Inizio oggi un’ambiziosa serie di post, che vorrebbe passare in rassegna la flora presente in ognuna delle dieci egloghe virgiliane. Anni fa avevo progettato, con un’amica fotografa, un libretto che illustrasse le egloghe pianta per pianta. Non se ne fece nulla. Adesso, grazie a internet, il compito è più facile. Strumento indispensabile di lavoro sono le foto disponibili in rete e, per la parte scientifica, il volume di Gigliola Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere (un verso della sesta egloga). E’ un libro utilissimo, in cui tutte le piante citate da Virgilio – non solo nelle Bucoliche – sono passate in rassegna una per una, per essere schedate, analizzate, discusse. Purtroppo, il fallimento della casa editrice che lo aveva prodotto e la data relativamente ‘antica’ del volume (Roma 1995) hanno impedito una sua adeguata diffusione e la messa in internet, che sarebbe stata cosa utilissima. In parte, cerco perciò di rimediare qui.
Partiamo dalla prima egloga e dalle piante che vi sono nominate.
Titiro suona sdraiato all’ombra di un faggio (v. 1). I faggi tornano nella seconda, nella quinta e nella nona egloga. Il faggio di Titiro è una pianta patula, ampia, che ‘si apre bene’, e che offre ristoro e protezione (sub tegmine). Il pastore, supino (recubans), suona il flauto, presumibilmente appoggiato alla grande corteccia dell’albero. Quello che a volte sfugge in questa immagine è che la fagus sylvatica, il faggio odierno, è pianta da habitat collinare e montano, piuttosto diffusa in tutto il paesaggio alpino e appenninico d’Italia, trovando il suo optimum abitativo intorno ai 900-1000 m di altitudine, anche se si conoscono casi eccezionali di faggeti (uno in Toscana, l’altro sull’appennino emiliano) che scendono fino a 150 m ca. sul mare. Insomma, il faggio non è una pianta di pianura: anni fa, la Banca Agricola Mantovana, oggi defunta, realizzò una strenna natalizia dedicata alle piante di Virgilio, e la foto del faggio andò a recuperarla lungo la valle del Chiese, nella zona del lago d’Idro, che credo sia una delle sedi abituali di seconde case dei Mantovani. Perché allora Virgilio dedica tanto spazio al faggio? La prima risposta possibile, è allontanare l’ambiente dell’egloga (e di tutte le egloghe) da ogni possibile interferenza con un paesaggio biografico. L’egloga racconta la storia di Titiro, non quella di Virgilio: e come Titiro è vecchio (e Virgilio nemmeno trentenne) o ex-schiavo (e Virgilio nacque libero, come attestano i tria nomina), così l’ambiente abitativo di Titiro non coincide, da subito, con quello di Virgilio (l’ager Mantuanus). Nella stessa ottica, il faggio si concilia invece con i monti, dalle cui pendici scendono le ombre della sera, nel finale dell’egloga (v. 83). Altra risposta possibile, è invece ricordare che i faggi sono ignoti a Teocrito, ma in greco fēgos è il nome della quercia (quercus robur), pianta ricorrente nelle Bucoliche, ma soprattutto pianta che gli antichi esegeti connettevano al verbo fagein, nutrire. La fagus virgiliana, come la fēgos greca, cioè, sarebbero piante arcaiche, primitive, connesse a un’idea di nutrimento naturale e spontaneo, da raccoglitori di frutti, che non conoscono agricoltura e fatica.
Anche il nocciòlo (corylus) e la quercia (quercus) citati ai vv. 14 e 17 da Melibeo concorrono a un’immagine boschiva e da collina, se non proprio da montagna, almeno, ovviamente, nel loro habitat naturale. Nell’egloga il nocciòlo vede avvenire, sotto di sé, l’abbandono da parte della madre dei due piccoli capretti appena nati: in questo modo, una pianta che serve tradizionalmente alla nutrizione alimentare è testimone dello sfacelo, anche economico, portato dalle espropriazioni (spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit). La quercia, colpita dal fulmine, aveva pronosticato un simile scompiglio: la quercia è pianta solida, rigida, spesso utilizzata nelle similitudini per indicare un opporsi tetragono al destino. Ruolo che qui, simbolicamente, le viene invece meno.
