La seconda egloga ripresenta, naturalmente, alcuni elementi già incontrati nella prima. Come Titiro, anche Coridone canta all’ombra dei faggi. Non una singola pianta, in questo caso, ma un intero faggeto (inter densas fagos), attraverso il quale si conferma l’ambientazione montana dell’egloga (montibus et silvis studio iactabat inani). Questa ritorna anche in seguito, quando Coridone ricorda fra i possibili doni per Alessi i due capreoli trovati nec tuta valle, vv. 40-42 . Più difficile da interpretare il riferimento del v. 21 alle mille agnae che pascolano Siculis in montibus. Il richiamo alla Sicilia, da un lato, sembra un elemento di precisa identificazione topica, un dato che nella prima egloga mancava del tutto; d’altra parte, Coridone qui sta presentando una realtà che non trova conferma nel resto dell’egloga (l’inizio ci ha detto che non è un ricco pastore, proprietario di greggi: cfr. il precedente post “Mitomania e mitomani II”), dunque qualche dubbio è legittimo anche circa la precisazione geografica fornita: quelle greggi inesistenti si possono anzi tanto più amplificare, quanto più sono lontane, fuori dalla vista e dal controllo di chiunque. In ogni caso, il boschetto di umbrosa cacumina svolge la stessa funzione compiuta dal singolo faggio nella prima egloga, offrendo il riparo, all’ombra del quale è possibile il canto.
Durante il proprio lamento Coridone offre di sé un’immagine differente: sta vagando sotto il sole cocente, alla ricerca di Alessi. E’ il tempo della mietitura; è l’ora del desinare. Gli arbusta, cespugli non ben definiti, proteggono le cicale che friniscono, v. 13; gli spineta, cespugli spinosi non meglio determinati anch’essi, fanno da riparo alle lucertole, v. 9. Una contadina prepara la focaccia che servirà di pranzo (nell’illustrazione dell’edizione Giuntina, Venetiis 1515, che serve da copertina, la porta invece in un canestro sul capo). Fra gli ingredienti si riconoscono l’aglio (alium cepa) e il timo (thymus serpillum), usati come condimento, e qualificati come herbae olentes, v. 11.
Nel complesso, le immagini vegetali dell’egloga si concentrano in tre blocchi. Il primo dipende da una certa sentenziosità di stampo elegiaco di cui Coridone si compiace spesso, fatta di similitudini e di comportamenti ripetuti, che è perciò il mondo della natura a fornire con una certa abbondanza. Da qui deriva ad esempio un costrutto come quello dei vv. 63-65, in cui Coridone ricorda l’inevitabile caccia che la leonessa compie nei confronti del lupo, il lupo della capretta e la capretta del citiso. Cosa questo sia, o meglio che cosa possa essere, l’abbiamo già discusso nel commento alla prima egloga. Nel passo in esame si conferma il suo carattere di pianta adatta al pascolo. Già in precedenza, v. 18, Coridone aveva però espresso attraverso un’immagine botanica un paragone fra Alessi e Menalca (un precedente suo amore, come sembrerebbe di capire). Alessi è più bello, perché candidus (il colorito nobile, da cittadino non costretto ai lavori agresti); Menalca era invece scuro di pelle, abbronzato, abituato alla vita all’aperto. Non si insuperbisca però Alessi per la superiorità: alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur, “i bianchi ligustri cadono al suolo – si intende: senza nessuno che li raccolga – i neri vaccini vengono raccolti”. Non è il colore a fare la vera differenza, ma l’utilità delle piante o, nel caso dei ragazzi, la loro disponibilità verso l’amante. In questo parallelo, il ligustro non pone problemi: il ligustrum vulgare è pianta cespugliosa (che può arrivare fino a 3 m di altezza), molto diffusa in tutto il bacino mediterraneo, in genere sempreverde e con dei fiori biancastri, poco appariscenti, a grappolo, che appaiono fra tarda primavera e principio dell’estate. Il ligustro oggi è abbastanza diffuso come pianta da giardino, ma non certo per la vistosità della sua infiorescenza, che nel complesso di una siepe tende a scomparire.
Più difficile è identificare con certezza i vaccinia. Il termine ritorna al v. 50, in un contesto floreale (vd. infra), che ha fatto pensare all’identificazione della pianta con il giacinto, una bulbosa dal fiore primaverile, molto profumato e bello, che si coltiva tuttora a scopo ornamentale, anche dentro casa, e che fiorisce in quasi tutti i colori possibili e immaginabili, ma in natura vede prevalere le tinte scure.
