Completo il precedente post dedicato a Uomini e dèi nell’Eneide con una serie di considerazioni lessicali relative alle occorrenze di felix e infelix nell’opera di Virgilio. Il pensiero di base è quello già espresso nell’altro post. Felix e infelix in latino hanno una valenza di ambito sacrale; stante la testimonianza di Varrone, felix indica propriamente il campo, il raccolto, l’annata fertile di frutti, e dunque ben riuscita; ed è solo secondario e traslato il riferimento a uno stato emotivo dell’essere umano. Ma la fortuna e la ricchezza del campo non sono possibili senza la benevolenza degli dèi; ciò vale anche per la fertilità, il raggiungimento di uno scopo nella vita, o lo stato complessivo di serenità e benessere psicologico che noi (e gli antichi) comprendiamo sotto il termine felicitas. Nel I secolo a.C. Felix era il soprannome di Silla, ‘beniamino/protetto degli dèi’ (a questo il soprannome mirava e questo la propaganda sillana aveva enfatizzato, a cominciare dalla perduta, ma in parte ricostruibile, autobiografia); Cesare, al contrario, nella propaganda testimoniata dai Commentarii ha insistito di più sulla propria Fortuna, che implica in maggior grado un saper fare, secondo l’idea (sottilmente implicita) che il bravo comandante militare sarà anche un bravo capo di uomini.
Ora, come ho già detto nell’altro post, nell’Eneide si assiste a una discrasia fra lo sguardo di Giove e quello dei diversi personaggi, siano essi umani o divini; lo sguardo di Giove è infatti lungo, e si riassume nella Storia con l’iniziale maiuscola, che tutto giustifica; non è uno sguardo rassicurante però, perché comporta il passare sopra la vita dei singoli, che in quel processo si devono inserire volenti o nolenti, e che da quel percorso a lungo termine sono, nel breve tempo della loro vita, spesso sorpassati e “bypassati”. Inoltre, gli uomini, anche quando siano chiamati a contemplarla (come a un certo punto accade ad Enea), non capiscono la Storia, perché il loro sguardo è miope, concentrato sulla brevità della propria esistenza, non è in grado di cogliere quella lunga durata che appartiene al dio. Infine, la Storia di per sé non è rassicurante: tant’è che l’ultimo avvenimento citato nel poema, la morte di Marcello nel 23 a.C., trascende le promesse divine del I e del XII libro (I 254-296: anticipazione di Giove a Venere e al lettore di quanto seguirà nei dodici libri del poema, nel seguito del poema e nei secoli a venire, fino all’avvento di un Iulius Caesar che sottometterà l’oikoumene, vi porterà la pace, diverrà dio; XII 801-842, anticipazione a Giunone di quello che sarà il destino dell’Italia, fino al pieno mescolarsi di Troiani, Latini e Italici in un’unità politica e sacrale che, storicamente, sappiamo essersi realizzata solo nella seconda metà del I secolo a.C.). La morte di Marcello, invece, è avvenimento che rischia di rimettere in gioco tutto quanto è stato “realizzato” da Cesare e da Augusto, e di riproporre alla generazione a venire quello che la generazione di Virgilio aveva vissuto sulla propria pelle, cioè la lotta al momento della successione di un Grande Capo (per Virgilio e i suoi coetanei Cesare, per la generazione a venire Augusto).
Dato per scontato tutto questo, si tratta ora di capire che cosa significhi essere felices o infelices in Virgilio, chi lo sia, e perché; quali siano le diverse possibilità di felicità; quali alternative si diano alla felicitas o alla infelicitas. Partiamo dai dati numerici. Felix in Virgilio è abbastanza raro: non c’è o quasi nelle Bucoliche (mai per persone); è più comune nelle Georgiche, ma in genere in riferimento a piante o campi, o comunque a prodotti connessi all’agricoltura (anche la vittima dei sacrifici agli dèi agricoli); sono solo tredici le occorrenze nell’Eneide. Infelix è molto più presente, in riferimento a piante e campi, ma anche ad animali e persone. Ovviamente, nessuna menzione si dà di felicitas, un astratto “impoetico”, ma neanche dell’avverbio feliciter, che pure compare sia negli Annales di Ennio (fr. 103 Sk.), sia in Ovidio (più volte).
