Nella scultura ufficiale romana l’intento celebrativo superava il momento di astratto interesse formale. Ciò era possibile perché l’arte romana aveva trovato nell’uso pubblico il canale per veicolare messaggi celebrativi e politici a sostegno dell’ideologia al potere. In particolare, nel caso delle statue e dei ritratti a determinare l’effetto espressivo non era solo la tipologia della raffigurazione, ma anche il luogo in cui veniva collocata e l’inscrizione che l’accompagnava.
Inizialmente era il Senato che, riconosciuto il valore di un’azione, premiava il singolo cittadino attraverso una statua. La letteratura latina offre, a questo titolo, vari aneddoti: Plinio ha dedicato al tema diversi capitoli del libro XXXIV della Naturalis Historia; Tito Livio e Valerio Massimo chiariscono come queste onorificenze potessero essere ottenute da chiunque, senza che l’estrazione sociale o il sesso fossero delle barriere. Il primo, infatti, riporta l’episodio di Clelia (II, 13 – ricordato anche da Plinio, XXXIV, 28-29, e Virgilio, Eneide VIII, 651), ragazza romana ostaggio di Porsenna, dal quale riesce a liberare sé e altre donne e a fuggire a nuoto, meritandosi così la prima statua equestre della storia romana, disposta sulla via Sacra. Valerio narra invece la vicenda del puer Emilio Lepido (III, 1), troppo giovane per arruolarsi nell’esercito, ma già meritevole della corona civica, degli spolia del comandante avversario e della collocazione sul Campidoglio di una statua con la bulla e la toga praetexta.
A partire dalla tarda repubblica, crebbe notevolmente da parte dei singoli uomini politici la necessità di proclamare il proprio potere e lo status sociale attraverso nuove costruzioni o immagini, che divennero strumento di propaganda. Cesare si inserì in questa tradizione, sfruttando le onorificenze ricevute in seguito ai trionfi.
Le sue statue suscitarono, e suscitano ancora, grande incertezza (Zanker le definisce “irritanti”) sulle intenzioni monarchiche di Cesare. Già nel suo Foro, pur mostrandosi nelle vesti tradizionali del generale vittorioso con una statua pedestre e una equestre, Cesare risultava sprezzante delle regole repubblicane, dal momento che entrambe le statue erano loricate, mentre nei confini del pomoerium era vietato stare armati né potevano comparire raffigurazioni in armi. Ma altre statue tentavano di presentare Cesare addirittura come un dio o un semidio, senza che sia chiaro se fossero uno strumento di propaganda anticesariana o un tentativo mal riuscito di celebrazione da parte di quella cesariana. Fra queste si ricordano una statua in avorio che sfilava insieme agli agalmata degli dèi nella processione verso il Circo Massimo; un’altra collocata nel tempio di Quirino (con l’augurio di Cicerone che Cesare diventasse ben presto “collega” del dio), accompagnata dall’inscrizione “dio invincibile”, già epiteto di Romolo; infine, una terza eretta nell’area capitolina insieme a quelle dei re, in una collocazione alquanto ambigua, perché accanto a quella di Bruto, rappresentato con una spada sguainata. Così, l’antico e il nuovo liberatore erano collocati l’uno vicino all’altro, e se da un lato Cesare era posto alla stregua di Romolo e Bruto e si vedeva concessa pari dignitas, dall’altro i suoi detrattori non persero l’occasione di sottolineare la sua aspirazione al regno.
Con quest’ultima statua Cesare voleva dare rilievo al proprio ruolo di difensore della libertas Urbis, tema poi intensificato con l’innalzamento di una statua cinta sul capo dalla corona obsidionalis, interpretata come liberazione dello Stato dall’assedio degli avversari. A partire da quel momento le corone vennero sempre marmorizzate, diventando una caratteristica della ritrattistica romana successiva, mentre in precedenza sulle statue di chi meritava questi onori veniva posta una vera e propria corona. Anche dopo le Idi di Marzo le statue di Cesare non cessarono di creare divisione: da un lato i Cesaricidi aprirono fucine di smaltimento per fondere i metalli con cui erano state eseguite, dall’altro Ottaviano fece erigere altre rappresentazioni di Cesare divinizzato.
