I miti antichi, si sa, sono duri a morire! Per questo il teatro contemporaneo continua a fare ricorso ad essi, come a una miniera inesauribile di storie sempre vere e sempre riattualizzabili. E’ quello che è successo, quest’inizio di estate, con il mito di Orfeo, messo al centro di uno spettacolo multiculturale, “Orfeo & Majnun”, andato in scena al teatro de la Monnaie (Bruxelles) a fine giugno, e al festival di Aix-en-Provence nella prima metà di luglio. La recita inaugurale del festival è disponibile, per un po’ di tempo, in streaming su youtube, e gli interessati potranno prenderne visione diretta a questo indirizzo:
L’idea di base è quella di mettere assieme due storie fondanti, rispettivamente, l’Occidente e l’Oriente (arabo): il mito di Orfeo ed Euridice e quello di Qays e Layla. Qays è un poeta che ama, ricambiato, Layla. Ma la famiglia di lei si oppone alle nozze, e il padre della ragazza la fa sposare a un ricco possidente. Layla però muore, mentre Qays impazzisce e canta il proprio dolore alle greggi di cui era pastore, fino a venir meno per il desiderio inappagato. Il nome “majnun”, che egli assume prima di morire, significa appunto “folle”. Del mito di Orfeo non metto ovviamente conto di parlare in questa sede. Il testo dello spettacolo è stato affidato a due librettisti, Airan Berg e Martina Winkel, che sono responsabili anche della messa in scena. Tre i compositori che si sono divisi il compito della parte musicale: il palestinese Moneim Adwan, classe 1970; il belga Howard Moody (1964), già autore di opere per la Monnaie e Glyndebourne, e Dick van der Harst (1959). Ognuno dei tre porta la propria esperienza alla partitura, che alterna lingue (inglese, francese, arabo) e stili differenti (musica mediorientale; musica classica propriamente detta; echi di jazz). Le due vicende sono raccontate in parallelo; una voce narrante, l’attrice Sachli Gholamalizad, interviene più volte, in francese, mettendo ordine a una rappresentazione altrimenti non sempre facile da seguire.
Quale il giudizio da spettatore? La discussione è aperta. Diciamo che, ovviamente, l’operazione multiculturale ha un’importanza che trascende i valori scenici e musicali del testo, e questo si avverte, ad esempio, dalle recensioni “ufficiali” dello spettacolo, tutte improntate al “politically correct” che in simili occasioni si impone come indispensabile. A mio parere – confutabile da tutti quanti avranno la pazienza di vedere l’opera e lasciare il loro giudizio – c’è però qualcosa di non perfettamente compiuto. Lo spettacolo è elegante, ma poco vivo, tanto che, contro le regole, il semplice ascolto prevale sulla visione. Proiezioni, burattini, animali semoventi (si fa per dire), come in una Zauberflöte dei poveri, sono tutte cose già viste e fanno rimpiangere la ben diversa vivacità dei Muppets, che nella lontana serie Who’s Afraid of Opera duettavano con Joan Sutherland (1972). I cantanti “arabi”, chiamiamoli così, non sono cantanti lirici propriamente detti e l’impostazione della loro voce obbliga i teatri a un’amplificazione visibile e dichiarata; stesso discorso per gli interventi della narratrice. Di conseguenza, anche Orfeo ed Euridice, un baritono e un soprano di coloratura, vengono amplificati, e questo in uno spettacolo d’opera è sempre male. L’orchestra è professionale, il coro meno – a volte si sente. Bravissimo, viceversa, il giovane direttore libanese Bassem Akiki, che tiene le fila del tutto, e non deve essere stato facile. Ma cosa dire della parte musicale propriamente detta? Intanto, dopo un inizio molto interessante (nel quale viene rievocata la creazione del mondo, per poi portare l’attenzione sul ruolo delle donne, e da qui evocare le protagoniste femminili delle storie narrate, fino a un duetto che vede mescolare le voci delle due eroine, che si sono prima presentate ciascuna a suo modo), le vicende narrate sembrano più giustapporsi che fondersi, e così gli stili della musica. Se l’intenzione era quella di realizzare un’opera multiculturale, forse l’intento è riuscito solo in parte. Nei novanta minuti circa dello spettacolo si ha l’impressione di avere acquistato due opere al prezzo di una, più che un’opera che realmente fonda stili e modi differenti. A essere sinceri, lo spettatore “occidentale” ha anche l’impressione che la parte orientale prevalga sulla propria, sia nel minutaggio ad essa concesso (a un controllo preciso non credo che risulti vero), sia nello stile, perché Orfeo ed Euridice – chiamati di norma a un declamato non melodico – finiscono per suonare più “orientali” di quanto non dovrebbe essere. Fa effetto straniante, poi, la mescolanza delle lingue, specie nei duetti fra Orfeo ed Euridice, con lui che canta sempre in inglese, lei ora in inglese ora in francese. Infine: nonostante del mito di Orfeo siano rievocati tutti i passaggi fondamentali (presentazione e duetto d’amore fra i protagonisti; scena del matrimonio; morte di Euridice; discesa all’Ade di Orfeo, che incontra Caronte e Cerbero; restituzione di Euridice e aria della di lei felicità; fallimento della risalita alla superficie terrestre e seconda morte di Euridice), l’impressione complessiva è che l’azione si risolva non in fatti, ma in commenti; e che questi manchino di una particolare novità o profondità, al di là dell’ovvia celebrazione dell’universalità dell’amore e della compenetrazione di amore e sofferenza a qualunque cultura ci si trovi ad appartenere.
