Tag: tibullus

  • Claudiano e Eutropio

    Claudiano e Eutropio

    Riportiamo l’audio dell’intervento tenutosi l’11 giugno 2020, su piattaforma Zoom, nell’ambito dell’incontro intitolato Extra limina. E’ un audio preso in diretta, con tutti i limiti e gli incidenti del caso, sia nell’esposizione che nella qualità sonora. Solo abbiamo “frantumato” la registrazione complessiva (della durata di poco più di trenta minuti), in modo da fare combaciare audio e schermate pdf, in occasione dell’incontro presentate a schermo condiviso. Sotto ogni immagine si trova quindi la sezione di parlato corrispondente. Tanto le immagini quanto l’audio sono scaricabili, con i procedimenti consueti.

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    © massimo gioseffi, 2020

  • Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Il terzo ciclo all’interno del liber tibulliano dovrebbe essere, a rigor di logica, quello dedicato a Nemesi. La donna compare per la prima volta nella terza elegia del secondo libro e in forme più o meno fuggevoli occupa di sé tutti i componimenti da lì alla fine del libro, incluso il numero cinque, di fatto dedicato alla assunzione del figlio di Messalla nel collegio dei quindecimviri (ma in un fuggevole accenno finale, Tibullo sostiene di dover interrompere la composizione e non poter cantare oltre il giovane Messalla, perché troppo preso dal pensiero di lei). Eppure, quello che sosterrò ora un po’ provocatoriamente è che non esiste un vero ciclo di Nemesi, perché la donna, fedele al suo nome e alla funzione vendicativa che il suo nome suggerisce, in realtà non conosce nessuna delle evoluzione e dei passaggi previsti nelle puntate precedenti di questa rassegna tibulliana. Nemesi da subito, fin dalla sua prima apparizione, è un personaggio avido e desideroso di dona e di praeda. Questa immagine non conosce evoluzione, non conosce variazione. Delia, come abbiamo visto, dopo una menzione quasi casuale nella prima elegia del primo libro, diviene una figura dai tratti ben definiti, una sua storia, una continua interrelazione con il poeta, un’evoluzione in sé e nei suoi rapporti con Tibullo, che reagisce al di lei evolversi ma è anche motivo del di lei evolversi. Stessa cosa si può dire per Marato, pur nella specificità di quella situazione, e nella maggiore compressione dei tempi del suo sviluppo. Nemesi è invece sempre uguale a sé stessa. Nulla si può dire di lei, della sua vita, della sua persona, tranne che per due dettagli fugaci e non ben sviluppati che appaiono, guarda caso, nell’elegia conclusiva del ciclo e del libro: uno è la sua natura fors’anche onesta, ma viziata dalla presenza della solita ruffiana (un’idea che Tibullo aveva già sviluppato nel caso di Delia, e sulla quale quindi ora non insiste troppo, ma che, stando nel finale del libro, ci consegna il solito Tibullo incerto e titubante, che anche dopo aver preso risoluzioni drastiche è sempre disposto a tornare sulle scelte fatte); l’altro è il riferimento a una sorella morta in circostanze drammatiche. Un dettaglio, questo, che è di quelli che non si inventano e non appartengono a un topos narrativo: cosicché è l’unico dato reale, o almeno realistico, della biografia di questa donna, l’unico elemento che ci assicura trattarsi di una persona fors’anche davvero esistita, e non solo di un simbolo. Ma non è come persona reale che la tratta normalmente Tibullo: Nemesi per lui è una funzione narrativa, e le funzioni narrative, si sa, non hanno storia, non hanno evoluzione.

    Chi è allora il vero protagonista del libro? Ecco la mia idea: sono i rura, intesi come immagine della campagna che il poeta si è autoproiettato all’interno delle sue elegie, e che ama proiettare al lettore. Rispetto a questo tema, Nemesi è solo subordinata: è l’elemento necessario a creare l’evoluzione del racconto e a dare alla storia una parvenza esteriore di vicenda amorosa, come si compete all’elegia. Se sette sono, come indicato nelle puntate precedenti, i passaggi obbligati di una buona storia d’amore, Nemesi non conosce che gli ultimi due, o meglio conosce solo la sesta tappa (quella della diffidenza reciproca), perché anche la settima non è così sicura (il discidium forse ci sarà, forse no; e comunque, se ci sarà, non potrà richiamarsi nostalgicamente a un tempo felice che non è mai esistito). Non cosi per i rura. Nel primo libro essi sono un ideale di vita, entro il quale naturalmente deve starci anche un amore a-problematico con una puella che eserciti le funzioni della perfetta domina rustica e si faccia compagna di vita; poi, essi diventano il contenitore ideale per la specifica storia d’amore con Delia (I 2 e I 5), vista prima come possibile – finché Delia è una sposa possibile – poi come impossibile e perduta, quando Delia si rivela inaffidabile, dedita solo alla ricerca di un guadagno immediato. Ma essenziale è quanto ho appena detto della elegia proemiale: nella quale i campi sono un contenitore di per sé stessi, un luogo dove sarebbe bello vivere, meglio ancora se con una domina da tenere al fianco, specie nelle lunghi notte invernali; elemento tuttavia non indispensabile, dal quale non dipende la bellezza della vita in campagna, anche se la corona e completa. La bellezza dei campi sembra qui piuttosto corrispondere all’ideale antico di una vita semplice ma autosufficiente, in una proprietà di dimensioni sufficienti per avere pascua, messes, una silva e, soprattutto, una pubes agrestis (I 1) che poi si specificherà come turba vernarum (gli schiavi nati in casa, I 5 e II 1: quindi, anche i loro genitori dovevano essere schiavi domestici e la familia si rivela abbastanza ampia per esentare il dominus dal lavoro in prima persona, salvo che come vagheggiamente e possibilità non concreta, da fare interdum e senza troppa convinzione).

