La Natura è un campo privilegiato per le similitudini; le fa parziale concorrenza solo il mondo quotidiano. L’una e l’altro offrono infatti qualcosa di noto che viene usato per spiegare qualcosa di ignoto, o di insolito, o comunque di presente solo nella finzione narrativa, basandosi sulla riconoscibilità dei comportamenti evocati nella similitudine. Dire similitudine, però, può significare tante cose diverse tra loro: quando di un personaggio si dice che si muove serpens, oppure inrepens, già si dice, implicitamente, che è come un serpente, l’animale al quale si adattano comunemente i due verbi; allo stesso modo, se dei ragazzi garriunt si intende che sono dei rondinotti, e così via. In questo post citerò solo similitudini esplicite, quelle cioè con tutti i “modalizzatori” ben evidenti (“modalizzatori” chiama Genette le formule che introducono una similitudine, i “come…così, quale…così, allo stesso modo che…” ecc.). Le similitudini, ovviamente, sono state molto studiate, sia come figure in sé, sia nell’uso che ogni singolo poeta ne ha fatto, e questo fin dall’antichità. Qui vorrei però considerare un aspetto specifico delle similitudini epiche, cioè il loro appartenere a una tradizione piuttosto coesa, entro la quale ogni nuovo poeta ha quindi l’obbligo di inserirsi, ma la difficoltà di trovare una propria individualità e novità.
Prima qualche dato a carattere generale. Le similitudini, come s’è detto, si fondano su un accostamento che permette di mettere assieme, attraverso un elemento comune, due oggetti che non avrebbero di per sé nessun rapporto reciproco. L’elemento da cui si parte, quello di cui si vuole mettere in evidenza qualche qualità specifica attraverso l’accostamento a qualcos’altro di più noto al lettore, si chiama di solito comparandum (o primum comparandum); l’elemento che viene associato è il comparatum o secundum comparatum. Il legame che si instaura fra i due (e che può rimanere implicito) è il tertium comparationis. Altri usano altri nomi, di poco differenti, ma non è quello che importa. Quello che vorrei sottolineare è che la Natura offre, per le ragioni indicate prima, molti secunda comparata; ogni essere/fenomeno di Natura può svolgere questa funzione in virtù di una caratteristica che appare sua propria e specifica, oltre che immutabile e ripetuta ogni qualvolta si ripresentino le medesime circostanze. Questa caratteristica costituisce il tertium comparationis: il leone, per intenderci, sarà sempre feroce, il toro combattivo, il cinghiale selvaggio, l’aquila predatrice ecc. Quello che varia, normalmente, è il primum comparandum, offerto dalla trama dei diversi racconti.
Nella tradizione epica, come ho già ricordato, si stabilisce abbastanza presto, diciamo a partire sin dall’Iliade, una serie di possibili similitudini e di termini di comparazione che vengono a costituire una tradizione abbastanza fissa. Prima comparanda sono di norma i guerrieri in lotta; secunda comparata dei fenomeni a carattere selvaggio (ad esempio il fuoco, in Iliade II 456-483; ma poi nembi, tempeste, venti, fiumi e torrenti in piena ecc.) e/o animali particolarmente fieri e feroci (i tre preferiti: leone, toro e cinghiale, seguiti a distanza dal lupo e a più lunga distanza dall’orso e da volatili vari). Il tertium comparationis è, di volta in volta, la forza, la ferocia, l’audacia, l’indomabilità nella lotta e così via. Detto questo, vorrei concentrarmi ora su alcuni meccanismi messi in atto dai poeti per ottenere un effetto di novità, pur dentro questo quadro unitario, creato già dalla tradizione omerica. Ne elenco in tutto nove, anche se sicuramente ne esistono altri, già nello stesso Omero. Ciò che vorrei fare non è però una storia delle similitudini né un loro repertorio, ma indagare alcune possibilità da esse offerte, da utilizzare poi in classe come cartina al tornasole per qualsiasi similitudine a base naturalistica, e non solo per quelle presenti nei classici.
