Inizio una serie di post dedicati alle illustrazioni virgiliane. Può sembrare strano, ma non esiste una pubblicazione moderna che offra un catalogo esaustivo e ragionato delle illustrazioni all’Eneide. Forse perché il materiale è perfino troppo…
Non è naturalmente mia intenzione sostituirmi a quel testo, che dovrà essere il prodotto di molti, certosini ricercatori. Qui vorrei offrire un po’ di immagini, con una logica che le giustifichi. In internet qualcosa di simile è stato tentato da un sito francese, realizzato dall’Académie di Nancy-Metz, con il titolo “De l’Énéide aux images” (www4.ac-nancy-metz-fr/langues-anciennes/Textes/Virgile/Venus.htm). Il sito si articola in quattro capitoli (“Venus”, “Anchise”, “Énée, Didon”, “Énée, Virgile, enfers et prophétie”) e non tiene conto solamente delle illustrazioni all’Eneide, ma di tutto il materiale genericamente eneadico, con o senza riferimento diretto a Virgilio. Inoltre, del poema, non sono presi in considerazione tutti gli episodi; delle immagini fornite sono indicati con precisione i dati catalogici e di conservazione, ma la loro suddivisione non consente di ricostruire né ambienti, né luoghi o materiali – una storia che abbia senso, insomma – delle illustrazioni medesime. L’interdisciplinarietà è una bella cosa, e nell’interdisciplinarietà il latino troverà, anche in futuro, un proprio spazio, anche quando non lo si insegnerà più come materia a sé stante. Però, anche l’interdisciplinarietà bisogna saperla fare: accumulare o, peggio, accatastare i dati può essere provocatorio, ma non costruisce granché. L’idea alla base di questi post è allora che ognuno di essi deve avere un tema unitario: il luogo in cui sono nate le illustrazioni, l’occasione, il materiale (tele dipinte, ma anche oggetti preziosi, arazzi, mosaici, cassoni da biancheria con decorazioni auliche ecc. ecc.). È nel progetto unitario, infatti, che si riconosce il senso di ogni singola operazione: l’illustrazione diventa così lettura, e si fa parte della storia del testo.
Incomincio da un luogo che è, in un certo senso, un non-luogo: Pompei. Solo l’eruzione del 79 d.C. ha trasformato Pompei in un museo consultabile nella quotidianità di una data sicura, realizzando almeno in parte quell’unità cui facevo cenno prima. Proprio Pompei ci consente però di distinguere fra illustrazioni sicuramente connesse a Virgilio e all’Eneide e illustrazioni solo genericamente richiamantesi al mito di Enea.
Partiamo da una delle più famose, l’affresco in IV stile pompeiano, datato fra 54 e 79 d.C., proveniente dalla cosiddetta casa di Sirico (e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9009), che raffigura Enea curato da Iapige.
Nell’affresco si riconoscono chiaramente Enea, in abito militare e nella posa del guerriero ferito, nota anche da altri modelli iconografici; il medico Iapige, in abito servile, chinato a cauterizzare la ferita; Ascanio, affranto, alla sinistra del padre, che gli cinge le spalle in un gesto di affetto e di conforto (di lì a poco, prima di riprendere la battaglia, Enea rivolgerà al figlio le uniche parole dirette che gli sentiamo pronunciare nel poema). Sullo sfondo alcuni soldati passano e guardano – durante l’assenza di Enea dal campo i combattimenti non si interrompono. A sinistra, in secondo piano, così da mantenere l’illusione prospettica del movimento e della distanza, si avvicina Venere, a petto scoperto, veste disciolta, capelli al vento, piedi intenti alla corsa. In mano reca un ramoscello di dittamo, la pianta miracolosa che consentirà la guarigione di Enea, riuscendo laddove l’arte medica di Iapige si deve riconoscere sconfitta. Ora, tutto questo episodio è narrato nel XII libro dell’Eneide e, per quanto ne sappiamo, solo nell’Eneide. È un’invenzione virgiliana, che introduce un tocco di favoloso in un poema dove il favoloso è spesso bandito, ma che qui ci sta bene perché siamo poco prima del finale (i vv. 318-323 per il ferimento, 383-431 per la guarigione) e l’episodio serve a sancire il carattere divino di Enea, che non può essere ferito; se viene ferito, lo è da mano ignota, come appunto accade; che se è ferito, per guarire ha bisogno di una pianta magica e un’aiutante divina (o meglio: alla cui guarigione cooperano, senza farsi pregare, pianta magica e aiutante divina). Rispetto al racconto di Virgilio viene cancellata la figura di Acate, il fidus Achates che ha aiutato l’eroe claudicante ad allontanarsi dal campo; Ascanio ha veste di puer, che mal si conviene a un campo di battaglia (anche se lui non partecipa ai combattimenti); Venere è affannata e discinta per la corsa, ma anche per indicare che… è Venere. Il resto è un’illustrazione fedele, e interessante, dell’arte di un medico nella prima metà del I secolo d.C.