    L’elegia I 1 non racconta una realtà, ma un sogno, vuoi perché Tibullo vive in città (come si apprende dall’elegia successiva: e lì sta anche Delia, tutt’altro che la rustica domina vagheggiata in precedenza), vuoi perché il poeta è al seguito di Messalla, come gli capita più volte nel corso del liber. L’elegia delinea un traguardo, non un dato biografico: qualcosa di inattuato (non però di inattuabile: le forme al congiuntivo sono sempre al presente), verso il quale aspirare, ma che è lontano da sé. Le elegie per Delia specificano meglio questa idea, subordinando la conquista della campagna alla conquista di Delia, cosicché il fallimento della storia amorosa provoca l’allontanamento dalla vita nei campi. Questi tornano a farsi presenti nell’elegia I 10, l’ultima del primo libro, che chiude così circolarmente il percorso iniziato nell’elegia proemiale. Qui Tibullo si dice richiamato in guerra (v. 13 nunc ad bella trahor), e ciò lo pone di fronte al dilemma se abbandonare o meno ogni sogno di vita in campagna. Di fronte alle due possibilità, opta per mettere da parte la vita militare. Sceglie la campagna e la pace che (Vergilius docet) alla campagna normalmente si associa. Diciamo che questo potrebbe essere, stando allo schema indicato nelle puntate precedenti, il momento della scelta per i campi, non solo quello del loro vagheggiamento amoroso (I passo, coincidente qui con l’elegia I 1), ma anche del loro “corteggiamento” (II passo) e del desiderio di conquista.

    Nell’elegia proemiale del secondo libro (II 1) il tono cambia totalmente. Ora Tibullo è un vero proprietario terriero, che vive fra i suoi poderi, ne controlla la coltivazione, vi compie le dovute cerimonie religiose, estende perfino il suo ruolo ai vicini, che invita alla festa con il fare di un patronus che si rivolge ai suoi clientes. Se anche il campo è povero (l’ideale dei pauca iugera, del relictum solum, che era proprio già di Virgilio) basta a soddisfare i suoi bisogni e a conferirgli dignità. E’ il momento della pienezza della passione. Non ci sono ombre in questo ritratto; e non ci sono nemmeno donne. C’è una villica senza nome, che com’è giusto accompagna il dominus nelle cerimonie e le completa per la parte di sua competenza. Ma che non è né Delia né Nemesi: è la giusta e santa madre dei legittimi figli, quella che Delia avrebbe potuto divenire, ma Nemesi non potrà mai essere. Perfino Amore, il dio, in questo contesto diventa inoffensivo. Egli, dice Tibullo, è nato in campagna (una variazione mitografica, per quanto ne sappiamo), e quindi risparmia il mondo dei campi. Non che non vi si faccia sentire, ovviamente. Ma agisce senza drammi, senza ferite. Tutto è pacificato, perfino lui.

    Su questo grande idillio piomba poi Nemesi. Ci piomba dall’esterno, come il dives amator di Delia, come Foloe nella vita di Marato. Con Nemesi, piomba anche una scoperta inattesa: anche i campi sono soggetti a quella “legge economica” che si era vista per Delia e per Marato. Nella prima elegia che la nomina (II 3), Nemesi è infatti in campagna. Ma non la campagna dell’Io poetico, bensì quella di un altro, un rivale, un dives (anzi ditior) amator, che in questo caso è un ditior possessor. Se i campi possono essere considerati un soggetto economico, motivo per attirare puellae, possibile fonte di praedae e di dona, ne consegue che chi più ne possiede, più ha speranze in amore. La campagna, cioè, non è più un rifugio e una garanzia di pace: lo è solo se è ricca. La campagna è una (fonte di) praeda per le puellae insaziabili, non l’innocuo recipiente di amori spassionati. E’ fonte di dona, che non possono però più essere i semplici frutti di una terra più o meno povera: devono essere i soldi necessari a comprare vesti, oro, gioielli, prodotti cosmetici. E dunque, devono produrre denaro, o convertirsi in denaro. Fine dei pauca iugera, fine dei sogni (virgiliani) di autarcheia e di inemptae dapes. Fine anche della dignità sociale conferita – secondo il sentire romano – solamente dal possesso dei campi!

