni. Questo Dafni era un personaggio di Teocrito, anzi era il protagonista del canto che viene elevato in quello che per noi (e per Virgilio) è il primo idillio della raccolta teocritea, e quindi la composizione simbolo di quella stessa raccolta. In Teocrito si racconta infatti di come Dafni, di origine semidivina (suo padre è Hermes), per avere offeso Afrodite, dea dell’amore, fosse stato fatto innamorare da questa di una ninfa che non lo corrispondeva. Il canto teocriteo è l’estremo lamento di Dafni, che langue d’amore, si sta lasciando morire, e alla fine del canto si presume che muoia. Virgilio nell’egloga scrive il sequel di questa situazione: nel primo canto, la natura partecipa addolorata al lutto per la morte di Dafni; ma nel secondo Dafni, defunto, risorge e assurge in cielo, e la natura (e i pastori) celebrano con gioia l’avvenimento. D’ora in poi, Dafni non sarà magari più su questa terra, ma sarà pur sempre una divinità che assiste il mondo pastorale. Nella decima egloga, protagonista del canto è Cornelio Gallo, abbandonato, come sappiamo (da un post precedente) dall’amata Licoride. Gallo, addolorato per quanto gli è successo, canta la propria disperazione, cerca vani conforti, riconosce che nulla è possibile contro la forza d’amore. Nell’egloga, detto in altri termini, Virgilio sta ripresentando il testo e la situazione narrata da Teocrito, ma la ripresenta in abiti, diciamo così, moderni, mettendo a protagonista non il protagonista di Teocrito, non una figura mitologica al di fuori da ogni idea di tempo, ma la figura di un poeta suo contemporaneo. Allora, egloga quinta ed egloga decima sono come due commenti al testo teocriteo, due modi di attualizzarlo: continuandolo (quinta), rifacendolo ambientato nella contemporaneità (decima). Come si vede, ogni egloga rimanda dunque a un’altra, secondo uno schema simmetrico. Le simmetrie non si esauriscono qui: ad esempio, i canti amebei si compongono, nell’egloga terza, di dodici battute (per due concorrenti: quindi 24 battute in tutto) di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi; nell’egloga settima, l’altra egloga che si compone di una gara di canto, le battute sono invece solo sei (per due concorrenti: dunque, 12 in tutto), ma di 4 versi, per un totale comunque sempre di 48 versi. Nella seconda egloga, il pastore Coridone cerca di invitare a sé il bell’Alessi: un giovanotto si rivolge cioè a un altro giovane; nell’egloga ottava, simmetrica alla seconda, ci sono invece due canti, opera rispettivamente dei pastori Damone e Alfesibeo (che sono i cantori, non i personaggi). Damone canta l’amore di un giovanotto, che rimane senza nome, per la bella Nisa, che però, come sappiamo da un post precedente, sta per sposare e alla fine di fatto sposerà un altro; nel secondo canto, Alfesibeo dà invece voce a una ragazza, che potrebbe chiamarsi Amarillide, ma forse anche no, ma non importa. Questa ragazza, avendo amato Dafni, quando lui se ne è andato in città non l’ha più visto tornare; e ora ha intuito che non tornerà spontaneamente, e perciò ricorre a un rito magico, che dovrebbe riportarlo a sé (il finale non lascia molte speranze che il rito riesca però davvero). Allora, queste vicende d’amore includono prima una relazione m/m (maschio o “male”, all’inglese, che dire si voglia); poi una relazione m/f (male vs female, maschio e femmina); infine una relazione f/m (female vs male, una ragazza che ama un ragazzo). Lo so, in amore ci sono altre possibilità. Ma per un romano di I secolo a.C., farvi riferimento avrebbe trasformato le Bucoliche in un libro pornografico. E le Bucoliche volevano esplorare le possibilità dell’amore, non divenire pornografia.
Questo ci porta al terzo tema. Un po’ di anni fa, il critico (italianista) Franco Moretti ha coniato per i romanzi moderni, dal Don Quixote all’Ulysses di Joyce, l’espressione “opera mondo”, indicando con questa espressione quei testi che, sotto la superficie del racconto, vogliono esplorare tutte le possibilità del reale. Le Bucoliche sono un’opera mondo. Sui temi da essi delineati (espropriazioni; passioni d’amore; ruolo della poesia; visione cosmologica della Storia), le Bucoliche sviluppano tutti i casi “dabili”, che si possono dare, nella vita umana – almeno, entro i ristretti limiti della morale del tempo. C’è infatti l’espropriato costretto a lasciare le sue terre (Melibeo, egloga prima); quello che conserva le proprie terre (Titiro, sempre egloga prima); quello che rimane sulle sue terre, ma non più da padrone (Menalca, egloga nona). C’è il giovanotto che ama un altro giovanotto (Coridone, egloga seconda), quello che ama una ragazza (il personaggio di Damone, egloga ottava), la ragazza che ama un ragazzo (Amarillide, o comunque si chiami il personaggio cui dà voce Alfesibeo, egloga ottava). C’è la gara che finisce alla pari, senza vincitori né vinti (egloga terza) e quella che finisce con un vincitore e con un vinto (egloga settima). C’è la profezia rivolta al futuro (egloga quarta) e quella che guarda al passato (egloga sesta). Tertium non datur, dice un proverbio latino: in tutti i casi presi in considerazione, non si danno ulteriori possibilità oltre a quelle che ho già enunciato… Nel libro c’è però anche una continua riproposizione delle stesse situazioni: i tre innamorati delle egloghe seconda e ottava, per dirne una, sono tutti innamorati infelici, i cui oggetti di desiderio non ascoltano i loro canti: Alessi infatti non vi è presente; Nisa si sposa comunque con un altro; Dafni