Riprendiamo il discorso intorno a Jacques Offenbach, presentando la prima delle sue operette ambientate nel mondo classico. Si tratta di Orphée aux Enfers, rappresentata al Théâtre des Bouffes-Parisiens nel 1858, il locale da lui fondato tre anni prima. Nella vicenda artistica di Offenbach, l’Orphée segna un punto di non ritorno, non solo per lo straordinario successo che arrise al testo, ma anche perché, con esso, il musicista aveva potuto superare una serie di leggi risalenti all’età napoleonica, che impedivano a teatri musicali diversi dall’Opéra di mettere in scena spettacoli complessi, di lunga durata o con più di quattro personaggi in scena – che è appunto l’organico delle prime operette offenbachiane. L’Orphée, scritto su libretto di Hector Crémieux e Ludovic Halévy (quest’ultimo nipote di un compositore famoso, e noto per la sua successiva collaborazione con Henri Meilhac, che lo porterà a firmare, nel 1875, il libretto della Carmen di Georges Bizet), prevede invece un gran numero di personaggi, due atti e quattro scene di diversa ambientazione, per una durata complessiva intorno alle due ore di musica. Colpo di genio dello spettacolo è di immaginare Orfeo ed Euridice come una coppia borghese, giunta vicina al punto di rottura del matrimonio: lei, stanca e annoiata dalle arie che si dà lui (violinista alla locale Opéra), sogna flirt e tradimenti, e si getta ben volentieri fra le braccia di Aristeo. Lui, a sua volta stanco di una moglie capricciosa e civettuola, spera solo di liberarsene per correre fra le braccia della ninfa Maquita (nome spagnolesco, da sciantosa di locale alla moda). Altra idea geniale è immaginare che Aristeo sia in realtà Plutone travestito da figura umana: in questo modo l’abbraccio di Euridice con il suo amante, quando finalmente si realizza, comporta inevitabilmente la morte dell’eroina. Inoltre, lo spettacolo prevede la partecipazione di un personaggio denominato “L’Opinione pubblica”. E’ lei che obbliga Orfeo alla grande impresa del riscatto di Euridice: se Orfeo è il cantore mitico che dice di essere, egli deve tentare l’impresa, anche se in realtà non ne avrebbe nessuna voglia. Viene così anticipato molto teatro novecentesco, specie d’ambito francese (Anhouil, Gide, Cocteau), nel quale l’insuccesso di Orfeo è iscritto nell’impresa stessa ed è un atto voluto, una libera scelta dei personaggi, e non un elemento drammatico che mette in evidenza l’impotenza dell’uomo e l’inesorabilità delle leggi divine.
All’alzata del sipario siamo a Tebe. Un breve preludio ci introduce alla situazione, presentando una musica malinconica, che delinea prima un clima bucolico di sapore vagamente arcaico, poi uno spazio più aulico.
Euridice canta la propria gioia in un’arietta elegante e vaporosa, ricca di abbellimenti vocali, mentre, assente il marito, prepara mazzi di fiori per Aristeo, le berger joli qui loge ici (è un vicino di casa), in attesa che questi la raggiunga.
Anziché Aristeo arriva però Orfeo, e vediamo così i due sposi litigare furiosamente. Orfeo intuisce il tradimento della moglie, e per vendicarsi promette di suonarle il suo ultimo concerto per violino, della durata di un’ora e un quarto. Euridice dapprima si dispera, poi lo deride, infine prega gli dei di liberarla da un tale marito, mentre lui elenca uno dopo l’altro tutta una serie di termini musicali.
Quando infine arriva Aristeo, la sua canzone è tenera e pastorale, quasi effeminata (l’interprete è un tenore di carattere, che si immagina abituato a ruoli comici), salvo svelare la propria fiera natura nel finale.
L’abbraccio dei due amanti porta alla morte di Euridice, espressa con una melodia delicata, che fa il verso all’opera seria. Aristeo/Plutone lascia un beffardo messaggio per Orfeo: Je quitte la maison parce que je suis morte / Aristée est Pluton et le diable m’emporte! Quando Orfeo lo trova, si dà alla pazza gioia, ringrazia Giove e tutti gli dei e proclama la sua felicità di uomo finalmente libero.
