Cerco di contribuire alla sospensione delle lezioni offrendo un po’ di materiale di riflessione su autori e temi latini. Dedico questo post a Virgilio e alle Bucoliche, in continuità con una serie di post già disponibili su questo sito (sul tema dell’Arcadia e sul tema delle piante presenti nelle prime sei egloghe), che, messi assieme, possono fornire una certa possibilità di lavoro.
Il post, che per comodità di consultazione ho diviso in due, lo vorrei dedicare a sfatare quattro miti relativi alle Bucoliche. Parto dal primo, che chiamerò mito biografico. L’immagine delle Bucoliche che traspare da quasi tutte le letterature in uso nelle scuole italiane è quella di una composizione scritta in relazione alle espropriazioni dei campi avvenute dopo la battaglia di Filippi e l’accordo fra i triumviri vincitori, per ricompensare i veterani dell’esercito di Cesare. In questa visione tradizionale Virgilio, che aveva rischiato di perdere i suoi possedimenti, ma li aveva poi conservati grazie all’intercessione di Ottaviano, nella prima egloga darebbe spazio al proprio ringraziamento assumendo la veste di Titiro che, dopo avere rischiato a sua volta di essere allontanato dai propri beni, fu invece salvato dall’intervento provvidenziale (ancorché sollecitato) di uno iuvenis deus abitante a Roma. Questa lettura si scontra con almeno tre particolari. Il primo: tutto ignoriamo circa le proprietà di Virgilio, poiché il materiale antico che fa riferimento alla vicenda che ho appena raccontato non risale oltre l’età di Svetonio, cioè grosso modo duecento anni più tardi del (presunto) svolgersi dei fatti. Quel materiale ha quindi valore romanzesco, o – se vogliamo – può essere considerato al massimo come un tentativo di interpretare il testo virgiliano; ma non ha valore di testimonianza. Un testimone che vive 200 anni dopo i fatti che testimonia è, ovviamente, un testimone inattendibile. Quale fosse l’origine sociale di Virgilio, se avessero o meno lui e la sua famiglia delle proprietà terriere, se quindi il poeta sia stato coinvolto oppure no nelle espropriazioni, non lo possiamo dire. Quello che possiamo dire, secondo elemento di cui tener conto, è che i lettori contemporanei a Virgilio (delle Bucoliche ci parlano a brevissima distanza cronologica dal loro apparire due poeti vicini a Virgilio, e cioè Orazio nella decima satira del primo libro e Properzio nella trentaquattresima elegia del secondo libro) , quei lettori – dicevo – non mostrano nessuna conoscenza di una interpretazione autobiografica delle Bucoliche, e quando parlano di quell’opera la interpretano come una somma di storielle autonome e fantasiose. Terzo elemento: la struttura a perno sulla quinta egloga fa sì che alla prima egloga corrisponda, per analogia di argomento, la nona egloga, che infatti parla anch’essa di espropriazioni e di violenze avvenute in campagna. Il protagonista della nona egloga, Menalca, è un pastore rinomato per la sua abilità di canto, che aveva rischiato di perdere i propri beni, che era riuscito apparentemente a mantenerli in virtù della sua eccellenza poetica, ma che poi alla fine li aveva persi ugualmente. Se proprio vogliamo trovare un riferimento autobiografico nelle Bucoliche, dovremo dire che questa egloga si adatta molto di più a Virgilio della prima: perché nella prima Titiro è sì raffigurato a cantare la bella Amarillide, ma non sembra un cantore di eccellenza riconosciuta, ammessa da tutti, come invece è Menalca e come i poeti a lui contemporanei ci assicurano fosse riconosciuto Virgilio. Se però Virgilio è Menalca, l’egloga nona ci dice che il poeta, dopo avere pensato, o forse sperato, di conservare i propri beni, li avrebbe lo stesso persi anche lui… Io vorrei però prescindere per questa, come per la prima egloga, da ogni lettura autobiografica, per limitarmi a osservare questo: il lettore continuativo delle Bucoliche – quello cioè che non si limita a un unico testo, inevitabilmente distorto – leggeva nella prima egloga che esiste una possibilità di salvezza (dalla violenza delle espropriazioni), possibilità che Titiro ha saputo sfruttare, Melibeo