Del ciclo di Marato parlerò più brevemente. Non per pruderie, amori omosessuali nella lirica latina non ci stupiscono (le prime elegie a carattere sicuramente amoroso attestate a Roma – quelle di Lutazio Catulo e dei suoi colleghi – sono decisamente bisessuali, quando non apertamente omosessuali), ma perché, sia pure narrata a ranghi ancora più serrati (in tutto sono solo tre elegie), la storia che esse raccontano è la stessa che abbiamo visto con Delia. Segnalerei però tre cose, preliminarmente:
1. amori del genere sono, in alcune città della Grecia (non tutte) e in alcune epoche (non sempre), accettati o addirittura incoraggiati;
2. di conseguenza, essi compaiono relativamente spesso anche in letteratura;
3. ci sono tuttavia alcune norme da rispettare. Semplifico, ma nella sostanza direi che sono queste: nelle coppie di questo genere sono sempre ben distinti un amante e un amato, con ruoli nettamente separati e definiti; c’è un’età diversa a seconda dei ruoli; la liaison è a tempo, con una fine imposta dal crescere dell’amato (che di norma deve essere di età inferiore ai sedici anni); un simile amore non è quindi mai una scelta definitiva per nessuna delle due parti in causa: l’amante avrà altri amori, di entrambi i sessi, mentre l’amato diverrà a sua volta amante, di entrambi i sessi, e l’amante sarà perfino disposto ad aiutarlo in questa trasformazione, se si dà il caso. A questo, quando l’uso passa a Roma (o almeno, in certi ambienti della Roma “bene”) si aggiunge un’ulteriore condizione. L’amato è di origine servile, schiavo o liberto che sia, ma non è comunemente un libero cittadino. Questo comporta, anche in letteratura, alcune conseguenze: c’è sempre una disparità nella coppia (anagrafica, di ruolo, sociale); c’è sempre una corsa contro il tempo, perché l’amato cresce velocemente e arriva presto il momento in cui cambierà di ruolo; il legame perciò è precario e non può avere che fine infelice; ma questa fine la si può vivere più o meno signorilmente.
Tutto ciò viene rispettato anche nel ciclo tibulliano su Marato: la prima elegia che lo nomina (I 4) è il momento della sua descrizione, dell’elencazione delle ragioni d’amore (“oggettive” e generali, per così dire, ma anche “soggettive” e personali, legate a quel preciso puer, e non a un qualsiasi puer che per caso si chiami Marato), della difficile e, a priori e per definizione, insicura conquista del suo affetto – siamo in un amore per forza di cose più incerto e costretto, come dicevo, a bruciare le tappe. Tutto ciò in Tibullo assume però una struttura insolita, perché l’elegia prende la forma di una lunga parenesi, quasi un’ars amatoria prima del tempo, che il dio Priapo rivolge all’Io parlante (diciamo, per comodità, Tibullo), perché questi se ne faccia portavoce con un amico e con chiunque altro vuole ascoltarlo; ma che il poeta, che la riferisce fedelmente, sa essere inutile, sia per l’amico – cui la moglie non lascia tempo e possibilità per amori con i pueri – sia per se stesso, tutto preso com’è dalla passione per Marato, che non gli consente di mantenere una lucidità sufficiente a mettere in pratica i precetti di cui si fa portavoce. Ciò fa sì che la parte generale prevalga qui nettamente su quella particolare: l’elegia è più una celebrazione dei fanciulli e del loro fascino e un’ampia rassegna delle attività da affrontare per stare loro vicino e conquistarne l’affetto, che non la descrizione della singola vicenda vissuta da Tibullo al fianco di Marato. Sebbene il finale, molto rapido e conciso, non lasci dubbio sul fatto che tutto quello che il dio ha detto con valore generale sia stato valido anche e soprattutto per Tibullo, e che quindi tutti gli stadi e le azioni descritti in precedenza (e che costituiscono i diversi momenti di innamoramento, corteggiamento, conquista dell’amato) siano stati vissuti, per l’appunto, anche da chi parla in prima persona.