non sembra tornare davvero dalla città. Ma innamorato infelice è, nella decima egloga, pure Cornelio Gallo e l’amore, come la politica, si rivela così una forza che si abbatte sui personaggi delle egloghe, e li travolge senza che quelli vi possano opporre qualche resistenza. Ma ancora una cosa: il libro è unitario e punta alla complessità del reale anche nella sua struttura continuativa. Abbiamo già visto come a Titiro, che sembra conservare i suoi beni, si contrapponga Menalca (protagonista di un’egloga “più tarda” per chi legga il libro dall’inizio alla fine), che i suoi beni, invece, credeva di conservarli, ma li ha persi ugualmente. La poesia, dice lì uno dei personaggi, non è una difesa, è come una colomba di fronte a un’aquila. A Cornelio Gallo, celebrato come grande poeta nella sesta egloga (lo riconosce come tale addirittura Apollo in persona, il dio della poesia), fa seguito Cornelio Gallo che, nella decima egloga, è tradito dalla sua amata, viene da lei abbandonato, e per questo soffre come tutti i comuni mortali… Il libro non si limita a constatare e descrivere l’ampiezza del reale: si fa anche metro di giudizio di quel reale. L’uomo può illudersi, sperare, cercare rifugio nella poesia: ma deve sapere che sono illusioni, vane speranze, rifugi temporanei; alla fine, si è sempre travolti, dalle vicende storiche o dalla propria, interna passione amorosa…
Vengo rapidamente all’ultimo punto, per il quale mi richiamo a quanto ho detto prima dell’egloga quinta e decima in rapporto con Teocrito. Concetto essenziale nella visione romana della poesia è l’idea di aemulatio. Ciò significa che ogni poeta, per essere riconosciuto tale, prende a modello un precedente poeta e lo imita, cerca di dimostrare che gli è superiore, o almeno pari. Nel I secolo a.C., e fino a tutta l’età augustea, l’aemulatio si esercita in riferimento a poeti greci: Catullo omaggia Saffo chiamando Lesbia la propria donna amata (Saffo era nativa di Lesbo); Orazio, più o meno negli stessi anni delle Bucoliche, negli Epodi cerca di imitare Archiloco; nelle successive Odi si rifà ad Alceo. Virgilio sceglie Teocrito. Ma, come abbiamo visto, indica una idea nuova di aemulatio. Teocrito non viene imitato e semplicemente trasferito di peso nella realtà italica. Viene proseguito (il sequel) o riscritto in abiti contemporanei. Questo è l’unico modo legittimo, ci dice Virgilio, di riferirsi a un classico. Nell’Eneide il poeta proseguirà per questa strada continuando, e allo stesso tempo attualizzando, i poemi di Omero, nei cui confronti applica lo stesso schema che nelle Bucoliche aveva applicato con Teocrito. Dopo l’età augustea, l’aemulatio guarderà, per i propri modelli, ai poeti di questa stessa epoca, a cominciare proprio da Virgilio. E i poeti greci serviranno, semmai, per scavalcare i grandi dell’età augustea, e tornare così a delle radici grazie alle quali cercare un proprio posto nel mondo. Ma questa è un’altra storia, e non sarebbe giusto narrarla qui. Qui è giusto concludere dichiarando che per tutte le ragioni elencate, le Bucoliche a me sembrano un libro che non finisce mai di stupire. Ma non sempre le nostre letterature sono in grado di farcelo capire. La cosa migliore, allora, è leggerle, e leggerne quanta più parte possibile. Perché solo una lettura integrale può rendere conto di quella complessità che qui ho cercato di delineare.
© Massimo Gioseffi, 2020
PS Si ricorda che nella sezione “Testi” di questo sito si può scaricare il commento complessivo alle Bucoliche. L’opera è gratuita; se ne rispettino però i diritti d’autore.
Non si può che ringraziare il prof. Gioseffi per le osservazioni illuminanti di questi tre post. Illuminanti perché spiegano chiaramente che cosa possono o non possono essere le Bucoliche, libro essenziale, direi.
Ma il professore mi conosce bene e sa che ho sempre qualcosa da dire… Ma se la lettura e la letteratura non fossero anche discussione, allora perderebbero di interesse. Quindi, leggendo i post, mi sono venute spontanee alcune riflessioni. La prima riguarda i commenti di stampo autobiografico che ancora si trovano nelle storie letterarie. Purtroppo, abbiamo ereditato questo tipo di commento e, forse perché più facile da spiegare, si continua a ripeterlo. Io credo che ogni generazione – a parte lo shock specifico (il mio:l’11 settembre e un altro tipo di terrorismo), interpreti i testi a seconda della propria visione della letteratura e del mondo. Basti pensare ai Romantici: interpretavano in base alle loro idee innovative. L’interpretazione qui fornita mi sembra ottima e spero venga ripresa…. Le Bucoliche non sono facili da leggere, questo “instant book” – come ho potuto constatare tante volte – spesso non viene compreso, benché, come dice il professore, contenga tutto l’essenziale. A me non piace definire un libro come attuale, secondo me è un concetto limitante, preferisco definire “inattuali” alcuni libri fondamentali come le Bucoliche, perché proprio per il fatto di essere distanti da noi, possono dirci le cose più importanti, essenziali appunto. La difficoltà sta nel colmare la distanza tra noi e ciò che è inattuale (lo confesso, Nietzsche mi ha dato l’ispirazione….), perché solo così capiremo l’opera antica senza distorsioni e contemporaneamente capiremo qualcosa di più di noi stessi. Una prospettiva rovesciata anche, come diceva Florenskij per le icone russe e con altre intenzioni, una prospettiva che rispetti l’opera e la lasci nella sua epoca. Siamo noi a doverci avvicinare a lei.