Primo procedimento. La similitudine multipla. Un medesimo elemento (primum comparandum) viene paragonato non a un solo secundum comparatum, ma a una serie di termini, fra loro omogenei quanto a tertium comparationis. Il procedimento è in atto già in Omero, e proprio a partire dalla similitudine ricordata prima, in Iliade II 456ss., allorché l’esercito acheo è fuoco, ma anche vari volatili [oche, cigni e gru], sciame di api e pastore di guardia al gregge.
Secondo procedimento. Lo sviluppo autonomo del comparatum a discapito del comparandum. Ossia, l’immagine usata come secondo termine di paragone cresce fino a diventare un bozzetto che perde di vista il rapporto con il primo elemento della similitudine, si fa situazione a sé stante, oltrepassa le necessità della messa in evidenza del tertium comparationis che dovrebbe spiegare la situazione di partenza. La similitudine si fa così una sorta di racconto nel racconto, divagante rispetto allla narrazione principale. Stazio, Tebaide VII 390-397, paragona Eteocle che dispone i sette capi del suo esercito presso le sette porte di Tebe (una scena di sapore eschileo) a un pastore che governa il suo gregge, lo divide, lo segue, si prende cura dei piccoli agnellini, protegge le giovani mamme che hanno appena partorito e le pecore che invece sono ancora gravide ecc. Dunque, da una situazione iniziale in cui comparandum e comparatum sono assimilabili, si passa a una sorta di compendio delle azioni bucoliche; da Eschilo si arriva a Teocrito e Virgilio.
Terzo procedimento. Un tertium comparationis insolito. Le immagini prescelte disattendono le aspettative sull’animale/sul fenomeno di Natura utilizzato, o mettono in rilievo l’animale/il fenomeno di Natura in un momento inatteso di un suo pur naturale comportamento. Ad esempio, se il leone di norma appare combattivo, crudele, feroce, in queste similitudini si sottolinea invece la sua attenzione amorosa alla prole e la ferocia, quand’anche esibita, viene giustificata dalla difesa dei cuccioli, non dall’aggressività di Natura. E’ il caso, ad esempio, di Stazio X 414-419. L’arcade Dimante, sorpreso da una ronda tebana fuori dall’accampamento argivo mentre cerca di riportarvi il cadavere del suo signore, il giovane Partenopeo, non sa bene se combattere o implorare pietà dai nemici ed è ut lea, quam saevo fetam pressere cubili / venantes Numidae, natos erecta superstat, / mente sub incerta torvum ac miserabile frendens; / illa quidem turbare globos et frangere morsu / tela queat, sed prolis amor crudelia vincit / pectora, et a media catulos circumspicit ira. Sempre in Stazio, XI 739-749, Edipo per cui Antigone supplica Creonte è come un vecchio leone, pigro e disarmato dall’età. In Claudiano, Bellum Gothicum 342-349, Stilicone che valica le Alpi in inverno per raggiungere le armate che gli sono necessarie a proteggere Milano (cfr. “Una gita per l’estate. II”) è come un leone affamato, messosi in cerca di cibo in mezzo alla neve per amore della sua prole: [Stilicho] scandit inaccessos brumali sidere montes / nil hiemis caelive memor. Sic ille relinquens / ieiunos antro catulos inmanior exit / hiberna sub nocte leo tacitusque per altas / incedit furiale nives; stant colla pruinis / aspera; flaventes adstringit stiria saetas; / nec meminit leti nimbosve aut frigora curat, / dum natis alimenta parat…
Quarto procedimento. Un comparandum inatteso o improprio. Il quale, essendo tale, dà origine a similitudini del tutto normali come forma e struttura, ma con animali o fenomeni insoliti, visto il carattere insolito del soggetto che devono illustrare. Claudiano nel 399 d.C. scrive un’invettiva contro il console della parte orientale dell’impero, l’eunuco Eutropio. Eutropio era un eunuco, quindi un ex-schiavo che aveva fatto carriera, divenendo Gran Ciambellano di corte (praepositus sacri cubiculi). Comunque, un ex-schiavo e un eunuco consoli non si erano mai visti: da qui, oltre che da ragioni politiche, l’opposizione dell’Occidente e l’invettiva di Claudiano. Il poeta raffigura perciò il suo personaggio attraverso similitudini con animali di tradizione non epica: una scimmia, che vuole essere ciò che non è e non può essere; uno struzzo, che si segnala per viltà e stupidità; una cagna invecchiata, della quale, ahimè, ci si sbarazza senza troppi rimorsi; una rondine morta in inverno ai piedi dell’albero in cui aveva invano cercato riparo (la rondine invernale è, dalla Rhetorica ad Herennium in poi, un simbolo di cosa assurda e fuori da ogni logica, un po’ come il nostro “asino che vola”). Con uguale procedimento, chi ha dato corda all’eunuco è un cavallo senza fantino o una balena arenatasi sulla spiaggia dopo aver perso la guida del musculus (un’immagine, quest’ultima, che viene da Oppiano: ma che in Oppiano, autore di Halieutica, è un dato scientifico, mentre qui diviene una costruzione retorica, ad indicare la condizione di “fuori di testa” dei sostenitori di Eutropio).
