Lo ammetto. Avevo letto Tibullo per gli esami universitari (a metà degli anni Ottanta, la terza annualità di Latino, indispensabile per laurearsi in quella materia o in Filologia classica, prevedeva la lettura integrale di questo autore, assieme ad Amores e Heroides di Ovidio); l’ho riletto quando ho scritto il commento alle Bucoliche di Virgilio – Tibullo è uno dei primi autori a reagire all’opera virgiliana, ripetendola, rifiutandola, saccheggiandola a livello di idee e di iuncturae. Ma in entrambi i casi, non posso dire che mi avesse fatto grande impressione…
Devo all’A.I.C.C. di Pordenone (una delle associazioni più vive nella cultura italiana) l’aver riletto questo autore, per una conferenza da tenere in quella città. Sarà l’età, ma rileggendolo Tibullo mi è parso un poeta di grande interesse. Non però nell’immagine che di solito ci viene trasmessa dalle storie letterarie in uso – e che mi pare fondata, in sostanza su quanto di lui hanno detto Orazio e Ovidio, l’uno e l’altro appiattendolo però, su un’idea che a loro faceva comodo, ma che poco risponde all’opera tibulliana.
Provo a spiegarmi. Da Catullo in avanti abbiamo imparato che una perfetta storia d’amore si articola, in poesia, in sette fasi, pienamente rispettate dalle poesie di Catullo per Lesbia e da quelle per Giovenzio (difficile dirlo nel caso di altri amori; difficile nel caso di poesie per gli amici, che presentano carmina perfettamente adeguati alle singole fasi, ma mai in un numero complessivo sufficiente per parlare di una storia complessa, fatta cioè di interazione e sviluppo). Sette fasi che sono rispettate anche da ogni storia elegiaca che si rispetti. Queste fasi sono:
- quella del primo incontro, dell’innamoramento, del tentativo di conquista dell’amato, della sofferenza per un bene che non si possiede, e non si spera di possedere (perché altri lo detengono; oppure perché l’amato non ci degna di importanza), ma che si vorrebbe possedere, e che per il momento si può possedere solo nel desiderio e nel sogno, in una proiezione fantastica verso un futuro auspicato ma non in atto;
- una seconda fase, che è quella della scelta esplicita per questo bene, e del suo tentativo di conquista (diciamo del corteggiamento, in senso lato);
- la fase della avvenuta conquista, e della piena e felice fruizione del bene conquistato;
- la fase dei primi dubbi, della prima rottura, di una separazione che si vorrebbe definitiva, ma definitiva non è mai, e che lascia invece aperta la porta per una possibile riconciliazione, purché a certi patti, a certe condizioni;
- la fase della riconciliazione, nella quale il poeta assume vesti nobili e si fa disposto al perdono e a una ripresa della storia d’amore, che però non può più essere quella di un tempo, perché l’esperienza c’è stata e fa sentire il suo peso, e perché la riconciliazione è possibile solo a certe condizioni, che gravano sulla fiducia reciproca dei due amanti;
- la progressiva scoperta dell’impossibilità di rivivere il tempo felice dell’amore, del suo non-ritorno, dell’inevitabile distacco fra i due innamorati;
- il momento della separazione netta e definitiva, del discidium, dei non bona dicta con i quali sancire questo discidium.
Per Catullo questo schema funziona perfettamente, con il carme 51 e il carme 11 a costituire gli estremi; il carme 67 (che rievoca i tempi felici, ma è stato scritto a Verona, in occasione di una separazione che sembrava definitiva, perché quisquis de meliore nota ora è accolto nel letto di Lesbia, al posto di Catullo, e gode di quei furtiva dona e di quella mira nox che un tempo erano riservati al poeta…) a rappresentare il momento della prima separazione; il carme 8, miser Catulle, desinas ineptire, con le sue incertezze e contraddizioni, fa invece da ponte verso la riconciliazione. In mezzo, prima o dopo della scoperta dell’infedeltà di Lesbia, si possono situare tutti gli altri testi, variamente distribuiti e distribuibili (a ogni studioso corrisponde, in genere, una ricostruzione diversa; e di mezzo ci si sono messi anche gli artisti, uno per tutti, il musicista Carl Orff)…
Il quadro funziona anche per Tibullo, almeno per quanto si riferisce a Delia e a Marato. Delia compare già nella prima elegia del primo libro, ma in una posizione tangenziale, dopo che per tutto il resto dell’elegia si è parlato della bellezza di una vita semplice, in campagna, senza timori e senza problemi, secondo termini prettamente idilliaci. Elemento imprescindibile di una simile vita è, naturalmente, che non la si compia da soli: è bello avere al fianco una domina, da tenere stretta di notte, al caldo delle coperte, mentre fuori infuria la tempesta invernale. Il concetto è espresso in forma generica: la necessità essenziale è avere accanto a sé una puella – qualunque puella, direi – e solo in seguito questa puella si qualifica come Delia; quasi un nome come un altro, che non rimanda a un personaggio troppo definito, come era per Lesbia e come sarà per Delia stessa, nelle elegie successive. Qui tutto è visto in funzione del poeta e del suo vivere nei campi.