A questo punto interviene però l’opinione pubblica, che obbliga alla grande impresa. Per riuscire in essa, l’Opinione guida Orfeo verso l’Olimpo, così da chiedere aiuto a Giove. La scena si trasferisce dunque lì, dove le cose non vanno molto meglio: gli dei sono pigri, neghittosi, passano le giornate dormendo o compiendo atti contro la comune moralità. Atteone, ad esempio, è appena stato trasformato in cervo, ma non da Diana, come vuole il mito, bensì da Giove stesso, che scorgendo una certa disponibilità di Diana verso un comune mortale ha pensato bene di intervenire e rimettere a posto le cose (e la mitologia). Proprio quest’opera moralizzatrice di Giove, provoca però un’accusa nei suoi confronti: come può dedicarsi a una simile azione lui, quando è ben noto come seduttore di donne mortali? Non si è forse dato da fare, anche di recente, con la bella Euridice? Sull’Olimpo è infatti giunta notizia del rapimento della donna ad opera di un dio, e tutti naturalmente pensano a Giove, non a Plutone. Contro il padre degli dei si scatena così una rivolta delle altre divinità, che lo accusano di ipocrisia.
Quando Orfeo arriva a chiedere aiuto per recuperare la sposa, Giove si sente perciò obbligato ad assecondarlo, anche se né lui ne ha troppa voglia, né Orfeo (che pure cita, parodiandola, l’aria più famosa di Gluck, Che farò senz’Euridice) arde dal desiderio di recuperare la sposa. Incuriosito dall’audacia di Plutone, e dalla fama di bellezza di Euridice, Giove alla fine decide però di fare perfino qualcosa di più del richiesto, promettendo di aiutare in prima persona lo sposo ‘desolato’ e partendo a sua volta per gli Inferi, accompagnato dal coro inneggiante degli dei, ora riconciliatosi con il loro sovrano.
Nell’Ade le cose non vanno troppo bene. Plutone si è già stancato della nuova conquista ed Euridice è annoiata dalla vita nell’oltretomba, ancora più monotona di quella terrena, con la sola compagnia di un eunuco di nome John Styx, che le fa la guardia e non la lascia civettare come vorrebbe. In breve, la donna rimpiange perfino il marito: Ah! quelle triste destinée me fait ici le dieu Pluton!
Intanto arrivano Giove e Plutone; questi nega di avere con sé Euridice, che Giove cerca vanamente per tutto l’appartamento (la garçonnière) che il fratello gli mostra. In aiuto del padre interviene però il piccolo Cupido, che gli promette di mutare la sua forma in qualcosa di veramente capace di garantire pieno successo alla ricerca. Giove già gongola, prima di scoprire che si sta per trasformare in mosca, sia pure una mosca dalle ali d’oro. In effetti, il dio giunge così a trovare facilmente Euridice, e può sedurla con il suo charme. E’ qui che, come spesso nel teatro di Offenbach, la parola perde di significato, trasformandosi in puro suono, il fastidioso (ma seduttivo) ronzio di una mosca…
Plutone, che ha capito quanto sta succedendo, vorrebbe dare la caccia all’insetto importuno, ma ad opera di Giove e di Cupido si trova presto circondato da una ridda di altre mosche che gli volano intorno e impediscono la sua ricerca.
Piccato, Plutone offre allora un grande banchetto a tutti gli dei: l’idea è che anche Giove vi dovrà intervenire, ovviamente con la sua normale immagine, e quindi si troverà costretto ad abbandonare, almeno per poco, Euridice. Alla festa, Euridice inneggia al giovane Bacco; Plutone cerca di riuscire a trattenere con sé la donna, sottraendola alle attenzioni di Giove; questi vorrebbe invece trasformarla in baccante, per fuggire con lei. Nel pieno del festino, Plutone offre uno spettacolo di danza ai suoi ospiti: è la scena, che già conosciamo, del Galop infernale.
Intanto arriva Orfeo, di cui ci eravamo un po’ dimenticati, sempre accompagnato dall’Opinione pubblica. Giove, che li riconosce immediatamente e sa che cosa vogliono, pensa che questa sia una buona occasione per uscire dall’imbarazzo, e quindi concede immediatamente Euridice al marito, sia pure con il divieto di voltarsi a guardarla per tutto il tragitto di ritorno dall’Ade. Al primo rumore opportuno, però, Orfeo è ben lieto di girarsi per vedere che cosa stia succedendo, perdendo così di nuovo la moglie, e questa volta definitivamente. Per mettere ordine al caos che si è venuto a questo punto a creare, Giove prende una decisione salomonica: Euridice non sarà né sua né di Plutone, ma si trasformerà in una baccante, e come tale vivrà al seguito del giovane Bacco. La donna, in cerca di novità, accetta prontamente, e tutti i presenti inneggiano alla soluzione.