Vediamo i casi più da vicino: nelle Bucoliche il gregge di Melibeo era felix, ma in un tempo passato e non più proponibile, della cui condizione di felicitas ci si rende conto solo ora che non c’è più, attraverso il filtro della memoria e della nostalgia (1, 74); la seconda occorrenza si riferisce all’invocazione al neo-dio Dafni, invitato a essere propizio nei confronti dei fedeli (5, 65: sis felix è qui una formula rituale e cristallizzata, che ribadisce il valore sacrale dell’aggettivo). Al più possiamo osservare, con tipico valore degli aggettivi latini, che felix, come infelix, vale sia ‘che è felice/infelice’, sia ‘che fa felice/infelice’. Fra le dieci occorrenze delle Georgiche, l’unica che non abbia valore agricolo è 2, 490: felix è chi può dedicare la sua vita alla scienza, libero da affanni e pressioni della vita quotidiana e contingente. Una situazione specifica e particolare, direi paradisiaca se si concede l’anacronismo, che pochi, pochissimi possono realizzare, forse nessuno, certo non il poeta/narratore – che si sta sì dedicando all’attività poetica e in relazione a un sapere pratico, ma lo fa sotto pressione altrui, con fini pragmatici, per un bisogno che non è quello, ascetico, della pura contemplazione: e che quindi al massimo si può dire fortunatus, non felix, con una interessante gerarchia dei due termini. Nell’Eneide mi pare significativo che alcuni felices lo siano solo per modo di dire: l’aggettivo appare infatti in formule di cortesia, del tipo che già conosciamo, sis felix, riferito a un dio, come nelle Bucoliche; oppure al momento di una partenza o di un arrivo: un po’ come i nostri “salve, addio, ciao”, parole che hanno perso il loro valore etimologico e sono divenute puri modi di dire: cfr. 1, 330, a Cartagine (per Venere), e 3, 493, a Butroto. Felix si trova anche in frasi negative: è celebre la definizione di Didone, 4, 657, felix, anzi nimium felix, se le navi dardanie mai avessero raggiunto le sue terre – ma le navi quella terra l’hanno raggiunta, e la felix Didone è così divenuta l’infelix per eccellenza. Allo stesso modo Serrano, 9, 337, è una vittima di Niso nell’accampamento rutulo addormentato; e poiché aveva passato la sera a giocare a dadi, sarebbe stato felice se avesse continuato a giocare anche durante la notte: si sarebbe infatti trovato sveglio all’arrivo di Niso e si sarebbe forse potuto salvare; invece si è addormentato al momento sbagliato, e ciò ha fatto di lui una vittima indifesa. Tra i felices virgiliani si contano poi la moglie di Evandro, morta prima di conoscere la scomparsa prematura del figlio (11, 159: la definisce così il marito), e Polissena, uccisa sulla tomba di Achille, e non costretta a subire la schiavitù (lo pensa Andromaca, che la schiavitù ha invece sperimentato, 3, 321); felices sono poi le anime dell’Ade (quelle che lo sono, cioè Museo e la sua cerchia, 6, 669, racchiusi nei campi elisi = isole fortunate o dei beati); e il guerriero Tolumnio, presentato come tale nelle parole di Turno che deve convincere i Latini a continuare la guerra nonostante le prime sconfitte (Diomede ha rifiutato di allearsi con loro: ma non c’è problema, Tolumnio gli equivale e gode del favore divino, felix appunto, 11, 429). In realtà Tolumnio entrerà in azione solo nel libro XII quando interpreta male un prodigio e spinge i Latini a interrompere la tregua e il duello fra Enea e Turno: decisione avventata e inconsulta, che paga figurando nell’elenco successivo di caduti. E tanto felix, in definitiva, non sembra proprio. Ma Turno, si sa, spesso sbaglia le sue valutazioni! Infine, possono essere felices degli oggetti, animati o inanimati, che assolvono la loro funzione, come i venti che soffiano propizi, 3, 120. In questo elenco, due casi sono significativi: nelle parole di