La storia d’amore incomincia veramente solo con l’elegia I 2, che rappresenta il momento dell’incontro, dell’innamoramento, della conquista: Delia non è ancora la puella del poeta, che infatti la deve convincere ad aprirgli la porta della casa dove è custodita, ingannando i custodi, senza far rumore, perché lui possa giungere da lei. Azioni che non sono scontate, e non solo per la serie di difficoltà oggettive da superare (la porta, i custodi, i pericoli dello stare fuori di notte, in una città pochissimo rassicurante, perfino il marito di lei, sia questi davvero un marito oppure soltanto il precedente amante felice). L’ostacolo maggiore è Delia stessa, che non è così sicuro che voglia aprire quella porta, affrontare rischi e pericoli, garantire un amore che sia mutuus. Il poeta confida nella vittoria, ma sa di doverla conquistare, sa di dovere ancora persuadere la puella.
Nell’elegia I 3 la storia amorosa è andata oltre. Tibullo stava seguendo Messalla in Asia, ma si è fermato a Corfù, ammalato. Qui si immagina di poter perfino morire, addolorato non solo dal pensiero della morte, ma anche dell’assenza delle donne della sua vita: la madre, la sorella (di cui non sappiamo e non sapremo altro); Delia – si realizza così in pieno la negazione del sogno di felicità descritto nella prima elegia: vita in campagna (e invece Tibullo è per mare, sulla strada di una guerra); tenendo al fianco l’amata (che è rimasta a Roma); una morte che venga solo dopo lungo tempo (se morisse ora, Tibullo sarebbe ancora giovane); una morte tenendo per mano la donna amata, che lo piangerà il giorno del funerale (e invece qui non solo è assente, ma sono assenti anche gli altri affetti femminili). In questo quadro di cupa disperazione, o almeno di negazione di tutto ciò che nella vita appariva desiderabile, un solo pensiero conforta il poeta. È il ricordo dei molti modi attraverso i quali Delia ha manifestato il suo desiderio che lui non partisse; anzi, ha cercato (come lui stesso, d’altronde) di ritardare quanto più possibile la partenza, ripetendo con voluttà il commiato; sono le molte cerimonie, i riti, gli indovini consultati per assicurare al poeta il ritorno. Tutte prove d’amore, non c’è che dire. Ed è questo, sia pure rivissuto a distanza, e nel ricordo, il tempo felice dell’amore. Dopo qualche divagazione sul tema della morte (e di quanto ne seguirà), Tibullo si proietta di nuovo al futuro: se scampa alla malattia, tornerà a Roma, dove giungerà inatteso (non è più parte del seguito di Messalla). Allora si presenterà da Delia, ed è sicuro di trovarla intenta a tessere, come ogni buona lanifica, ascoltando favolette e storielle poco compromettenti, pia, religiosa (la scena raffigurata da Dante Gabriel Rossetti nel dipinto in copertina). E quando lui apparirà sulla porta, Delia gli correrà incontro, lo abbraccerà, lo collocherà al suo fianco, senza cura di sé, del proprio aspetto, della decenza. Un sogno, ancora una volta, ma un sogno che si fonda su una fides sperimentata, dunque indiscussa, indiscutibile. Un sogno tutto al futuro indicativo, che non ammette forme di dubbio, al congiuntivo. Tibullo deve solo sopravvivere e tornare; ma se torna, così sarà, e l’amore dimostrato da Delia prima della partenza consente di mettere da parte qualsiasi dubbio.