L’episodio più famoso dell’Eneide (e per dei cittadini romani, l’atto fondante la loro comunità) è la fuga di Enea da Troia, assieme al figlio, al padre, ai Penati. La scena ha molte raffigurazioni a Pompei, ma a differenza della precedente non ha bisogno dell’Eneide per divenire parte del racconto eneadico, perché la vicenda è nota almeno dal VI secolo a.C. e serve a contrapporre un Enea pius a un Enea traditore di Troia, come pure in alcune varianti del mito si raccontava. Quindi, meno immediato è, nel caso delle raffigurazioni che propongo ora, il richiamo al poema virgiliano: in questa declinazione della storia, l’avere Enea scelto, una volta graziato dagli Achei, di portare fuori da Troia in fiamme il padre e il figlio sta alla base della sua conclamata pietas. A Roma era ben noto, insieme ad altre raffigurazioni, il gruppo statuario che decorava l’esedra Nord-Ovest del foro d’Augusto. A Pompei la scena si trova in mosaici, affreschi, terrecotte, come quella che propongo ora, e addirittura negli ornamenti della calotta di alcuni elmi militari. Ecco per intanto la terracotta, anch’essa datata al I secolo d.C., conservata al Museo di Napoli, inv. 110338:
Ed ecco un elmo decorato con la caduta di Troia (scena che ci interessa inclusa):
L’episodio è talmente famoso, dicevo, che se ne danno anche delle evidenti parodie. La più celebre è un affresco proveniente dalla poco lontana Stabia (e conservato come sempre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9089), in cui i tre protagonisti ‘umani’ dell’episodio hanno testa canina e lunghi falli, rimandando così a certe antiche rappresentazioni vascolari di scene d’atellana:
Al contrario, sulla facciata di altra abitazione Enea è raffigurato in veste di guerriero romano, ad enfatizzare la sua condizione di ‘fondatore ideale’, se non materiale, di Roma, e di primo Romano ad honorem, che è, per l’appunto, uno dei punti fermi dell’Eneide. Qui però preferisco proporre una raffigurazione intermedia fra i due estremi citati: la scena, assai concitata, è infatti decisamente seria; il contesto meno. Siamo nella casa di Marco Fabio Ululitremulo, di professione tessitore. Lo ricorda un graffito (CIL IV, 9131) che modifica l’inizio del poema virgiliano: Fullones ululamque cano, non arma virumque (ulula è la civetta, animale sacro ad Atena, dea della tessitura).
Enea, in fuga, in disordine, con i capelli poco curati, reca sulle spalle il padre, rimpicciolito e rinsecchito, che a sua volta tiene in mano, ben conservati nella capsa, i Penati di Troia. All’eroe è assegnata la figura di centro, che domina lo spazio e la scena. Non meno risalto è però concesso al figlio, più grande di quanto sarebbe legittimo aspettarsi, e tutt’altro che avvinghiato al braccio paterno, come lo descrive Virgilio, nella difficoltà di seguire il genitore non passibus aequis. Qui Ascanio tiene per mano il padre e, forse per risultanza prospettica, sembra guidarne l’azione. È lui del resto il futuro di Troia, è lui che fonderà Alba e darà origine alla catena di re antenati diretti di Romolo; è da lui, infine, che si faceva discendere la gens Iulia…
Una serie di affreschi è più difficile da decifrare. Ecco ad esempio una scena che, a detta degli studiosi, potrebbe rappresentare l’arrivo di Enea a Delo e la consultazione dell’oracolo di Apollo, alla presenza del sacerdote Anio; ma secondo altri raffigura la profezia di Cassandra circa l’imminente distruzione di Troia; per altri, altro ancora. L’affresco, come si intuisce, non porta indicazioni precise, e lo stato precario di conservazione non aiuta certo la comprensione (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8999):
Anche nel caso del prossimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa di Meleagro”, i dubbi sono giustificati (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8898). Nella scena è stato letto il suicidio di Didone; sullo sfondo si vede allontanarsi la nave di Enea. La regina sarebbe qui accompagnata da due ancelle e dalla raffigurazione dell’Africa, la sua terra, effigiata con corna taurine, simbolo di fertilità:
Per non eccedere, chiudo questa rassegna con un solo, ultimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa del Citarista”. Si tratta di un dipinto nel III stile pompeiano, dunque presumibilmente anteriore al 50 d.C., nel quale viene raffigurata una coppia di giovani amanti, davanti a una grotta, inquadrata da architetture, alla presenza di altre due figure.
La posa dei due, la presenza del cane da caccia ai loro piedi, la grotta sullo sfondo hanno fatto ravvisare nella scena l’incontro di Enea e Didone, allo scoppiare del temporale, presso un antro nell’entroterra di Cartagine. Più problematiche le due figure umane, che sembrano in veste servile, e quindi non possono rappresentare altri personaggi dell’Eneide. Per questo, non tutti accettano l’idea che la scena debba illustrare il poema virgiliano, e sono state avanzate anche altre ipotesi. Non intendo farne qui la storia. Più mi interessa osservare che, se scena del poema ha da essere, quello che ha colpito l’anonimo pittore era la possibilità di avvalersene per una raffigurazione di carattere amoroso. Un destino al quale, come vedremo, l’Eneide sarà legata anche in non poche occasioni dell’età moderna!
© Massimo Gioseffi e Niccolò Chiesa per i testi
© Wikimmagine, Web Gallery of Art, Art Resource per le immagini