Sono meno controversi i ritratti di Cesare, fra i quali si trovano due esemplari a lui contemporanei: il cosiddetto Cesare Tusculum e quello rinvenuto nel Rodano presso Arles, la colonia cesariana di Arelate. Entrambi sono molto diversi dai ritratti postumi, più conformi alle idee e alla direttive espresse dal principato di Ottaviano.
Il viso del ritratto di Tuscolo (oggi conservato al museo archeologico di Torino) mostra una magrezza estrema ed esibisce rughe profonde sulla fronte e sulle guance. Questi elementi hanno permesso di datare il ritratto agli ultimi anni di vita del dictator, o poco dopo la sua morte. Certamente si tratta del profilo di un Cesare maturo, presentato nelle vesti di un politico accorto. Per il suo realismo il ritratto si colloca inequivocabilmente nella tradizione repubblicana, per la quale l’esigenza di differenziarsi dagli avversari politici rendeva necessaria la massima attenzione alla resa dei dettagli dei lineamenti fisici.
È invece controversa l’identificazione con Cesare del ritratto scoperto nel 2007 sulla riva destra del Rodano, presso l’antica Arelate. Il ritratto potrebbe essere stato scolpito nel 49 a.C., in occasione dell’assedio di Marsiglia, o nel 46 a.C., anno in cui Cesare dedusse la Colonia Iulia Paterna Arelate Sextanorum. Infatti, la deduzione della colonia può giustificare la presenza di un ritratto onorifico di Cesare, forse inserito in uno spazio pubblico durante la celebrazione per la fondazione della città, o sopra un monumento trionfale dal quale lo sguardo di Cesare incontrava il Rodano e contemplava Arelate. Ciò che colpisce immediatamente è il realismo del viso, scolpito con estrema cura, e la presenza di caratteristiche plastiche individuali. Vi è raffigurato un uomo imberbe, d’età matura, con diverse rughe profondamente incise, che simulano il cedimento della pelle e connotano il volto di un politico concentrato in grandi pensieri. Il profondo realismo estetico, privo di pietà, contraddistingue il volto e contribuisce a collocare l’opera in quel filone ritrattistico tipico della tarda repubblica, in cui un’espressività molto forte riflette il carisma e i valori della virtus e del mos maiorum.
L’identificazione con Cesare si fonda sulla compatibilità cronologica del pezzo con l’età cesariana e sulle caratteristiche comuni con il ritratto di Tusculum. Inoltre, l’esecuzione finissima e l’uso di un marmo pregiato indicano una committenza molto alta. In effetti, sembra poco probabile che un magistrato romano o uno dei notabili locali abbia potuto farsi rappresentare alla maniera di Cesare, anche perché l’immagine di questi non era ancora stereotipata.
Dopo la morte di Cesare la fisionomia del Dictator si riequilibrò in visioni più armoniose e idealizzate. È il caso dei ritratti Chiaramonti e Pisa, risalenti a un originale dell’età del secondo triumvirato, o comunque riconducibili a uno stesso modello, che potrebbe anche essere lo stesso ritratto Chiaramonti. Questi due busti illustrano un Cesare divinizzato, fuori dal tempo, la cui espressione sembra risentire della chiara volontà di Ottaviano di ricordare Cesare come l’incarnazione ideale del fondatore dell’Impero Romano.
Il ritratto di Cesare è presente anche sul diritto dei denari autorizzati dal Senato e coniati dai quattuorviri monetales, dopo il termine del conflitto civile, quando Cesare ottenne, primo fra i cittadini romani, l’onore di apporlo con la menzione della dittatura perpetua, accompagnato sul rovescio dall’effigie di Venere.
Riassumendo: l’atteggiamento ambiguo di Cesare verso la tradizione repubblicana si manifesta in primo luogo nei loci prescelti per apporre la sua immagine: il Campidoglio e il Foro Romano erano i luoghi pubblici più ambiti per la collocazione di statue, ma è indubbio che acconsentire ad onori come la traductio in pompa e avere una propria statua nel tempio di Quirino era un gesto audace, che suscitò reazioni negative, perché Cesare accettò, se non addirittura scelse in prima persona, due sistemazioni inusuali e contrarie alla tradizione repubblicana. Non passò inosservato nemmeno il tentativo di creare un legame con Romolo, che offriva il modello per la divinizzazione: una propaganda che si rivolse contro Cesare stesso, perché i Cesaricidi organizzarono il suo assassinio pensando proprio alla versione cruenta della morte di Romolo.
© Niccolò Chiesa, 2019