I dubbi sorgono nell’elegia successiva, che non è l’elegia immediatamente successiva (I 4), ma quella ancora dopo. Delia ora è stata scoperta infedele, pronta a negarsi al poeta, pronta ad offrirsi a un dives amator – ma forse sarebbe meglio dire un ditior amator – in grado di regalarle ciò che lei vuole, e che Tibullo non è abbastanza ricco da poterle dare. Invano Tibullo sviluppa il topos dei beni che anche un amante pauper può portare (pauper, non egens: e pauper in latino è chi lavora per vivere, non chi non possiede niente). All’inizio dell’elegia il discidium è già avvenuto, e cosa abbia messo in guardia l’Io poetico non lo sapremo mai. Fatto sta che ci sono stati un litigio e un allontanamento. Allontanamento di breve durata, però, perché nonostante tutte le sue affermazioni di saper vivere senza di lei, Tibullo non nasconde il desiderio di tornare quanto prima con Delia, e per fare questo si umilia, ricorda i benefici del passato, ricorre alla magia (di lì a qualche anno saranno gli stessi passi ai quali Virgilio costringe la sua Didone); non riuscendovi, pensa perfino di ricorrere ai remedia amoris, anticipando quanto più tardi scriverà Ovidio: dal vino alle altre puellae. Però, nonostante questo, Tibullo è ancora disposto ad assumere i panni del poeta nobile. Non solo proponendosi come un accompagnatore pur sempre possibile; ma perfino scaricando il tradimento di Delia su una lena che le avrebbe mostrato i vantaggi dello scegliere amanti ricchi, seguendo chi meglio paga, obbligandola a cedere alle proposte del ditior amator… Nulla ora sembra poter scalzare questo ditior amator. Al più, Tibullo lo può minacciare: se la ricchezza è la ragione della preferenza accordatagli, sappia che a breve verrà un altro dopo di lui, anzi già si profila forse il possibile candidato, un giovane di belle sembianze e, soprattutto, belle possibilità, che da tempo ruota intorno alla casa di Delia. Ma questa non è una consolazione. Consolazione non ci può essere: a rendere impossibile il ripristino del quadro felice descritto in I 3 è la fides venuta meno. Si spezza così non tanto il legame fra i due amanti, che anzi Tibullo vorrebbe ripristinare e, si intuisce, ripristinerà appena possibile; ma il sogno “rustico”, chiamiamolo così, di una vita in campagna, l’uno a fianco dell’altra, intenti alla direzione dei lavori agricoli, lui potendo contare su di lei come su un altro se stesso (il poeta dice, significativamente, che vorrebbe lasciare a lei ogni direzione della casa ed essere nihil in domo mea). Ideale economico e sociale, prima ancora che amoroso, che ora non è più possibile. Delia potrà essere l’amante, non la sposa. Non è con lei che si potranno condividere le gioie del piccolo proprietario; non è lei che potrà accogliere Messalla in visita di cortesia; non è con lei che il piccolo verna, lo schiavo nato in casa – altrove simbolo di relativa ricchezza; qui simbolo di una sacralità della domus e dei suoi “prodotti interni” – potrà scherzare e imparare ad affezionarsi ai padroni…
Se però qui Delia può ancora essere perdonata e, sia pure in una funzione “subordinata” e “secondaria”, recuperata – fase sei dello schema di prima (e questa si intuisce che sarà la scelta di Tibullo) – ciò non è più possibile nell’elegia I 6, l’ultima a lei dedicata, nella quale troppo pesano i tradimenti della donna. Se il singolo caso poteva essere perdonato, e forse dimenticato, il ripetersi della situazione rende la riconciliazione impossibile. L’elegia I 6 è quella del definitivo addio: non è più un dives amator quello che Delia ha preferito a Tibullo, ma un qualunque nescio quis; non c’è una callida lena sulla quale riversare la colpa: Delia aveva al fianco la madre, sancta anus, donna di specchiati costumi, e a lui sinceramente affezionata, che bene l’aveva educata; ma è Delia che è corrotta, e ogni legame destinato a durare si è perciò reso impossibile. Naturalmente, di fronte alle accuse di Tibullo la donna nega, ma il poeta non le crede – è troppo esperto degli inganni d’amore! È venuto meno un elemento essenziale: non c’è più nessuna fiducia reciproca. Manca solo un passo al più completo abbrutimento: se Delia gli venisse affidata, il poeta potrebbe perfino alzare le mani su di lei. Dunque, la separazione è pressoché completa. Più concentrato e rapido di Catullo, Tibullo rispetta però perfettamente lo sviluppo narrativo stabilito da quello. Mancano forse i non bona dicta che Catullo inviava, per interposta persona, alla sua puella (carme 11), parole sprezzanti e offensive, tali da rendere impossibile ogni relazione futura. Ma l’addio a Delia non è meno definitivo. L’estrema abiezione del possibile ricorso alla violenza (un tema che ricorre in molte elegie, ma che è sempre esecrato come forma ultima di degradazione morale), la mancanza di fede nelle parole dell’altro, il tradimento degli insegnamenti materni (la patrilinearità – qui declinata al femminile – come trasmissione di valori e di un sapere che le nuove generazioni ricevono dalle precedenti e che devono saper fare loro proprio e riesprimere: un principio fondante della comunità romana) non lasciano spazio ad altro finale. Il ciclo di Delia si chiude così.
© Massimo Gioseffi, 2015 (massimo.gioseffi@unimi.it)
The Return of Tibullus to Delia (ca. 1853), dipinto di Dante Gabriel Rossetti per illustrare l’elegia I 3, 82-92 di Tibullo