    Per ottenere denaro liquido, i campi vanno venduti: è quello che, paradossalmente, Tibullo propone nell’elegia I 4. E poco importa se così se ne vanno anche la libertà e la dignità ereditate dagli avi; convertiti in denaro liquido, i campi possono essere re-investiti in vesti, oro, gioielli ecc. Tutte le cose che Nemesi (e tutte le Nemesi del mondo) possono davvero desiderare. Nell’ultima elegia (II 6) i campi non tornano praticamente più, se non come immagine figurata. Il discidium da loro si è ormai consumato. Tibullo torna a porsi il problema se la sofferenza amorosa possa essere vinta con la vita militare: lo stesso dilemma che chiudeva il primo libro, ma che ora riceve una risposta opposta alla precedente. Sì, la milizia è una buona cura; non per sé, che non la saprà mettere in atto, ma per altri sì. Del potere dei campi, della pace, della vita tranquilla e sicura qui non si parla. Tibullo sceglierà di restare vicino a Nemesi, perché sa di essere debole e perché come tutti gli amanti è dominato dalla Speranza – una divinità che illude sempre, ma alla quale non sfugge nessuno: non lo schiavo che canta alla catena; non il pesce che si lascia prendere all’amo; non il contadino che affida i semi ai solchi. committere semina sulcis è frase tibulliana, ed era frase virgiliana. E’ l’atto stesso della coltivazione, atto di speranza e di fiducia. Che nella prima elegia del primo libro, all’inizio del percorso, era vista come una realtà sicura e garantita: si semina, e ne proviene una messe; si semina, e si attende la vendemmia. Qui, invece, viene negata la legge stessa; peggio, la si irride; peggio: la si trasforma in exemplum di un comportamento folle e irrazionale, e poco importa che sia la scelta del poeta, la sua debolezza estrema. Corrotti dall’oro e dall’umana cupidigia, i campi sono divenuti qualcosa di estraneo da sé, qualcosa da cui allontanarsi. La distanza dalla prima elegia, e dall’ideale romano, non potrebbe essere maggiore.

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Del ciclo di Marato parlerò più brevemente. Non per pruderie, amori omosessuali nella lirica latina non ci stupiscono (le prime elegie a carattere sicuramente amoroso attestate a Roma – quelle di Lutazio Catulo e dei suoi colleghi – sono decisamente bisessuali, quando non apertamente omosessuali), ma perché, sia pure narrata a ranghi ancora più serrati (in tutto sono solo tre elegie), la storia che esse raccontano è la stessa che abbiamo visto con Delia. Segnalerei però tre cose, preliminarmente:

    1. amori del genere sono, in alcune città della Grecia (non tutte) e in alcune epoche (non sempre), accettati o addirittura incoraggiati;

    2. di conseguenza, essi compaiono relativamente spesso anche in letteratura;

    3. ci sono tuttavia alcune norme da rispettare. Semplifico, ma nella sostanza direi che sono queste: nelle coppie di questo genere sono sempre ben distinti un amante e un amato, con ruoli nettamente separati e definiti; c’è un’età diversa a seconda dei ruoli; la liaison è a tempo, con una fine imposta dal crescere dell’amato (che di norma deve essere di età inferiore ai sedici anni); un simile amore non è quindi mai una scelta definitiva per nessuna delle due parti in causa: l’amante avrà altri amori, di entrambi i sessi, mentre l’amato diverrà a sua volta amante, di entrambi i sessi, e l’amante sarà perfino disposto ad aiutarlo in questa trasformazione, se si dà il caso. A questo, quando l’uso passa a Roma (o almeno, in certi ambienti della Roma “bene”) si aggiunge un’ulteriore condizione. L’amato è di origine servile, schiavo o liberto che sia, ma non è comunemente un libero cittadino. Questo comporta, anche in letteratura, alcune conseguenze: c’è sempre una disparità nella coppia (anagrafica, di ruolo, sociale); c’è sempre una corsa contro il tempo, perché l’amato cresce velocemente e arriva presto il momento in cui cambierà di ruolo; il legame perciò è precario e non può avere che fine infelice; ma questa fine la si può vivere più o meno signorilmente.