Un’altra interpretazione vede invece nei vaccinia, citati anche nella decima egloga come nigra, i mirtilli. In questo caso, il parallelo con i ligustri, fiori candidi che producono bacche infruttuose, giocherebbe non tanto e non solo sull’opposizione di colori, ma anche sulla distinzione fra pianta fruttifera (il mirtillo) e pianta infruttifera (il ligustro, le cui bacche non sono commestibili). L’identificazione resta però incerta, ed entrambe le soluzioni proposte hanno i loro difensori.
Il secondo ambito di riferimento delle immagini vegetali all’interno dell’egloga si riferisce a una quotidianità di lavori, rispetto alla quale Coridone si contrappone, o che si lamenta di avere interrotto per amore di Alessi. Già abbiamo visto la netta distinzione che si delinea, all’inizio, fra lui, che all’ombra canta senza speranza la propria passione, e i mietitori, che si riposano anch’essi, sì, ma dopo la fatica di una mattinata di lavoro. Anche in seguito, Coridone ricorda una serie di operazioni lasciate interrotte, o che potrebbe/dovrebbe riprendere, con maggior costrutto rispetto a un inutile lamento amoroso. Compare qui la vite semiputata (v. 70), “potata solo in parte” – la potatura della vite è prassi essenziale per la crescita e la produttività della pianta, ed è azione che si dovrebbe compiere a inizio primavera; se Coridone ancora non l’ha terminata alla stagione delle messi, è segno di grave incuria. La vite, in quel contesto, è descritta come in ulmo, secondo l’uso di farla crescere come rampicante intorno a un olmo. Vite e olmo legati fra loro (“maritati”, in termine tecnico) sono un’immagine ricorrente, anche nella tradizione poetica moderna, per una coppia particolarmente affiatata. La foto che propongo viene dalla valle del Chianti, in Toscana, dove si trovano ancora alcuni filari di questo tipo (non sono sicuro, però, che la pianta “marito” sia un olmo: del resto, in epoca moderna si sono usati anche l’acero campestre, il salice e l’ulivo). Oggi questa tecnica, che consentiva di risparmiare le spese d’impianto del filare e proteggeva la vite da eventuali colpi di calore, è pochissimo praticata. La produzione viticola è infatti molto più bassa di quella che si produce con il vigneto specializzato, a filari, mentre nella mentalità agricola ora domina la specializzazione produttiva, a scapito dell’autosufficienza delle singole proprietà; e la specializzazione favorisce, ovviamente, il vigneto a filare.
Fra le altre azioni che Coridone si lamenta di avere fatto, e non avrebbe dovuto farle, o di non avere fatto a tempo debito, c’è quella di avere lasciato sfogare il vento (vv. 58-59: Austro, il vento tempestoso) sui fiori, non proteggendoli a sufficienza. I fiori da proteggere dal freddo ritorneranno anche nella settima egloga, v. 6. Dal quarto libro delle Georgiche intuiamo che non si tratta di una coltivazione a scopo estetico: il giardino di fiori profumati serve a stimolare le api alla produzione del miele, ed è un elemento indispensabile della villa romana. Ancora, come cura dall’amore infruttuoso per Alessi, Coridone si propone di tessere qualche oggetto con i giunchi di vimine, vv. 71-72: per esempio, immaginiamo, gerle o canestri, da utilizzare nella raccolta della frutta (così propone lo stesso Virgilio nel primo libro delle Georgiche, come attività da compiere nei momenti di riposo dai lavori dei campi), oppure da vendere al mercato. Coridone descrive poi un mondo di lavori intorno a sé, che abbiamo visto già fare capolino nell’immagine iniziale dei mietitori, ma che ritorna nel sottofinale attraverso l’idea dei buoi che tornano dai campi alla fine della giornata, portando, ormai è sera, l’aratro suspensum, ‘sollevato dal suolo’ (v. 66). In questo modo, Virgilio ci suggerisce la durata dell’egloga, visto che il canto di Coridone era iniziato a mezzogiorno, e ora il giorno sta finendo. Da ultimo: Coridone invita Alessi a condividere con lui la vita in campagna. Assieme potrebbero suonare sul flauto di Pan, indicato con facile sineddoche come cicuta, “la canna”, dal materiale che lo costituiva e che già abbiamo visto abbondare lungo le rive del Mincio (vv. 36-39). Coridone propone anche di humiles habitare casas insieme (‘abitare le basse capanne, che non si alzano dal suolo’, v. 29. Nella prima egloga Melibeo aveva descritto la sua abitazione