no. Quello stesso lettore, andando avanti nell’opera, leggeva però anche che chi aveva pensato di salvarsi in virtù delle proprie doti o di aiuti particolari, in realtà non si era salvato, ma aveva subito il destino di tutti. Proprio in conseguenza di questo, i personaggi dell’egloga nona possono esprimere una morale generale dal tono piuttosto sconsolato: i canti, la poesia, valgono, come difesa personale, tanto quanto valgono le colombe all’arrivo dell’aquila, e cioè niente. Alla lettura biografica delle egloghe proporrei allora di sostituire una letture che chiamerò “generazionale”, introducendo l’idea che ogni generazione (un concetto storicamente labile, ma che ha una sua efficacia pratica) vive un proprio shock – per la mia generazione, affacciatasi alla comprensione della vita nei primi anni Settanta del Novecento, ad esempio, questo shock fu sicuramente il terrorismo, non a caso continuamente rimosso nel seguito della nostra vita, tanto che ancora oggi, quando viene chiamato in causa per qualche ragione, genera reazioni impreviste e a volte sorprendenti (per i giovani del 2020, spero che lo shock che ne influenzerà i comportamenti anche a distanza di decenni non debba essere il virus che ci sta tenendo tutti a casa). Le Bucoliche, a mio parere, non vanno lette in chiave personale, ma come la risposta di un grande poeta a quello che aveva immediatamente percepito essere lo shock della propria generazione. Ricordo che le Bucoliche costituiscono quello che oggi noi chiameremmo un “instant book”, ossia un libro scritto a brevissima distanza di tempo dagli avvenimenti che descrive, composto a ridosso dei fatti storici che hanno dato loro ragione di essere. Non sappiamo se Virgilio avesse campi o no, se ne sia stato espropriato, o no. Ma certamente lui aveva visto le espropriazioni e le aveva viste arrivare non dalla parte dei nemici (i Pompeiani o i Cesaricidi). Le espropriazioni, con quanto di illegale hanno portato con sé, erano state opera degli eredi di Cesare, erano state opera di chi si pensava amico e continuatore dell’azione cesariana. Inoltre, Virgilio le espropriazioni le ha viste arrivare e abbattersi su persone senza colpa; ha visto che comportavano la perdita di ogni bene e della propria identità sociale (Melibeo è costretto all’esilio; Menalca, un tempo proprietario, rimane sì sui terreni che erano stati suoi, ma nella veste di mezzadro, costretto a pagare la decima a un possessor che nulla ha fatto per lavorare i campi). Virgilio, infine, ha anche imparato che se all’inizio le espropriazioni sembravano un evento gestibile, perché ammettevano diversità di reazioni e di comportamenti, poi si sono rivelate una violenza generalizzata, che ha annullato qualsiasi diversità, contro la quale niente è servito di difesa, e nessuno se ne è potuto salvare. E’ di questo allora che parlano le Bucoliche, e si capisce perché, a distanza di oltre duemila anni, esse siano ancora un’opera ritenuta degna di essere letta (perché ogni generazione, prima o poi, si ritrova in circostanze simili), laddove se si riferissero ai fatti privati di Virgilio poco ci interesserebbero oggi. Partendo da questa ottica, capiamo anche perché Titiro sia descritto nella prima egloga con termini molto realistici e precisi, che però non corrispondono all’immagine che Virgilio aveva al tempo delle Bucoliche: nel 40 (un anno di comodo), Virgilio ha trent’anni e, come attestano i suoi tria nomina, è cittadino romano fin dalla nascita; Titiro invece è vecchio, ha la barba bianca, ha vissuto varie avventure amorose, è stato a lungo schiavo e si è riscattato solo di recente. Capiamo anche perché nell’egloga Melibeo abbia altrettanto spazio di Titito, se non di più, e perché al suo lamento sia dato altrettanto spazio che al ringraziamento di Titiro, se non di più…