    Tutto ciò viene rispettato anche nel ciclo tibulliano su Marato: la prima elegia che lo nomina (I 4) è il momento della sua descrizione, dell’elencazione delle ragioni d’amore (“oggettive” e generali, per così dire, ma anche “soggettive” e personali, legate a quel preciso puer, e non a un qualsiasi puer che per caso si chiami Marato), della difficile e, a priori e per definizione, insicura conquista del suo affetto – siamo in un amore per forza di cose più incerto e costretto, come dicevo, a bruciare le tappe. Tutto ciò in Tibullo assume però una struttura insolita, perché l’elegia prende la forma di una lunga parenesi, quasi un’ars amatoria prima del tempo, che il dio Priapo rivolge all’Io parlante (diciamo, per comodità, Tibullo), perché questi se ne faccia portavoce con un amico e con chiunque altro vuole ascoltarlo; ma che il poeta, che la riferisce fedelmente, sa essere inutile, sia per l’amico – cui la moglie non lascia tempo e possibilità per amori con i pueri – sia per se stesso, tutto preso com’è dalla passione per Marato, che non gli consente di mantenere una lucidità sufficiente a mettere in pratica i precetti di cui si fa portavoce. Ciò fa sì che la parte generale prevalga qui nettamente su quella particolare: l’elegia è più una celebrazione dei fanciulli e del loro fascino e un’ampia rassegna delle attività da affrontare per stare loro vicino e conquistarne l’affetto, che non la descrizione della singola vicenda vissuta da Tibullo al fianco di Marato. Sebbene il finale, molto rapido e conciso, non lasci dubbio sul fatto che tutto quello che il dio ha detto con valore generale sia stato valido anche e soprattutto per Tibullo, e che quindi tutti gli stadi e le azioni descritti in precedenza (e che costituiscono i diversi momenti di innamoramento, corteggiamento, conquista dell’amato) siano stati vissuti, per l’appunto, anche da chi parla in prima persona.

    Dopo di che c’è una lunga pausa, nella quale Tibullo regola la questione con Delia e celebra il patrono Messala (elegie I 5-6 e I 7); poi Marato torna in due composizioni consecutive, le elegie I 8 e I 9. Nella prima di esse è descritto il “tradimento”, ancora perdonabile, dell’amore per Foloe (una fanciulla): segno, semplicemente, che il giovanetto sta crescendo e cambiando di ruolo, da amato divenendo amante; ma  di per sé ragione di non troppa ira – è una legge di natura e di tradizione letteraria – e, anzi, è una situazione nella quale l’Io parlante può perfino farsi terzo e assumere il ruolo del buon maestro, che guida il suo (ex)amante verso la conquista di un nuovo amore e un nuovo status sociale, e usa la propria arte per aiutarlo. Dopo un inizio dedicato al ragazzo (perché non si vergogni della sua passione e non cerchi di nasconderla all’amico), l’elegia è infatti pressoché tutta dedicata a Foloe, che Tibullo cerca di convincere ad essere generosa verso Marato. Cosa che fa usando prima le armi dell’argomentazione logica, poi supplicandola con l’aiuto delle Muse, infine minacciandola se continuerà a mostrarsi dura e spietata.

    Solo che non tutto va come Tibullo vorrebbe. Marato, per soddisfare le crescenti esigenze di una puella che presumibilmente è sempre Foloe, la di lei rapacità, il desiderio di regali (munera o dona) e di praeda (tre termini ricorrenti nel lessico di Tibullo), finisce per accettare le profferte di un dives amator – ma anche qui sarebbe più giusto dire: un ditior amator – che lo corrompe offrendogli quello che il poeta non può dargli, o almeno che non può dargli nella misura dell’altro. E questo è un tradimento inaccettabile, ben diverso da quello con Foloe: perché con Foloe era legge di natura; con il dives amator è scelta volontaria, dominata dal bisogno di denaro, non giustificabile né in base alla natura (il ruolo dell’Io parlante e del dives amator è lo stesso) né in base alla passione. Da qui gli insulti e le maledizioni, a Marato e al suo nuovo amante in primo luogo, ma anche alla puella e a se stesso, che tanto si era dato da fare per aiutare l’amico nei suoi amori per la fanciulla, fornendogli canti e fornendogli aiuti concreti e materiali; ma da qui, soprattutto, l’inevitabile discidium. Come si vede, la trama è la stessa che abbiamo visto nel ciclo di Delia, rispetto al quale va solo fatto notare che il finale è meno irrisoluto: se con Delia, infatti, Tibullo perfino nell’ultima elegia si mostrava, almeno a parole, ancora aperto a una possibilità di perdono (sebbene gli elementi elencati nel precedente post smentissero poi questa possibilità, e Delia da lì in avanti sparisce infatti di scena), con Marato la separazione è molto più netta e definitiva, e gli insulti vanno sul pesante, specie quelli rivolti al rivale.