Titiro, nella sua risposta, paragona Roma e la città conosciuta fino a quel momento da lui e da Melibeo, quella al cui mercato essi erano soliti recarsi, rispettivamente a un cipresso e a un cespuglio di viburno. Mi pare significativo che, nelle Bucoliche, nessuna di queste due piante torni più: quella di Titiro è un’immagine poetica, costruita su sapere comune, non su un panorama che si voglia in qualche misura ricostruire. Il cipresso (cupressus sempervirens) è scelto come simbolo di Roma per il suo svettare solitario, v. 25. Con i viburna Virgilio individua invece dei cespugli a basso fusto, ed è possibile che il termine avesse, per lui, valore del tutto generico. Il moderno viburnum lantana, detto anche popolarmente “lentaggine” (e lenta è l’aggettivo con cui Virgilio caratterizza qui i viburna: ‘flessuosi’), è pianta piuttosto diffusa in Italia centro-settentrionale, usata come ornamento dei giardini, ma presente anche allo stato selvatico, che arriva fino a 3/4 metri di altitudine, entro un habitat non superiore ai 1000 m di altezza sul mare. Fiorisce in primavera, con fiorellini bianchi, piccoli ma numerosi; per il resto, è pianta abbastanza insignificante, adatta a creare ombra o a fare siepe. Nei giardini odierni se ne conoscono sottospecie differenti.
Possiamo ora passare velocemente sopra le pinus ricordate da Melibeo al v. 38, o su termini generici come poma (qualsiasi pianta da frutto; come frutti maturi, mitia poma, la parola ritorna al v. 80) e arbusta, un altro termine generico. Al v. 48 Melibeo descrive i beni di Titiro come una palude ricoperta di giunco, ossia di canneti: pianta da territorio paludoso, e che ben si adatta a descrivere i dintorni di Mantova (oggi bonificati), e un po’ tutta la pianura padana (anche Milano, fino all’età moderna, lo ricordo, era circondata da paludi).
Più interessante è lo spazio che viene concesso, entro quel medesimo contesto, alla salix. Poiché di tale pianta si contano oltre trecento specie, è difficile dire a quella di esse si riferisca qui Virgilio. La più diffusa è la salix alba, cui fa seguito la salix viminalis, che assolvono entrambe le caratteristiche che riconosce loro il poeta. Intanto sono piante fluviali, che nascono spontanee in natura, ma sono anche coltivate dalla mano dell’uomo, specie a protezione di canali e rive di fiumi, per le loro capacità di consolidamento del terreno, cui impediscono di slittare verso l’acqua. La salix in effetti è, con i canali d’acqua, il confine usuale delle proprietà individuate dalla centuriazione romana. Quindi, quando Melibeo rievoca un Titiro felicemente addormentato inter flumina nota (v. 51: non necessariamente ‘fiumi’, ma qualsiasi ‘corso d’acqua’, anche i canali delimitanti la proprietà), vicino a una siepe di salici (vv. 53-54), alla cui ombra può tranquillamente dormire, cullato dal ronzio delle api (v. 55), di fatto sta descrivendo un personaggio beato, circondato dalle sue cose, al centro di beni di indiscusso possesso, entro i quali continuare senza pensieri la vita di sempre. Preciso che il cosiddetto ‘salice piangente’ (salix alba tristis) è una sottospecie di salix, assai più rara, estranea al paesaggio bucolico.
La proprietà di Titiro si caratterizza anche per la presenza di un alto olmo, sul quale ha nidificato la tortora. Non è qui importante individuare esattamente la specie cui Virgilio poteva fare riferimento (la ulmus minor, ovvero ‘olmo campestre’, e la ulmus glabra, ovvero ‘olmo montano’ sono le due più quotate, con una preferenza per la prima); importante è il panorama complessivo che Melibeo viene nel complesso a delineare. Come abbiamo visto, i beni di Titiro sono delimitati da una siepe di salice e dai corsi d’acqua, chiamati anch’essi a fare da confine; includono terreni umidi e un po’ paludosi, o, al contrario, sassosi e morenici (v. 47), ma comunque sufficienti a fornire dei pascua; un pomario, nel quale si ritrovano alberi da frutta produttivi; e, presumibilmente più vicino alla casa, un olmo a proteggerla e difenderla, sul quale gli uccelli nidificano indisturbati. Quella che viene così descritta è la tipica fattoria romana, rispetto alla quale solo la fagus iniziale appare in contraddizione. L’olmo, qui pianta domestica, nelle altre egloghe tornerà in continuazione come supporto della vite, una tecnica di coltivazione effettivamente praticata nel mondo antico.