commiato di Eleno, 3, 480, è felix Anchise, protetto dalla pietas del figlio e sottratto alla rovina di Troia con il gesto più famoso della saga eneadica, quello che consacra Enea come pius, ma anche quello che dà inizio all’intera vicenda – la storia di Roma inizia lì, dalla fuga da Troia; dall’avere Enea convinto a partire il recalcitrante Anchise; dall’averlo preso su di sé, e con lui, nelle mani di lui, i Penati che assicurano continuità e sopravvivenza. Poco prima, all’inizio della medesima allocuzione (v. 475) Anchise era stato definito da Eleno come coniugio Veneris dignatus superbo. Importante: non è l’amore della dea ciò che lo fa felix, bensì l’agire del figlio. Alla fine del libro, vv. 708-713, Enea lamenta che Eleno non gli abbia predetto la morte del padre; è vero, però qui ne ha steso l’epitaffio, ricordando le due azioni che ne consacrano la memoria, e mettendole in posizione gerarchica: l’amore della dea ha reso celebre Anchise, ma il figlio con il suo gesto lo ha fatto felix, per le ragioni che ho detto. E il Priamides Eleno (figlio di Priamo, cioè ancora volto alla Troia di Priamo, ricostruita a Butroto tal quale si trovava in Asia, ma ora riconosciuta da Enea e dai compagni come qualcosa di vuoto, di sterile, di infruttuoso: la vera, nuova Troia, quella fertile e ricca di frutti, protetta dagli dèi, è in avanti, non indietro), Eleno, dicevo, riconosce in quella partenza da Troia di Enea e famiglia la felicitas di una nuova fondazione, qualcosa che segna una svolta nella storia e nella Storia, un punto di non ritorno che segnala gli Anchisiadi – e non più i Priamidi! – come i veri eredi di Troia e i beniamini degli dèi (e fra gli Anchisiadi, naturalmente, vanno contati i loro lontani discendenti, i Romani). L’altro passo significativo è 6, 784. Roma appena fondata da Romolo è felix prole virum (e cioè virorum), con aggettivo che riassume tutti i valori del termine: fertilità di frutti (i Romani), felicità di animo (l’imperium che li attende), la benevolenza degli dèi (al v. 780 di Romolo e Roma è detto che et pater ipse suo superum iam signat honore). Questi sono i soli esseri felici del poema: Anchise all’inizio di una Storia, alla cui fine c’è Roma, la Roma di Romolo che si salda con un unico tratto alla Roma di Augusto (rievocato nel sesto libro subito dopo del fondatore). E Roma, che in questa Storia felix lo è a lungo termine, è di nuovo la Storia, che nella città amata dagli dèi in certo qual modo si incarna. Non c’è dunque umana felicità, anzi felicità dell’uomo è morire quanto prima, secondo il detto sapienziale greco e secondo quanto ribadiscono Andromaca parlando di Polissena, ed Evandro della moglie; non è felix Enea, che pure si muove seguendo ordini divini, protetto dalla madre e dalle altre divinità fedeli alle parole di Giove; felix è solo la Storia, cioè ancora una volta lo sguardo lungo di Giove, che tutto assolve e tutto giustifica…
Vediamo ora infelix. Nelle Bucoliche ci sono Pasifae (6, 47 e 52) e Procne (o Filomela: ma il nome poco importa, 6, 81), che, mutata in animale dopo aver ucciso per vendetta il proprio figlio, prima di abbandonare la casa resa cruenta dal suo gesto, infelix sua tecta super volitaverit alis. Se allarghiamo la ricerca al campo animale, c’è anche il gregge affidato da Egone (il proprietario) a Dameta (il pastore mercenarius) nelle parole di parte del rivale Menalca, buc. 3, 3, definito infelix perché lasciato a un pastore disonesto che lo sfrutta fuori misura a proprio uso e consumo (munge le pecore due volte all’ora, dice Menalca con evidente iperbole). Come si vede, siamo sempre nel campo di un destino avverso, rovesciato su vittime incolpevoli: non sono Pasifae e Procne i mostri delle rispettive vicende, ma forze a loro esterne le costringono ad azioni mostruose; non è il gregge ad avere colpa, ma subisce le conseguenze di un’azione del padrone, che vuole essere libero da impegni per corteggiare Neera. Fa a sé il caso di 5, 37, infelix lolium, che ritorna, con verso quasi identico, a georg. 