Detto questo, non mancano certo gli elementi di forte interesse. Darei una doppia risposta, da classicista e da curioso di musica. Nella prima veste segnalo l’importanza concessa al mito di Orfeo, ritenuto il più rappresentativo dell’Occidente. Il parallelo con la storia di Qays e Layla funziona solo in parte: nel mito greco non c’è opposizione delle famiglie (meglio sarebbero andati Piramo e Tisbe o Romeo e Giulietta); viceversa, nel mito arabo vengono meno la discesa all’Ade, la sfida con l’impossibile, il canto che deve convincere e superare la Morte, la seconda prova affrontata e persa da Orfeo, spinto a voltarsi dalla passione e dal desiderio, ossia da quelle stesse molle che lo avevano condotto a tentare l’impossibile e a cercare di recuperare Euridice dall’Ade. Perché la musica e la poesia possono sì soccorrere l’essere umano, ma solo fino a un certo punto; e ciò che è forza in Orfeo (e lo spinge a scendere nell’Oltretomba) è anche la sua debolezza, che lo porta a voltarsi anzi tempo e a perdere definitivamente la partita che sembrava già vinta. Rispetto a questo mito, la vicenda araba è più semplice e lineare, ma in fondo, absit iniuria, meno significativa: una coppia contrastata, costretta alla separazione, che non elabora il lutto e sceglie la morte. Accomuna invece le due vicende il ruolo consolatorio, ma non troppo, assunto dalla Natura: sia Orfeo che Qays trovano negli animali quella sympatheia che invano spererebbero dagli uomini o dalle divinità crudeli. Ciò forse spiega l’ampio risalto concesso nello spettacolo, fin da subito, ai pupazzi animati, anche quando francamente se ne sarebbe potuto fare a meno.
Il curioso di musica segnala, invece, la presenza di alcuni momenti “forti” nella partitura. Qui ne scelgo quattro. Il primo, cui ho già fatto riferimento, è l’inizio dell’opera, nel quale si mescolano movenze sincopate che ricordano il jazz, o forse meglio certi musical di ambientazione newyorkese realizzati negli anni Cinquanta da Leonard Bernstein, dai quali sembra provenire la ritmica del pezzo:
Interessante è anche la parte di Euridice, predominante su quella di Orfeo, nonostante il ruolo eponimo di quello. Di essa propongo la scena delle nozze con Orfeo, un duetto ricco di agilità, fra stile musical e qualche reminiscenza, forse, di Tempus est iocundum (Totus floreo) di Carl Orff:
Ecco invece il funerale di Euridice, con la decisione di Orfeo di scendere nell’Ade (“I’ll follow you”), la discesa, il dialogo con Caronte, qui impersonato dall’attrice che parla e irride il dolore del personaggio, prima di lasciarsene conquistare:
Infine, un certo rilievo ha il finale. Prima il coro commenta il destino degli amanti; interviene poi la narratrice a raccontare, facile consolazione, dell’esistenza del pianeta Eros, intorno al quale ruotano gli asteroidi Orpheus e Majnun. La gloria che i quattro giovani non hanno trovato in vita viene loro concessa dopo la morte; passerella finale di tutti i personaggi e coro esultante. Il pubblico può tornare a casa appagato e festoso.
https://en.wikipedia.org/wiki/Layla_and_Majnun
© Massimo Gioseffi, 2018