Anche la proprietà di Melibeo doveva avere le stesse caratteristiche. L’orizzonte mentale di Melibeo è fatto di arva (campi arati) e agri (campi coltivati), novalia (campi messi a riposo nel ciclo della rotazione), segetes e aristae (messi e spighe), terre ben coltivate (tam culta). Il pomario si precisa come fatto di peri e di viti (v. 73), per ognuna delle quali Melibeo conosce una specifica tecnica di coltivazione: la riproduzione ad innesto, e la disposizione a filari.
Non mancano naturalmente nemmeno i pascua, o comunque i terreni di cui Melibeo può disporre per questo scopo. Essi includono una rupe (v. 76), una grotta (v. 75), i già noti salici e, piante finora sconosciute, i generici dumi (cespugli non ben identificati; un dumetum è, di norma, un roveto), e la florens cytisus, descritta qui come pianta da foraggio particolarmente apprezzata dalle capre, nella decima egloga come pianta mellifera di grande valore. La moderna cytisus (la ginestra di leopardiana memoria) non coincide con queste caratteristiche, e l’identificazione della cytisus virgiliana resta incerta. Probabile che si tratti della medicago sativa, la cosiddetta ‘erba medica’ dei nostri campi, una leguminosa foraggera per eccellenza e che, in quanto azoto-fissatore, arricchisce nuovamente il suolo in modo naturale, dopo l’impoverimento dato da precedenti coltivazioni di altre famiglie, ed è per questo molto diffusa nelle campagne italiane.
Altri hanno invece pensato al Trifolium pratense, che ha le stesse caratteristiche della precedente, ma – a differenza di quella – meno si presta a terreni aridi e assolati, e ha necessità di una certa irrigazione: cosa che ben si adatta all’immagine della campagna paludosa e solcata da canali che Melibeo ha delineato fin qui.
Resta un’ultima pianta a chiudere l’egloga. Con un’offerta finale di ospitalità, Titiro invita Melibeo a restare per una notte presso di lui, promettendogli come cena formaggio, frutta e castagne. Il castagno appartiene anch’esso al gruppo delle fagaceae, come i faggi iniziali e le querce. Diciamo che l’egloga si chiude così con una certa circolarità. Benché si possa trovare già a un’altezza sul mare di ca. 200 m, e fino agli 800 ca., anche il castagno è comunque pianta che prevede un habitat ondulato, se non proprio collinare (ricordo invece che i cittadini ippocastani non hanno nessuna parentela diretta con il castagno e appartengono al genere della aesculus, originario dell’Asia e importato in Italia a puro scopo ornamentale).
Possiamo provare a concludere qualcosa? Diciamo che a me sembra che Virgilio abbia descritto un paesaggio umano e sociale molto preciso, fatto di gesti, azioni, operazioni e anche tratti paesaggistici indiscutibilmente romani e legati alla sua epoca. Viceversa, quando si riferisce a un paesaggio naturale, che serva di ambientazione geografica, non ‘sociologica’ e storica, i tratti si fanno più incerti, e resta molto dubbio che egli volesse ritrarre una località precisa. Se però così non fosse, l’impressione è che tale località andrebbe cercata più nella parte settentrionale dell’attuale provincia mantovana, che non in quella meridionale: più verso le ondulazioni che digradano dal (o portano al) lago di Garda, che nella zona in cui il Mincio si avvicina al Po e vi si getta. In ogni caso, si tratterebbe di andare in cerca delle proprietà di Titiro e Melibeo, non di quella di Virgilio. E questo mi sembra che l’egloga lo sottolinei fortemente in ogni suo tratto.
© Massimo Gioseffi, 2019
Articolo molto curato e originale. Aspetto con vivo interesse anche i prossimi contributi
Davvero, un lavoro utile – e ne immagino la fatica ma anche la soddisfazione – per avere un’immagine visiva delle Bucoliche. Resta la domanda: quanto realismo esiste nell’opera virgiliana?
Lavoro davvero interessante, da cui traspare passione e competenza. Solo una riflessione, non ho visto citato il castagno di cui non parla direttamente ma facendo riferimento ai suoi frutti straordinari e fondamentali per l’alimentazione di allora, le castagne.
Ecloga Prima 80 – 82
Grazie