come un tugurium); di cacciare assieme i cervi; di viridi compellere gregem hibisco, vv. 29-30. E’ questa l’immagine su cui concentrare l’attenzione. L’ibisco (normalmente identificato con l’althaea officinalis più che con il nostro ibisco domestico, hibiscus syriacus, importato in Europa solo in epoca moderna), appartiene al genere delle Malvaceae. E’ pianta molto diffusa in tutta Europa, ma specie in quella mediterranea; ama il sole, però vuole le radici all’ombra e all’umido, per cui cresce spesso lungo i fossi, i canali, gli argini, attorno alle case di campagna. Di tendenza invasiva, è tollerata dagli agricoltori perché foglie e radici sono utilizzate in erboristeria, come emollienti e calmanti, quindi come antidolorifici naturali. I fiori, piccoli ma colorati (a colori tenui: spesso bianchi o rosa, talvolta lilla o rossi), numerosissimi da luglio a ottobre, ne fanno anche una pianta ornamentale, da giardino. I fusti, di altezza a volte superiori al metro, ne consentono la coltivazione sia a cespuglio che ad alberello. Nel testo virgiliano, hibisco può essere sia dativo che ablativo. Nel primo caso, sarà un dativo di direzione: Coridone invita Alessi a spingere (compellere) il gregge verso l’ibisco, non perché le caprette si nutrano in modo particolare di questa pianta (peraltro, da esperienza diretta, le capre distruggono qualsiasi siepe appena commestibile; dei fiori dell’ibisco che abbiamo in giardino è molto ghiotta la tartaruga domestica), ma per indicare campi ricchi di flora, di cui l’ibisco si farebbe così simbolo. Con uguale procedimento, un campo primaverile è indicato, nella sesta egloga, v. 53, come ricco di giacinti, ossia fertile di vegetali. Se intendiamo hibisco come ablativo, dovremo invece pensare a un bastone ricavato dal fusto della pianta, il che è abbastanza realistico pensando al nostro ibisco, un po’ meno all’althea selvatica.
Infine, ecco l’ultimo ambito botanico al quale fa riferimento Coridone. Nel presentare una serie di doni che dovrebbero allettare Alessi e invitarlo a trasferirsi in campagna, Coridone immagina come presenti alla scena (ma il suo è ormai una sorta di delirio onirico) delle Ninfe che portano canestri di fiori e di frutta, vv. 45-55. Nell’elenco c’è un po’ di tutto: fiori e frutti che si producono in stagioni diversi; colori e profumi che si mescolano fra loro. Proprio l’aspetto cromatico e quello olfattivo sembrano anzi avere guidato la scelta del cantore, perché sono caratteristiche costanti di pressoché tutte le piante citate, anche quando Virgilio sottolinei solo una di esse. Nell’ordine infatti troviamo: pallentes violae, le violette bianche di primavera, la viola alba da sottobosco; summa papavera, probabilmente i papaveri da campo, papaver rhoeas, non quelli da oppio, di cui abbiamo parlato in un altro post; il narciso, narcissum poeticum, bulbosa colorata anch’essa primaverile, presente sia in natura sia, di maggiori dimensioni, nei giardini coltivati; l’aneto profumato, anethum graveolens, erba aromatica dalla gialla infiorescenza estiva; la casia, fiore di incerta identificazione, comunemente interpretata come la lavandula stoechas; i mollia vaccinia di cui abbiamo già parlato; la calendola (calendula officinalis), per quanto riguarda i fiori; pesche (malum dalla tenera lanugo, preferibili alle mele cotogne spesso indicate al loro posto nei commenti), castagne, prugne, alloro e mirto fra le piante. Degli uni come delle altre fornisco una rapida rassegna fotografica. Inizio dai fiori.
Ed ecco ora i frutti. Tralascio le castagne, già presenti nella prima egloga, ma anche le pesche e le prugne, che immagino a tutti ben note, ricordando solo che il pesco (prunus persica) è pianta di origine orientale, diffusa nel Mediterraneo a partire dall’epoca alessandrina; il pruno, prunus domestica, nell’età di Virgilio era ancora una pianta ricercata ed esotica, importata di recente dall’Asia, e non nativa dell’habitat mediterraneo (dove pure aveva facilmente attecchito). Dell’alloro e del mirto ricordo il carattere profumato di entrambi; e il loro essere consacrati rispettivamente ad Apollo e a Venere, due divinità che attraverso le piante di riferimento vengono così, in qualche misura, evocate all’interno del canto, a suggellare, nel finale della scena, il suo carattere di canzone amorosa.
© Massimo Gioseffi, 2019