Quinto procedimento. Un comparatum ricercato. In questo caso, le similitudini non mettono infatti assieme una cosa ignota spiegandola con una nota, come avviene di solito, ma fanno l’esatto contrario. La situazione più comune è quella del paragone di una figura umana con una figura divina. Nausicaa è come Artemide e le sue compagne sono le ninfe del suo seguito (Odissea, VI); Giasone si muove come Apollo (Apollonio Rodio, libro I); Didone ed Enea sono l’una e l’altra divinità, e proprio per questo appaiono simili fra loro, come se fossero divinità gemelle (risp. libro I e libro IV dell’Eneide). Poi ci sono gli animali esotici, difficilmente noti ai lettori, se non per via letteraria: tigri, elefanti, balene, l’orso di Pannonia (Lucano, VI). E ancora: luoghi geografici altrettanto esotici, che danno origine a fenomeni naturali che si realizzano solo lì, conosciuti magari anch’essi per tradizione letteraria e scientifica, ma difficilmente sperimentati di persona: l’Egitto, il Po, l’Etna con le sue eruzioni, cui Valerio Flacco, III 208, scrivendo dopo il 79 d.C., sostituisce significativamente il Vesuvio ecc. Infine, avvenimenti inconsueti, forse mai sperimentati di persona dai lettori: il sangue che sgorga dalla ferita di Piramo steso a terra moribondo, in Ovidio, Metamorfosi IV 212-124, è come l’acqua che zampilla da una tubatura forata (a quanti mai è capitato di avere/vedere le tubature forate?); sempre in Ovidio, Metamorfosi IX 659-665, Biblide che si consuma nel pianto è come resina che trasuda da una conifera o ghiaccio che si scioglie ai primi tepori del vento primaverile, ma anche come nafta che sgorga dalla terra (un fenomeno comune solo in Caldea)…
Sesto procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni entro l’opera dell’autore. Le similitudini non sono cioè autonome, ma richiamano altre similitudini presenti nell’opera dello stesso poeta. Torno a citare Claudiano, l’autore in cui la cosa si percepisce meglio. Protagonista dell’opera di Claudiano, nominalmente suddivisa in panegirici, invettive e poemetti autonomi gli uni dagli altri, è Stilicone, del quale il poeta celebra a più riprese la grandezza. Protagonista ufficiale dell’opera claudianea è però, per ovvie ragioni d’etichetta, l’imperatore Onorio, seguito da quando era ancora bambino (394 d.C., a dieci anni non ancora compiuti) a quando è ormai un giovane nel pieno delle sue possibilità di comando (404), uomo già sposato e in teoria libero da qualsiasi tutela. Ora, è significativo che in Claudiano Onorio sia costruito come un personaggio che si evolve progressivamente; e i modi e i temi dei testi claudianei (che restano formalmente panegirici, invettive o poemetti storico-politici autonomi gli uni dagli all’altri) si adattano all’età di Onorio stesso, al suo farsi progressivamente adulto, al suo cambiare di interessi, possibilità, sviluppi narrativi. Anche le similitudini si adeguano a questo: Onorio è sempre insignito di similitudini eroiche e nobilitanti, come quelle con il toro e con il leone, ma è evidente che Onorio viene paragonato a un toro e a un leone in crescita, a seconda della crescita di Onorio stesso. Nelle prime opere di Claudiano, Onorio è un cucciolo di toro o di leone, ansioso di combattere e misurare le proprie forze, ma trattenuto sotto l’amorosa ala paterna; man mano che il giovane cresce, diventa un giovane toro o un giovane leone in grado di saggiare le proprie forze in assalti simulati e di poca pericolosità, che però già lasciano intravedere le sue capacità future; nelle ultime opere di Claudiano, Onorio è un toro e un leone ormai adulto, capace di farsi pieno difensore della mandria (o della famiglia leonina) che gli viene affidata.
Settimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso un’opportuna selezione dei comparata. Quanto dico ora era già implicito, in certa misura, negli esempi precedenti. Mentre Omero usa gli stessi termini di comparazione (ad esempio: toro, leone e cinghiale) per qualsiasi eroe per il quale sia conveniente la similitudine – e toro è ad esempio Agamennone nel II libro dell’Iliade, leone Menelao nel III e Aiace nel XV, cinghiale Odisseo nell’XI; ma cinghiale o leone è anche Ettore nel XII, che poi è leone per ben tre volte, nel XV, nel XVI (quando uccide Patroclo cinghiale) e nel XVIII libro (quando lotta intorno al cadavere di Patroclo) – Virgilio seleziona le sue similitudini, e non usa certe immagini per certi personaggi, ritenendole sconvenienti. Rimaniamo pure a leone e toro: animali eroici ma dalla forza bruta, essi non sono mai utilizzati come termine di confronto per Enea. Paragonati a un leone si ritrovano piuttosto Turno (IX 791-798 e XII 4-9) e Mezenzio (X 723-729), al massimo Niso che compie strage indiscriminata e improvvida dentro l’accampamento nemico (IX 339-340); a un toro, di nuovo Turno (XII 103-106), Laocoonte (II, 223-224, ma in questo caso è un toro da sacrificio, non da combattimento) e Pallante (X 454-456), parificato però a un toro vittima di un leone, quindi destinato a divenire preda di un animale più forte di lui, in parallelo al discorso di Virgilio su Pallante, bravo combattente ma vittima della forza superiore del leone/Turno. Solo in una scena del poema il toro è associato ad Enea: siamo alla fine dell’opera, XII, 715-724, e i due duellanti, Turno ed Enea, sono come due tori in lotta per la supremazia entro la mandria. Una situazione che riporta alle Georgiche, dove l’avvenimento non era similitudine, ma un hic et nunc narrativo (III 219-223), proprio perché si tratta di un fatto consueto e ripetuto ciclicamente in Natura. Ma è anche un parallelo che la dice lunga, credo, sul poema e sulla sua fine, sulla trasformazione che in essa subisce Enea e, con Enea, l’impiego (ora divenuto degradante) della forza bruta di tradizione omerica.