    Va anche osservato che, come ho già detto, queste tre elegie e la storia che esse raccontano non fanno che ripercorrere, in definitiva, la storia d’amore che Catullo aveva delineato con Lesbia e con Giovenzio, storia che Tibullo fa propria, almeno nelle linee generali e nei passaggi obbligati, sia con Delia che con Marato. Nel complesso della vicenda, però, a mio parere si segnalano anche altre cose di una certa importanza:

    – un’elegia è, innanzi tutto, per sua natura più lunga di un carmen, ma nello stesso tempo la storia complessiva che un ciclo di elegie racconta è, per forza di cose, più rapida e veloce di quella che si può raccontare in un libro composito come quello catulliano: perché in Catullo la storia si scandisce attraverso molti momenti, ciascuno dei quali è fatto oggetto di uno o più specifici carmina, nettamente separati fra loro; mentre in un’elegia la vicenda tende a comprimersi, e più momenti che in Catullo sarebbero stati separati qui si sommano entro una medesima composizione, che risulta perciò, inevitabilmente, più lunga e più complessa (questo perché i diversi momenti sono, per così dire, “consumati” uno dopo l’altro, risultando bruciati più velocemente di quanto avveniva nel Liber catulliano);

    – rispetto alla vicenda narrata da Catullo, naturalmente (o almeno, rispetto alla storia con Lesbia; diverso forse il caso di Giovenzio e delle altre donne occasionalmente presenti nel Liber), in Tibullo i personaggi in gioco hanno più basso rango sociale: Lesbia è una gran signora del mondo romano, sia essa o no Clodia; la cosa non si può dire né di Delia né di Marato (e, come vedremo, nemmeno di Nemesi);

    – la vicenda di Delia e quella di Marato non hanno solo una struttura complessiva identica (pur con le differenze imposte, come dicevo all’inizio, dai diversi contesti, etero- e omosessuale), ma sono unite da un altro elemento comune, forse perfino più importante di quello notato finora. A mettere fine all’una come all’altra vicenda è infatti la comparsa, a un certo punto di ciascuna storia, dell’oro che tutto corrompe. E questo, rispetto al precedente di Catullo evocato prima, è un elemento nuovo, che sembra specifico di Tibullo, un suo spunto di riflessione, un’aggiunta del tutto personale (fermo restando che non sappiamo se e quanto questo elemento avesse peso negli Amores di Cornelio Gallo, per noi un “buco nero” nella storia dell’elegia latina). Significativo è che Delia e Marato non sarebbero di per sé avidi, per lungo tratto anzi non lo sono affatto; lo diventano con il tempo, ma la loro avidità, il loro vendersi, sono determinati da circostanze esterne e, diremmo noi, ‘sociali’, non personali o caratteriali. E questo non era così scontato, alla data di Tibullo in particolar modo, e mi pare anzi qualcosa fuori dall’ordinario e tutt’altro che pacifico per chi viveva nella prima età augustea;

    – nella storia con Delia c’è un tono più drammatico, in quella con Marato sono ammessi anche toni comici, o almeno autoironici; ma questo ci sta, perché è un elemento connesso al (sotto)genere complessivo: gli amori per i pueri, lo dicevo prima, non sono e non si propongono mai come amori per tutta una vita, sono una corsa contro il tempo, hanno fin dall’inizio una fine prevista e prevedibile – fine che si può raggiungere nel migliore dei modi possibili, oppure no, come avviene appunto con Marato, in virtù della corruzione portata dal bisogno di denaro del giovane;

    – infine: mentre con Delia era possibile immaginare una vita in campagna, dove Tibullo potesse essere il colonus padrone dei suoi beni, dedito alla cura degli dèi e all’amministrazione dei campi, e lei svolgesse la parte della perfetta villica, alla quale demandare i rapporti con gli schiavi, quelli con le divinità minori, l’amministrazione della casa e del bestiame minuto, l’accoglienza agli ospiti di prestigio (questo, almeno, finché le sue scelte di vita non l’hanno rivelata indegna di un simile compito), con Marato tutto ciò è, ovviamente, impossibile. Marato è di sicuro un cittadino, e amori come questi sono possibili, secondo Tibullo, solo in un ambiente medio-colto cittadino. Marato, del resto, per le ragioni dette prima non può essere il compagno di una vita, non può assumere compiti sacrali o istituzionali. In questo Tibullo, che per altri aspetti abbiamo visto essere abbastanza anticonformista, si rivela più conformista (ma non poteva essere altrimenti, direi) rispetto a Virgilio, che solo pochi anni prima delle elegie tibulliane al suo Coridone, protagonista della seconda egloga, faceva immaginare una lunga vita al fianco di Alessi. Inutile però segnalare che Coridone e Alessi sono, nelle Bucoliche, creature di fantasia; di rango servile e pastorale, e non equestre, come si suppone essere l’Io parlante tibulliano; e che comunque la vita che Coridone si propone resta, in ogni caso, un sogno, non una realtà: ma che i sogni di Coridone non abbiano corrispondenza nel vero è cosa sulla quale il narratore Virgilio ha messo da subito in guardia i suoi lettori e che quindi vale anche per questo dettaglio specifico (sul che mi sia però concesso rimandare al mio “Passeggiate in un bosco bucolico [a partire dalla Einführung di Michael von Albrecht]“, reperibile on line all’indirizzo https://unimi.academia.edu/massimogioseffi).