1, 154. Nelle Georgiche non c’è nessuna occorrenza riferita a esseri umani, tre a campi infecondi o piante invasive e sterili; poi però ci sono il cavallo malato nel Norico (3, 498) e Mantova intesa come somma dei cittadini che hanno subito le espropriazioni del dopo Filippi (2, 198). Un caso a sé costituisce l’Invidia infelix di 3, 37, tipica personificazione virgiliana, che indica il guardare di malocchio chi sa fare qualcosa e il cercare di impedirgli di farlo (per questo infelix riassume qui un po’ tutti i valori del termine: l’Invidia è sterile; cerca di rendere sterili; è malevola, è causa di male a sé e agli altri). L’aggettivo “esplode” letteralmente nell’Eneide. Quarantotto occorrenze tra forma lemmatica e casi flessi. Vediamo i riferimenti: nei casi flessi troviamo Didone, 5, 3; Amata, 7, 401; Ulisse, 3, 613 e 3, 691; Niso, che definisce così se stesso, 9, 430; Troia nel suo complesso (Mnesteo esorta i compagni a resistere all’assedio di Turno, e chiede loro se non infelicis patriae…pudet miseretque, 9, 786), cui si aggiunge il vitto non umano al quale è costretto Achemenide, 3, 649, bacas lapidosaque corna, cioè la regressione allo stato di raccoglitore, ossia di uomo preistorico e a-civilizzato. Più lunga la lista dei casi lemmatici: Troilo (la prima occorrenza in assoluto per il lettore continuo dell’Eneide, 1, 475); Didone (sette volte in tutto: 1, 712 e 749; 4, 68, 450, 529 e 596; 6, 456, il massimo concesso a qualsiasi personaggio); il cavallo di Troia, 2, 245, monstrum infelix che i Troiani sacrata sistunt arce, con accostamento ossimorico di due aggettivi significativi, il monstrum infelix va a dissacrare la sacrata arx; Corebo che non ascolta gli avvertimenti di Cassandra, 2, 345; Andromaca vedova inconsolabile, 2, 455; Creusa appena defunta e trasformatasi in umbra e simulacrum di sé stessa, 2, 772; Priamo che tenta di salvare Troia mandando Polidoro al sicuro (lo crede lui) in Tracia, 3, 50; l’Arpia Celeno quando lancia la sua predizione/maledizione che sembra allontanare per sempre i Troiani dalla meta agognata, 3, 246; Sergesto, che vuole vincere la regata con una mossa avventata, 5, 204; Niso che scivola inconsapevolmente e perde una corsa che aveva già vinto, 5, 329; Darete, che deve riconoscere la superiorità di Entello nello scontro di pugilato, 5, 465; il talamo dove giaceva sicuro Deifobo, o se vogliamo, per ipallage, Deifobo che si credeva sicuro nel proprio letto, al fianco della donna appena sposata, sopravvissuto a una guerra sanguinosa e decennale, che gli prospetta un avvenire di pace e felicità (6, 521); Teseo, che sedet aeternumque sedebit nell’Ade, per aver osato un’azione empia, rapire la regina degli Inferi (6, 618); Bruto, che manda a morte i suoi figli in nome del bene comune, eroe della res publica nella visione romana tradizionale, anche di autori più o meno contemporanei a Virgilio come Livio e Valerio Massimo, ma infelix utcumque ferent ea facta minores per la voce che commenta (6, 822); Giunone, che si autoproclama tale nel riconoscersi sconfitta, nonostante nulla abbia lasciato di intentato contro i Troiani (7309); di nuovo Amata, nel settimo come nel dodicesimo libro (7, 376 e 12, 598) una serie di caduti, colpiti da morte prematura o inattesa: Eurialo, 9, 390; sua madre, 9, 477; Cidone, che solo provvidenzialmente si salva (10, 325); Aleso, vittima di Pallante (10, 425); Lìgeri, vittima di Enea (10, 596); Acrone, vittima di Mezenzio (10, 730); Antore, che muore per un dardo scagliato non contro di lui (10, 781); Lauso (10, 