Nella Postfazione a I nostri antenati (1960) Italo Calvino delinea una storia dell’umanità che vede l’essere umano passare dallo stato primitivo, in cui è ancora organico con l’universo che lo circonda, all’uomo artificiale (che sarebbe poi l’uomo contemporaneo), alienato, dimidiato, inesistente, costretto a vivere fuori dal proprio ambiente, ridotto a puro funzionamento, perché incapace di fare attrito con quanto lo circonda, Natura e Storia (maiuscole mie; p. 1216 nel primo volume de “I meridiani”). A fondamento dell’affermazione si riconoscono molti luoghi comuni circa la diversità di cui la contemporaneità si è sempre gloriata. Non voglio però discutere l’affermazione. Piuttosto, in procinto di completare con questa puntata la carrellata attraverso le metamorfosi ovidiane e la musica del Novecento, a me sembra che a Calvino si possa tranquillamente ‘rubare’ l’immagine dell’attrito dell’uomo con la Natura e la Storia. Questo attrito è proprio ciò che il poema ovidiano colloca in primo piano e fa oggetto di narrazione. Elemento probabilmente sconosciuto ai diversi precedenti messi a frutto dal poeta latino (tranne, forse, che alla sesta egloga virgiliana), questa lotta dell’uomo contro due forze ostili a lui, ma nello stesso tempo anche fra di loro, è, in fondo, ciò che Ovidio ha davvero trasmesso ai secoli a venire, incluso il nostro. Ed è ciò che, assieme all’idea della metamorfosi come momento di massima esibizione di questa tensione, la musica del Novecento ha interiorizzato e fatto suo.
Nelle puntate precedenti abbiamo visto come la metamorfosi possa ridursi a semplice concetto filosofico o avere tragica evidenza; come se ne possa studiare il momento dello svolgimento, oppure le conseguenze che lascia dietro di sé; come possa essere determinata dalle forze oscure della Storia, che tutto distruggono lasciando solo cumuli di macerie alle proprie spalle, oppure dalla crudeltà della Natura, che non ha tempo per voltarsi a guardare le creature che distrugge. Abbiamo anche visto come l’uomo possa subire la metamorfosi, oppure cercala, come mezzo per sottrarsi al reale che lo circonda, oppure come annullamento di sé in un eterno ritorno all’ordine che, per essere tale, non può comprendere quell’elemento di perenne disordine che è, appunto, l’umanità. Oggi voglio proporre un’ulteriore immagine della metamorfosi, e delle Metamorfosi: le quali, al di là di tutti i giochi di distanziamento che vi si possono e vi sono stati ritrovati, sono pur sempre un poema epico, dunque celebrativo, di una casta e di un’epoca. E che si chiudono, com’è noto, con una doppia significativa trasformazione: quella che vede Augusto (ancora vivo) trasformarsi in stella, e quella che vede il poeta assurgere all’empireo in virtù della propria arte.
Al di là delle possibilità di leggere doppi, tripli sensi nelle parole di Ovidio, formalmente le Metamorfosi si presentano quindi come un poema che celebra la grandezza dell’imperatore in carica, il suo ruolo e la sua funzione. Il percorso storico delineato dal poeta, che si era aperto con la formazione del mondo – nato da materia sempiterna ma non ancora formata – si chiude con la celebrazione della propria contemporaneità e di chi quella contemporaneità aveva fortemente impregnato di sé. La Storia parte dalla Natura e realizza ciò che la Natura conteneva in potenza, ma non in atto.