     

     © Massimo Gioseffi, 2016                        (ma**************@***mi.it)

    Illustrazione di Otto Schoff, 1884-1938, per il volume Albius Tibullus, Das Buch Marathus. Elegien der Knabenliebe, deutsche Nachdichtung von Alfred Richard Meyer, Berlin, Gurlitt, 1928
  • Tibullo poeta d’amore? I. Delia

    Tibullo poeta d’amore? I. Delia

     

    Lo ammetto. Avevo letto Tibullo per gli esami universitari (a metà degli anni Ottanta, la terza annualità di Latino, indispensabile per laurearsi in quella materia o in Filologia classica, prevedeva la lettura integrale di questo autore, assieme ad Amores e Heroides di Ovidio); l’ho riletto quando ho scritto il commento alle Bucoliche di Virgilio – Tibullo è uno dei primi autori a reagire all’opera virgiliana, ripetendola, rifiutandola, saccheggiandola a livello di idee e di iuncturae. Ma in entrambi i casi, non posso dire che mi avesse fatto grande impressione…

    Devo all’A.I.C.C. di Pordenone (una delle associazioni più vive nella cultura italiana) l’aver riletto questo autore, per una conferenza da tenere in quella città. Sarà l’età, ma rileggendolo Tibullo mi è parso un poeta di grande interesse. Non però nell’immagine che di solito ci viene trasmessa dalle storie letterarie in uso – e che mi pare fondata, in sostanza su quanto di lui hanno detto Orazio e Ovidio, l’uno e l’altro appiattendolo però, su un’idea che a loro faceva comodo, ma che poco risponde all’opera tibulliana.

    Provo a spiegarmi. Da Catullo in avanti abbiamo imparato che una perfetta storia d’amore si articola, in poesia, in sette fasi, pienamente rispettate dalle poesie di Catullo per Lesbia e da quelle per Giovenzio (difficile dirlo nel caso di altri amori; difficile nel caso di poesie per gli amici, che presentano carmina perfettamente adeguati alle singole fasi, ma mai in un numero complessivo sufficiente per parlare di una storia complessa, fatta cioè di interazione e sviluppo). Sette fasi che sono rispettate anche da ogni storia elegiaca che si rispetti. Queste fasi sono:

    • quella del primo incontro, dell’innamoramento, del tentativo di conquista dell’amato, della sofferenza per un bene che non si possiede, e non si spera di possedere (perché altri lo detengono; oppure perché l’amato non ci degna di importanza), ma che si vorrebbe possedere, e che per il momento si può possedere solo nel desiderio e nel sogno, in una proiezione fantastica verso un futuro auspicato ma non in atto;
    • una seconda fase, che è quella della scelta esplicita per questo bene, e del suo tentativo di conquista (diciamo del corteggiamento, in senso lato);
    • la fase della avvenuta conquista, e della piena e felice fruizione del bene conquistato;
    • la fase dei primi dubbi, della prima rottura, di una separazione che si vorrebbe definitiva, ma definitiva non è mai, e che lascia invece aperta la porta per una possibile riconciliazione, purché a certi patti, a certe condizioni;
    • la fase della riconciliazione, nella quale il poeta assume vesti nobili e si fa disposto al perdono e a una ripresa della storia d’amore, che però non può più essere quella di un tempo, perché l’esperienza c’è stata e fa sentire il suo peso, e perché la riconciliazione è possibile solo a certe condizioni, che gravano sulla fiducia reciproca dei due amanti;
    • la progressiva scoperta dell’impossibilità di rivivere il tempo felice dell’amore, del suo non-ritorno, dell’inevitabile distacco fra i due innamorati;
    • il momento della separazione netta e definitiva, del discidium, dei non bona dicta con i quali sancire questo discidium.

    Per Catullo questo schema funziona perfettamente, con il carme 51 e il carme 11 a costituire gli estremi;  il carme 67 (che rievoca i tempi felici, ma è stato scritto a Verona, in occasione di una separazione che sembrava definitiva, perché quisquis de meliore nota ora è accolto nel letto di Lesbia, al posto di Catullo, e gode di quei furtiva dona e di quella mira nox che un tempo erano riservati al poeta…) a rappresentare il momento della prima separazione; il carme 8, miser Catulle, desinas ineptire, con le sue incertezze e contraddizioni, fa invece da ponte verso la riconciliazione. In mezzo, prima o dopo della scoperta dell’infedeltà di Lesbia, si possono situare tutti gli altri testi, variamente distribuiti e distribuibili (a ogni studioso corrisponde, in genere, una ricostruzione diversa; e di mezzo ci si sono messi anche gli artisti, uno per tutti, il musicista Carl Orff)…

    Il quadro funziona anche per Tibullo, almeno per quanto si riferisce a Delia e a Marato. Delia compare già nella prima elegia del primo libro, ma in una posizione tangenziale, dopo che per tutto il resto dell’elegia si è parlato della bellezza di una vita semplice, in campagna, senza timori e senza problemi, secondo termini prettamente idilliaci. Elemento imprescindibile di una simile vita è, naturalmente, che non la si compia da soli: è bello avere al fianco una domina, da tenere stretta di notte, al caldo delle coperte, mentre fuori infuria la tempesta invernale. Il concetto è espresso in forma generica: la necessità essenziale è avere accanto a sé una puella – qualunque puella, direi – e solo in seguito questa puella si qualifica come Delia; quasi un nome come un altro, che non rimanda a un personaggio troppo definito, come era per Lesbia e come sarà per Delia stessa, nelle elegie successive. Qui tutto è visto in funzione del poeta e del suo vivere nei campi.