Dopo di che c’è una lunga pausa, nella quale Tibullo regola la questione con Delia e celebra il patrono Messala (elegie I 5-6 e I 7); poi Marato torna in due composizioni consecutive, le elegie I 8 e I 9. Nella prima di esse è descritto il “tradimento”, ancora perdonabile, dell’amore per Foloe (una fanciulla): segno, semplicemente, che il giovanetto sta crescendo e cambiando di ruolo, da amato divenendo amante; ma di per sé ragione di non troppa ira – è una legge di natura e di tradizione letteraria – e, anzi, è una situazione nella quale l’Io parlante può perfino farsi terzo e assumere il ruolo del buon maestro, che guida il suo (ex)amante verso la conquista di un nuovo amore e un nuovo status sociale, e usa la propria arte per aiutarlo. Dopo un inizio dedicato al ragazzo (perché non si vergogni della sua passione e non cerchi di nasconderla all’amico), l’elegia è infatti pressoché tutta dedicata a Foloe, che Tibullo cerca di convincere ad essere generosa verso Marato. Cosa che fa usando prima le armi dell’argomentazione logica, poi supplicandola con l’aiuto delle Muse, infine minacciandola se continuerà a mostrarsi dura e spietata.
Solo che non tutto va come Tibullo vorrebbe. Marato, per soddisfare le crescenti esigenze di una puella che presumibilmente è sempre Foloe, la di lei rapacità, il desiderio di regali (munera o dona) e di praeda (tre termini ricorrenti nel lessico di Tibullo), finisce per accettare le profferte di un dives amator – ma anche qui sarebbe più giusto dire: un ditior amator – che lo corrompe offrendogli quello che il poeta non può dargli, o almeno che non può dargli nella misura dell’altro. E questo è un tradimento inaccettabile, ben diverso da quello con Foloe: perché con Foloe era legge di natura; con il dives amator è scelta volontaria, dominata dal bisogno di denaro, non giustificabile né in base alla natura (il ruolo dell’Io parlante e del dives amator è lo stesso) né in base alla passione. Da qui gli insulti e le maledizioni, a Marato e al suo nuovo amante in primo luogo, ma anche alla puella e a se stesso, che tanto si era dato da fare per aiutare l’amico nei suoi amori per la fanciulla, fornendogli canti e fornendogli aiuti concreti e materiali; ma da qui, soprattutto, l’inevitabile discidium. Come si vede, la trama è la stessa che abbiamo visto nel ciclo di Delia, rispetto al quale va solo fatto notare che il finale è meno irrisoluto: se con Delia, infatti, Tibullo perfino nell’ultima elegia si mostrava, almeno a parole, ancora aperto a una possibilità di perdono (sebbene gli elementi elencati nel precedente post smentissero poi questa possibilità, e Delia da lì in avanti sparisce infatti di scena), con Marato la separazione è molto più netta e definitiva, e gli insulti vanno sul pesante, specie quelli rivolti al rivale.
Va anche osservato che, come ho già detto, queste tre elegie e la storia che esse raccontano non fanno che ripercorrere, in definitiva, la storia d’amore che Catullo aveva delineato con Lesbia e con Giovenzio, storia che Tibullo fa propria, almeno nelle linee generali e nei passaggi obbligati, sia con Delia che con Marato. Nel complesso della vicenda, però, a mio parere si segnalano anche altre cose di una certa importanza:
– un’elegia è, innanzi tutto, per sua natura più lunga di un carmen, ma nello stesso tempo la storia complessiva che un ciclo di elegie racconta è, per forza di cose, più rapida e veloce di quella che si può raccontare in un libro composito come quello catulliano: perché in Catullo la storia si scandisce attraverso molti momenti, ciascuno dei quali è fatto oggetto di uno o più specifici carmina, nettamente separati fra loro; mentre in un’elegia la vicenda tende a comprimersi, e più momenti che in Catullo sarebbero stati separati qui si sommano entro una medesima composizione, che risulta perciò, inevitabilmente, più lunga e più complessa (questo perché i diversi momenti sono, per così dire, “consumati” uno dopo l’altro, risultando bruciati più velocemente di quanto avveniva nel Liber catulliano);
– rispetto alla vicenda narrata da Catullo, naturalmente (o almeno, rispetto alla storia con Lesbia; diverso forse il caso di Giovenzio e delle altre donne occasionalmente presenti nel Liber), in Tibullo i personaggi in gioco hanno più basso rango sociale: Lesbia è una gran signora del mondo romano, sia essa o no Clodia; la cosa non si può dire né di Delia né di Marato (e, come vedremo, nemmeno di Nemesi);