Anche questo non è però un tema che vorrei dibattere qui. Ora mi interessa di più osservare che questa lettura ‘positiva’ delle Metamorfosi, per cui l’elemento metamorfico trova celebrazione nel divenire storico – si identifica anzi con il divenire storico; e questo divenire punta, immancabilmente, verso la nostra contemporaneità – si trova fortemente evidenziata in un pressoché sconosciuto testo musicale, che infatti si intitola, significativamente, come il poema ovidiano (pur non richiamandosi sprecificamente ad esso). Si tratta della composizione sinfonica per orchestra Metamorfózy (1953), opera di Eugen Suchoň (1908-1993), compositore slovacco pressoché sconosciuto, credo, dalle nostre parti. Nato in una cittadina poco lontana da Bratislava, da famiglia di musicisti, Suchoň ha vissuto la maggior parte della sua esistenza entro i confini della patria, fra Praga e Bratislava. Alla nascita, e per tutti gli anni della fanciullezza, fu suddito dell’impero austroungarico; poi divenne cittadino cecoslovacco, nello stato libero ma ibrido formatosi al termine della prima guerra mondiale. Dopo la seconda guerra e l’occupazione nazista, visse nella Cecoslovacchia del Patto di Varsavia; conobbe la primavera di Praga del 1968, gli anni della repressione, il disgelo dei tardi anni ’80, la caduta del muro di Berlino e l’allontanamento delle truppe sovietiche (1989); infine, intravide la scissione delle due anime dello stato in repubbliche autonome e federali, scissione che infine portò alla proclamazione della Repubblica Slovacca indipendente, nata dalla dissociazione dalla componente ceca dell’antica repubblica unitaria (1993). In mezzo a tutti questi rivolgimenti, Suchoň è passato pressoché indenne, studiando, insegnando, componendo. Piuttosto vasto il catalogo delle sue composizioni, che include due opere liriche (che pochi conoscono fuori dai confini patrii), molta musica vocale e corale, composizioni da camera e sinfoniche a pieno titolo. Nel 1953, dopo una gestazione pluriennale, Suchoň licenziò la composizione sinfonica Metamorfózy, in cinque parti e varia successione di tempi.
La misura è insolita, specie per una composizione di una trentina circa di minuti, e ricorda (anche nello sbilanciamento interno fra le singole parti, di durata progressivamente maggiore, così da passare dai poco meno di tre minuti del primo movimento ai quasi dodici dell’ultimo) le composizioni del grande musicista boemo – allora austriaco, ma oggi sarebbe ceco – Gustav Mahler (1860-1911). La similitudine però finisce lì. La musica di Suchoň è tradizionale quanto a fattura e tipologia, e ricorda piuttosto i lunghi e articolati poemi sinfonici di tardo Ottocento, sul tipo di Mà Vlast (La mia patria, 1879), l’opera più famosa del compositore – ceco pure lui – Bedřich Smetana (1824-1884).
Quello che però interessa al mio discorso è che qui la musica celebra la Storia della repubblica cecoslovacca. Definito nelle note di copertina delle (rare) incisioni come un “riflettere sulla Storia durante gli anni di guerra”, alla maniera di Strauss, la composizione passa dal tono idilliaco e moderato dell’inizio a tempi più rapidi e vorticosi, per poi ristabilre nei movimenti finali prima l’idea di un regno della pace, poi il trionfo della rinata nazione (in un movimento che si intitola “Allegro feroce”). In anni di realismo socialista, Suchoň celebra così il divenire degli avvenimenti, che hanno portato la Nazione a trionfare, sia pure a prezzo di lotte e difficoltà, contro chi voleva destabilizzarne la tranquillità. Il tono, alla fine, è celebrativo: attraverso la trasformazione e il divenire, la Storia ha (ri)trovato la forma ideale.
Simile idea si ritrova anche nelle composizioni operistiche di Suchoň. Non tanto la prima e più famosa, Krútňava (qualcosa come “Il mulinello”), che narra di un omicidio compiuto per gelosia e dell’eterna lotta fra bene e male nell’animo umano – l’opera, rappresentata per la prima volta nel 1949, ebbe infatti i suoi guai con la censura socialista. Ma la seconda, Kral’ Svätopluk, del 1960, racconta una vicenda legata alla disgregazione del regno di Moravia nel IX secolo d.C. (Svätopluk è il nome del protagonista; Kral’ è un titolo nobiliare, qualcosa come “principe”), e rivela un’identica idea del divenire storico che non solo non può essere interrotto, ma che trova in ogni caso la sua via, quali che possano essere i tentativi umani di impedirlo e di impedire la metamorfosi che esso sempre porta con sé.
Movimenti I-III (Andante con moto; istesso tempo; Allegro moderato)
Movimento IV (Larghetto)
Movimento V (Allegro feroce)