829), Mezenzio (10, 850), Camilla (11, 563) e il meno noto Ufente (12, 641). Poi infelix è Evandro, alla notizia della morte del figlio, sia nelle parole di Enea (11, 53) sia nelle proprie (11, 175), così come infelix è Acete, tutore di Pallante e guida del corteo funebre che ne riporta a casa il cadavere (11, 85: diciamo anche qui che, per ipallage, infelix è fondamentalmente Pallante). Ancora: è infelix la comunità intera dei Troiani in fuga, nelle parole della falsa Beroe (in realtà è Iride che vuole spingere le donne troiane a dar fuoco alle navi, 5, 625); la Fama che divulga la notizia della morte di Amata fra i Latini e spinge Turno a riprendere il duello per lui fatale (12, 608); Giuturna, costretta ad abbandonare il fratello alla sua sorte (12, 870); infine, c’è il balteus infelix di Pallante, 12, 941, portato trionfalmente da Turno, che si presenta agli occhi di Enea, siamo proprio alla fine del poema, e lo spinge, quando è vacillante e dubbioso, a uccidere il nemico che lo supplica: perché è bene parcere subiectis, ma si deve debellare superbos, e nonostante le apparenze del momento, proprio quel balteo inserisce Turno fra gli incorreggibili superbi…
L’elenco è stato lungo, e me ne scuso. Ma ora possiamo trarre qualche considerazione. Intanto, vediamo come più valori si sommino spesso fra loro, e difficile risulti la scelta. Questo significa anche che non ha molto senso tradurre le diverse occorrenze con “felice/infelice”, senza cercare di cogliere le diverse sfumature che i due termini assumono caso per caso. Tradurre, del resto, è solo una parte del nostro accostarci all’opera d’arte, e non può essere il fine ultimo del nostro agire. Esemplare mi sembra, al riguardo, il caso di Giunone a 7, 309. la dea, come l’Invidia delle Georgiche, è infelix lei stessa; rende infelices gli altri; è sterile di frutti e successi; vuole impedire gli altrui successi; è sofferente per quanto succede; fa soffrire gli altri; è vittima di sé stessa; ma si ritiene vittima di una congiura di forze superiori – Giove e il fatum. Poi, è evidente che che c’è un uso per così dire “attivo” di infelix (ossia: che rende infelici gli altri), come era già per l’Invidia di 3, 37: così avviene per Celeno; il cavallo che entra nell’arx sacrata di Troia; la Fama che divulga la morte di Amata e costringe Turno a dichiararsi sconfitto; il balteo di Pallante, che rende d’un colpo Pallante e Turno ugualmente vittime. Ma c’è un ben più ampio uso “passivo” del termine, entro il quale si riconoscono dei casi tipici e ricorrenti:
– è infelix chi incontra una morte prematura (sua o di un familiare), e comunque inattesa: il discorso vale per Creusa; Andromaca, vedova di Ettore; Didone; Evandro, che ha perso Pallante; Mezenzio privo di Lauso; la madre di Eurialo; i molti morti in combattimento;
– è infelix chi ha tentato un’azione che travalica i propri limiti, limiti imposti dalla Natura, dalla Storia, dal Fato o dal volere degli dèi, ed è ricondotto da una legge inesorabile alla realtà delle cose: Troilo, ad esempio, che va incontro a un impar congressus con il più forte Achille; Eurialo e Niso nel nono libro, che tentano un’impresa al di sopra delle loro forze, per dimostrarsi viri e non più semplici pueri; Priamo, che vorrebbe eludere la Storia salvando attraverso Polidoro qualcosa di Troia e delle sue ricchezze; Sergesto e Darete nelle gare del quinto libro; Corebo, che non presta ascolto a Cassandra; Teseo, che vuole infrangere le leggi dell’Aldilà; Bruto, il più infelix di tutti, perché ha dovuto mettere sulla bilancia due valori parimenti forti e ne ha fatto fatto prevale uno a scapito dell’altro;