Il secondo mito che possiamo a questo punto sfatare è quello del valore celebrativo delle Bucoliche. Le Bucoliche non celebrano Ottaviano, del resto mai nominato nell’opera; e non celebrano (come pensavano i commentatori del IV secolo) i tresviri agris dividundis che avrebbero concesso a Virgilio/Titito di conservare i propri beni. Questa seconda affermazione si smonta facilmente: se l’egloga prima non si può leggere in chiave autobiografica, non c’è ragione di ringraziamento. Aggiungo che un collega espertissimo di queste cose, Fabio Stok, in un bellissimo articolo ha dimostrato come la carica di tresviri agris divendendis in realtà non sia mai esistita, sia un’invenzione di comodo della scuola tardoantica. Quanto a Ottaviano, mi limito a dire questo: nel libro virgiliano l’unico personaggio politico ricordato più volte, con tanto di “nome e cognome”, è Asinio Pollione, citato nella terza egloga come poeta, come esperto di poesia, come svolgente la funzione di patronus verso altri giovani poeti, e anche verso i due giovani poeti che si scontrano fra loro nell’egloga (nessuno dei quali è necessariamente Virgilio, ma uno dei quali ha nome – guarda caso! – Menalca…). Asinio Pollione è ricordato anche nella quarta egloga, per via del suo consolato del 40 a.C. Sappiamo che i consoli di quegli anni erano stati scelti con largo anticipo, secondo un metodo che anticipa il “manuale Cencelli” di buona memoria (Massimiliano Cencelli è un politico italiano della Prima Repubblica, credo ancora vivente, noto per non avere mai scritto il manuale che gli si attribuisce [e che non esiste come opera letteraria], ma che in realtà era una somma di regole di spartizione delle cariche pubbliche fra partiti e correnti politiche, all’interno dei partiti). In questo meccanismo, un console veniva scelto da Ottaviano, uno da Marco Antonio. I consoli del 40 a.C. furono Asinio Pollione e Gneo Domizio Calvino. Quest’ultimo era un partigiano di Ottaviano; Pollione era uomo di Antonio. Pollione è ancora ricordato, più dubitativamente, nell’egloga ottava, dedicata a un Tu che rimane senza nome, ma di cui si ricorda il trionfo (Pollione, proconsole in Macedonia nel 39 a.C., ottenne in effetti l’onore del trionfo). Accanto a questa figura, nota, evidente, ben definita – e schierata sempre con Antonio! – nel Liber bucolico compaiono altre due figure che invece non hanno nome, ma di cui si ricorda solo la funzione: il puer della quarta egloga e il iuvenis deus della prima. Una buona lettura di quei testi suggerisce di lasciare le due figure nel loro ruolo di funzioni, un puer che deve rinnovare il mondo e un deus che ha salvato – o sembra avere salvato – Titiro. Meglio evitare, cioè, di dare loro un nome. Se però proprio vogliamo invece puntare a una verità storica, dovremo ammettere che l’identificazione più probabile, fra le molte, spesso fantasiose, che sono state proposte per il puer della quarta egloga, vede in quel bambino il frutto (auspicato, ma non ancora prevedibile con certezza) del matrimonio fra Marco Antonio e Ottavia, la sorella di Ottaviano. Il matrimonio si celebrò nel 40 a.C., l’anno del consolato di Pollione, sotto i cui auspici l’evento è quindi messo. Da quelle nozze nascerà un figlio l’anno dopo, ma sarà una bambina, non un bambino: Antonia, la futura madre di Germanico. Allora, anche questo puer senza nome, se gli vogliamo dare un nome, rischia di essere legato più ad Antonio – che ne sarebbe il padre – che a Ottaviano, che ha solo il ruolo di zio materno (lo zio che, come sappiamo – lo ha dimostrato in un suo libro Maurizio Bettini – ha meno peso nella famiglia, in opposizione allo zio paterno). E il deus? Rimane figura senza nome, forse anche perché era conveniente lasciarlo così. Segnalo solo che iuvenis per i Romani è un termine ambiguo: si definisce iuvenis, per tradizione, qui iuvat rem publicam, prendendo le armi e combattendo da adulto. Quindi è un termine che, nel 40 a.C. , si prestava perfettamente al ventitreenne Ottaviano; al trentaseienne Pollione; ma anche, perfino, al quarantatreenne Antonio. Quanto a deus, è il termine con cui, nella lingua comune, si definisce il proprio patronus (Pollione dunque?), ma con cui Titiro rimarca più volte che è lui a voler indicare così il suo protettore, quale che questi sia. Dunque, nessuna delle tre possibili identificazioni ottiene, dal testo, più forza delle altre…
© Massimo Gioseffi, 2020