– la vicenda di Delia e quella di Marato non hanno solo una struttura complessiva identica (pur con le differenze imposte, come dicevo all’inizio, dai diversi contesti, etero- e omosessuale), ma sono unite da un altro elemento comune, forse perfino più importante di quello notato finora. A mettere fine all’una come all’altra vicenda è infatti la comparsa, a un certo punto di ciascuna storia, dell’oro che tutto corrompe. E questo, rispetto al precedente di Catullo evocato prima, è un elemento nuovo, che sembra specifico di Tibullo, un suo spunto di riflessione, un’aggiunta del tutto personale (fermo restando che non sappiamo se e quanto questo elemento avesse peso negli Amores di Cornelio Gallo, per noi un “buco nero” nella storia dell’elegia latina). Significativo è che Delia e Marato non sarebbero di per sé avidi, per lungo tratto anzi non lo sono affatto; lo diventano con il tempo, ma la loro avidità, il loro vendersi, sono determinati da circostanze esterne e, diremmo noi, ‘sociali’, non personali o caratteriali. E questo non era così scontato, alla data di Tibullo in particolar modo, e mi pare anzi qualcosa fuori dall’ordinario e tutt’altro che pacifico per chi viveva nella prima età augustea;
– nella storia con Delia c’è un tono più drammatico, in quella con Marato sono ammessi anche toni comici, o almeno autoironici; ma questo ci sta, perché è un elemento connesso al (sotto)genere complessivo: gli amori per i pueri, lo dicevo prima, non sono e non si propongono mai come amori per tutta una vita, sono una corsa contro il tempo, hanno fin dall’inizio una fine prevista e prevedibile – fine che si può raggiungere nel migliore dei modi possibili, oppure no, come avviene appunto con Marato, in virtù della corruzione portata dal bisogno di denaro del giovane;
– infine: mentre con Delia era possibile immaginare una vita in campagna, dove Tibullo potesse essere il colonus padrone dei suoi beni, dedito alla cura degli dèi e all’amministrazione dei campi, e lei svolgesse la parte della perfetta villica, alla quale demandare i rapporti con gli schiavi, quelli con le divinità minori, l’amministrazione della casa e del bestiame minuto, l’accoglienza agli ospiti di prestigio (questo, almeno, finché le sue scelte di vita non l’hanno rivelata indegna di un simile compito), con Marato tutto ciò è, ovviamente, impossibile. Marato è di sicuro un cittadino, e amori come questi sono possibili, secondo Tibullo, solo in un ambiente medio-colto cittadino. Marato, del resto, per le ragioni dette prima non può essere il compagno di una vita, non può assumere compiti sacrali o istituzionali. In questo Tibullo, che per altri aspetti abbiamo visto essere abbastanza anticonformista, si rivela più conformista (ma non poteva essere altrimenti, direi) rispetto a Virgilio, che solo pochi anni prima delle elegie tibulliane al suo Coridone, protagonista della seconda egloga, faceva immaginare una lunga vita al fianco di Alessi. Inutile però segnalare che Coridone e Alessi sono, nelle Bucoliche, creature di fantasia; di rango servile e pastorale, e non equestre, come si suppone essere l’Io parlante tibulliano; e che comunque la vita che Coridone si propone resta, in ogni caso, un sogno, non una realtà: ma che i sogni di Coridone non abbiano corrispondenza nel vero è cosa sulla quale il narratore Virgilio ha messo da subito in guardia i suoi lettori e che quindi vale anche per questo dettaglio specifico (sul che mi sia però concesso rimandare al mio “Passeggiate in un bosco bucolico [a partire dalla Einführung di Michael von Albrecht]“, reperibile on line all’indirizzo https://unimi.academia.edu/massimogioseffi).
© Massimo Gioseffi, 2016 (massimo.gioseffi@unimi.it)
Mi sembra che questi due post su Tibullo possano essere il punto di partenza per una nuova riflessione sul poeta, ma soprattutto sull’elegia in genere.
Troppo spesso, credo, il discorso sull’elegia latina è appiattita sul solo Properzio, il quale poi è poeta amoroso solo per una parte della sua produzione; oppure, si cercano legami, affinità, discendenze dall’elegia e dalla poesia greca – giusto, ma i poeti latini leggevano e riutilizzavano la poesia greca e anche i loro predecessori latini (una doppia tradizione che ha arricchito la letteratura in lingua latina). Quanto a Tibullo, sovente viene considerato solamente il cantore dell’amore e della vita felice in campagna (senza mai un confronto con il Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche)
A mio avviso non si tiene abbastanza in conto la specificità dei singoli poeti, che come osserva Massimo, presentano elementi differenti pur all’interno di uno stesso ambito tematico, forse più che di genere letterario. Il dialogo tra i poeti elegiaci stessi da un lato e con la tradizione poetica latina dall’altro – soprattutto Catullo e Virgilio – non è da sottovalutare. Infine, la questione degli amori omosessuali, che per quanto letterari vengono normalmente passati sotto silenzio.
L’elegia latina è un capitolo fondamentale nella storia della letteratura, che oltrepassa i confini della letteratura latina, e anche per questa ragione dovrebbe essere studiata e letta con maggiore attenzione.