    La storia d’amore incomincia veramente solo con l’elegia I 2, che rappresenta il momento dell’incontro, dell’innamoramento, della conquista: Delia non è ancora la puella del poeta, che infatti la deve convincere ad aprirgli la porta della casa dove è custodita, ingannando i custodi, senza far rumore, perché lui possa giungere da lei. Azioni che non sono scontate, e non solo per la serie di difficoltà oggettive da superare (la porta, i custodi, i pericoli dello stare fuori di notte, in una città pochissimo rassicurante, perfino il marito di lei, sia questi davvero un marito oppure soltanto il precedente amante felice). L’ostacolo maggiore è Delia stessa, che non è così sicuro che voglia aprire quella porta, affrontare  rischi e pericoli, garantire un amore che sia mutuus. Il poeta confida nella vittoria, ma sa di doverla conquistare, sa di dovere ancora persuadere la puella.

    Nell’elegia I 3 la storia amorosa è andata oltre. Tibullo stava seguendo Messalla in Asia, ma si è fermato a Corfù, ammalato. Qui si immagina di poter perfino morire, addolorato non solo dal pensiero della morte, ma anche dell’assenza delle donne della sua vita: la madre, la sorella (di cui non sappiamo e non sapremo altro); Delia – si realizza così in pieno la negazione del sogno di felicità descritto nella prima elegia: vita in campagna (e invece Tibullo è per mare, sulla strada di una guerra); tenendo al fianco l’amata (che è rimasta a Roma); una morte che venga solo dopo lungo tempo (se morisse ora, Tibullo sarebbe ancora giovane); una morte tenendo per mano la donna amata, che lo piangerà il giorno del funerale (e invece qui non solo è assente, ma sono assenti anche gli altri affetti femminili). In questo quadro di cupa disperazione, o almeno di negazione di tutto ciò che nella vita appariva desiderabile, un solo pensiero conforta il poeta. È il ricordo dei molti modi attraverso i quali Delia ha manifestato il suo desiderio che lui non partisse; anzi, ha cercato (come lui stesso, d’altronde) di ritardare quanto più possibile la partenza, ripetendo con voluttà il commiato; sono le molte cerimonie, i riti, gli indovini consultati per assicurare al poeta il ritorno. Tutte prove d’amore, non c’è che dire. Ed è questo, sia pure rivissuto a distanza, e nel ricordo, il tempo felice dell’amore. Dopo qualche divagazione sul tema della morte (e di quanto ne seguirà), Tibullo si proietta di nuovo al futuro: se scampa alla malattia, tornerà a Roma, dove giungerà inatteso (non è più parte del seguito di Messalla). Allora si presenterà da Delia, ed è sicuro di trovarla intenta a tessere, come ogni buona lanifica, ascoltando favolette e storielle poco compromettenti, pia, religiosa (la scena raffigurata da Dante Gabriel Rossetti nel dipinto in copertina). E quando lui apparirà sulla porta, Delia gli correrà incontro, lo abbraccerà, lo collocherà al suo fianco, senza cura di sé, del proprio aspetto, della decenza. Un sogno, ancora una volta, ma un sogno che si fonda su una fides sperimentata, dunque indiscussa, indiscutibile. Un sogno tutto al futuro indicativo, che non ammette forme di dubbio, al congiuntivo. Tibullo deve solo sopravvivere e tornare; ma se torna, così sarà, e l’amore dimostrato da Delia prima della partenza consente di mettere da parte qualsiasi dubbio.