– è infelix chi, credendo di avere raggiunto qualcosa, si sente al sicuro, e invece poi cade per colpa non sua, per una forza superiore che lo trascina a sua insaputa e senza che lui possa fare granché: erano tali già Pasifae e Procne nelle Bucoliche, lo sono ora Didone; i Troiani tutti, nelle parole astute della falsa Beroe (che dice loro quello che essi pensano di sé); Niso che scivola quando crede di avere già vinto la gara; Deifobo che pensa di essere tranquillo nel proprio talamo; Amata, vittima degli dèi; i colpiti da un dardo non lanciato contro di loro, uno per tutti Antore;
– non sono invece mai infelices né Enea né nessun altro componente della ‘casa reale’, fatta salva Creusa, una Priamide anch’essa, e dunque appartenente a un passato che nell’Eneide è capitale venga distinto e non confuso con la storia e con la Storia; non lo sono nemmeno i Troiani del seguito, salvo che nelle parole di Mnesteo – ma quella che lui rievoca è la Troia fisica, lasciata sulle dolci colline dell’Asia, qualcosa che appartiene ancora una volta al passato e non va confuso con i Troiani di Enea & co. Quegli stessi Troiani sono gens infelix in 5, 625, ma a parlare è in quel caso la falsa Beroe, alla quale quindi non si deve prestare ascolto, perché agisce e parla falsamente, con artificio, secondo retorica;
– ma neanche Enea e gli altri componenti della ‘casa reale’ si possono dire felices, ad eccezione di Anchise, per le ragioni dette, e dei Troiani lasciati a Butroto, consegnati a un futuro che è già concluso, e già finito, ha il sapore della morte (e solo chi è morto per tempo può essere detto ‘felice’, a livello personale). La felicitas infatti è dono raro, divino, concesso di fatto alla sola Roma; e ad essa si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. Ma anche la felix Roma, cui pure gli dèi hanno assegnato un compito che trascende le umane sorti e la possibilità di realizzarlo, per arrivare ad essere felix ha dovuto passare attraverso disavventure varie, che sono state la sua Fortuna (6, 683), ossia in fondo, le vicende biografiche dei suoi eroi, il loro destino individuale. Diciamo quindi, per semplificare un po’, che fortuna è per Virgilio qualcosa che sempre attiene di più, rispetto a felicitas, alla casualità, e a una casualità connessa, in gran parte, alla sfera umana, dipendente cioè dall’azione degli uomini più che (e oltre che) degli dèi; laddove la felicitas dipende certo anch’essa dall’azione degli uomini (che non devono infrangere leggi divine e ben stabilite: il che li condannerebbe inesorabilmente alla sconfitta e alla infelicitas), ma in larga misura dipende soprattutto dall’agire degli dèi, dal benvolere che essi possono o no dimostrare agli umani, e che si riconosce, di norma, solo a cose fatte, una volta che la fortuna è peracta, come dice Enea agli amici che lascia a Butroto (3, 493). È ben nota la massima di Appio Claudio sull’homo faber ipsius fortunae. Fortunae, appunto, non felicitatis: ché la felicitas l’uomo non se la può dare e anzi, anche quando si ritiene al sicuro (Deifobo, i Troiani, Niso quasi vincitore…) rischia sempre che qualcosa vada storto e lo faccia ricadere nell’ampia schiera degli infelices; alla propria fortuna, pur soggetta a mille rovesci e pericoli di rovescio e rivolgimento, si può invece cooperare, anche solo imparando a sopportarla o ad evitarla – come recita la massima che Enea lascia in eredità, nel sottofinale, 12, 435-436, al figlio e che prevede un Ascanio in grado di discere la virtus dall’esempio di Enea e di Ettore e la fortuna da modelli extra-familiari (ma Enea non si sogna di fargli discere la felicitas da nessuno). La felicitas, infatti, è dono raro, divino, concesso alla sola Roma; alla quale si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. In fondo, è ancora lo sguardo lungo della Storia che, lo sappiamo, travalica il destino dei singoli e di loro non si interessa...
© Massimo Gioseffi, 2016