    I dubbi sorgono nell’elegia successiva, che non è l’elegia immediatamente successiva (I 4), ma quella ancora dopo. Delia ora è stata scoperta infedele, pronta a negarsi al poeta, pronta ad offrirsi a un dives amator – ma forse sarebbe meglio dire un ditior amator – in grado di regalarle ciò che lei vuole, e che Tibullo non è abbastanza ricco da poterle dare. Invano Tibullo sviluppa il topos dei beni che anche un amante pauper può portare (pauper, non egens: e pauper in latino è chi lavora  per vivere, non chi non possiede niente). All’inizio dell’elegia il discidium è già avvenuto, e cosa abbia messo in guardia l’Io poetico non lo sapremo mai. Fatto sta che ci sono stati un litigio e un allontanamento. Allontanamento di breve durata, però, perché nonostante tutte le sue affermazioni di saper vivere senza di lei, Tibullo non nasconde il desiderio di tornare quanto prima con Delia, e per fare questo si umilia, ricorda i benefici del passato, ricorre alla magia (di lì a qualche anno saranno gli stessi passi ai quali Virgilio costringe la sua Didone); non riuscendovi, pensa perfino di ricorrere ai remedia amoris, anticipando quanto più tardi scriverà Ovidio: dal vino alle altre puellae. Però, nonostante questo, Tibullo è ancora disposto ad assumere i panni del poeta nobile. Non solo proponendosi come un accompagnatore pur sempre possibile; ma perfino scaricando il tradimento di Delia su una lena che le avrebbe mostrato i vantaggi dello scegliere amanti ricchi, seguendo chi meglio paga, obbligandola a cedere alle proposte del ditior amator… Nulla ora sembra poter scalzare questo ditior amator. Al più, Tibullo lo può minacciare: se la ricchezza è la ragione della preferenza accordatagli, sappia che a breve verrà un altro dopo di lui, anzi già si profila forse il possibile candidato, un giovane di belle sembianze e, soprattutto, belle possibilità, che da tempo ruota intorno alla casa di Delia. Ma questa non è una consolazione. Consolazione non ci può essere: a rendere impossibile il ripristino del quadro felice descritto in I 3 è la fides venuta meno. Si spezza così non tanto il legame fra i due amanti, che anzi Tibullo vorrebbe ripristinare e, si intuisce, ripristinerà appena possibile; ma il sogno “rustico”, chiamiamolo così, di una vita in campagna, l’uno a  fianco dell’altra, intenti alla direzione dei lavori agricoli, lui potendo contare su di lei come su un altro se stesso (il poeta dice, significativamente, che vorrebbe lasciare a lei ogni direzione della casa ed essere nihil in domo mea). Ideale economico e sociale, prima ancora che amoroso, che ora non è più possibile. Delia potrà essere l’amante, non la sposa. Non è con lei che si potranno condividere le gioie del piccolo proprietario; non è lei che potrà accogliere Messalla in visita di cortesia; non è con lei che il piccolo verna, lo schiavo nato in casa – altrove simbolo di relativa ricchezza; qui simbolo di una sacralità della domus e dei suoi “prodotti interni” – potrà scherzare e imparare ad affezionarsi ai padroni…

    Se però qui Delia può ancora essere perdonata e, sia pure in una funzione “subordinata” e “secondaria”, recuperata – fase sei dello schema di prima (e questa si intuisce che sarà la scelta di Tibullo) – ciò non è più possibile nell’elegia I 6, l’ultima a lei dedicata, nella quale troppo pesano i tradimenti della donna. Se il singolo caso poteva essere perdonato, e forse dimenticato, il ripetersi della situazione rende la riconciliazione impossibile. L’elegia I 6 è quella del definitivo addio: non è più un dives amator quello che Delia ha preferito a Tibullo, ma un qualunque nescio quis; non c’è una callida lena sulla quale riversare la colpa: Delia aveva al fianco la madre, sancta anus, donna di specchiati costumi, e a lui sinceramente affezionata, che bene l’aveva educata; ma è Delia che è corrotta, e ogni legame destinato a durare si è perciò reso impossibile. Naturalmente, di fronte alle accuse di Tibullo la donna nega, ma il poeta non le crede – è troppo esperto degli inganni d’amore! È venuto meno un elemento essenziale: non c’è più nessuna fiducia reciproca. Manca solo un passo al più completo abbrutimento: se Delia gli venisse affidata, il poeta potrebbe perfino alzare le mani su di lei. Dunque, la separazione è pressoché completa. Più concentrato e rapido di Catullo, Tibullo rispetta però perfettamente lo sviluppo narrativo stabilito da quello. Mancano forse i non bona dicta che Catullo inviava, per interposta persona, alla sua puella (carme 11), parole sprezzanti e offensive, tali da rendere impossibile ogni relazione futura. Ma l’addio a Delia non è meno definitivo. L’estrema abiezione del possibile ricorso alla violenza (un tema che ricorre in molte elegie, ma che è sempre esecrato come forma ultima di degradazione morale), la mancanza di fede nelle parole dell’altro, il tradimento degli insegnamenti materni (la patrilinearità – qui declinata al femminile – come trasmissione di valori e di un sapere che le nuove generazioni ricevono dalle precedenti e che devono saper fare loro proprio e riesprimere: un principio fondante della comunità romana) non lasciano spazio ad altro finale. Il ciclo di Delia si chiude così.

    © Massimo Gioseffi, 2015       (ma**************@***mi.it)

    The Return of Tibullus to Delia (ca. 1853), dipinto di Dante Gabriel Rossetti per illustrare l’elegia I 3, 82-92 di Tibullo