Ottavo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso la connessione con quanto ancora deve avvenire nel testo. Anche questo è un fenomeno che abbiamo visto, sia pure en passant, negli esempi virgiliani fatti prima. Nell’Eneide la similitudine crea più volte una sorta di cortocircuito con la narrazione. La similitudine, cioè, non si limita a segnalare quanto già sta succedendo, ma anticipa qualcosa relativo al seguito della narrazione, e addirittura spesso lo commenta. In un certo senso, Laocoonte diventa il toro sacrificale cui è paragonato, l’uno e l’altro malamente uccisi sotto gli occhi di tutti. La similitudine si fa qui realtà della narrazione, spiegazione di ciò che sta avvenendo e anticipo e commento del destino dei personaggi in gioco (tanto Laocoonte quanto i suoi spettatori). Questo in Omero non c’è. In Omero le similitudini al massimo possono anticipare qualcosa che si vedrà nel seguito, come succede per quella che, nel XXII libro dell’Iliade, parifica Achille ed Ettore che corrono intorno alle mura di Troia a cavalli e cocchi che girano intorno alla meta in una gara di corsa (la gara, com’è noto, si svolgerà per davvero nel libro successivo, come parte dei giochi funebri in onore di Patroclo; ma fra similitudine e sua attuazione non c’è nessuna relazione di causa/effetto). Invece, dopo Virgilio il meccanismo diventa abbastanza comune. In Ovidio, Metamorfosi I, 492-496, l’amore di Apollo per Dafni è come ignis in stipula, un’espressione proverbiale per indicare un fuoco impetuoso ma di breve durata; e in effetti gli amori di Apollo nelle Metamorfosi saranno tanti, a partire già dal libro immediatamente successivo… Eco si consuma d’amore come uno zolfanello acceso, Metamorfosi III, 372-374, dell’uno come dell’altra essendo destino che rimanga poco più che una tenue traccia. Rifacendomi ancora una volta a Claudiano, ricordo che l’uomo forte cui Eutropio si appoggia, il condottiero che mette alla guida dell’esercito, si chiama Leone – leone di nome, ma non di fatto. Le similitudini che si riferiscono a lui sono perciò altrettanto significative di quelle in uso per Eutropio: non animali nobili, ma il daino – l’animale che per tradizione fugge – e una sus cucinata nella mensa imperiale, e che lancia grandi strida, intuendo il proprio destino. Leone, inutile dirlo, alla prima spedizione militare non solo viene sconfitto, ma muore durante la fuga – a detta di Claudiano, che probabilmente sta inventando, muore di paura, al solo sentire stormire le fronde alle spalle, temendo di essere raggiunto dai nemici.
Nono e ultimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni intertestuali. Ho ricordato come in Virgilio si osservi un caso evidente di intratestualità, per cui quella che nelle Georgiche è una realtà di fatto – la lotta dei tori per il controllo della mandria – diventa nell’Eneide una similitudine alla quale si può fare ricorso. Ciò si avverte nella intra- ma, com’è ovvio, ancor più nella intertestualità. Anche qui Virgilio fa scuola: nel V libro, entro i ludi in onore di Anchise, egli sostituisce alla gara con i cocchi di Omero una regata nautica, che però costruisce ed atteggia come se fosse una gara con i cocchi; perfino in similitudine, visto che ai vv. 139-150 le navi sono paragonate proprio a cocchi che compiano la gara omerica. In Lucano, II, 601-609, Pompeo che abbandona l’Italia per riprendere altrove la lotta contro Cesare è assimilato al toro sconfitto da un rivale, che si ritira in disparte per recuperare le forze, prima di tornare alla mandria e sfidare di nuovo il rivale. E’ il seguito del racconto virgiliano delle Georgiche, il passo che Virgilio aveva riutilizzato di suo nell’Eneide, concentrandosi però solo sulla lotta tra i tori. Qui Lucano attraverso la similitudine recupera invece l’intero contesto virgiliano e così rende omaggio al suo predecessore; ma nello stesso tempo sottolinea anche le speranze e il punto di vista di Pompeo al momento della partenza, gli alibi, se vogliamo, con i quali egli giustifica la propria scelta. Com’è noto, Pompeo non tornerà mai più in Italia, e quella lotta ad armi pari, fra tori/combattenti perfettamente allenati, che la similitudine gli augura, di fatto non avrà luogo, o quanto meno non avrà luogo nei termini previsti dal racconto virgiliano. L’immagine dei tori in lotta ha però ancora un seguito, in Stazio, II, 323-332. I due tori sono, ovviamente, Eteocle e Polinice – fatto salvo che, al momento, i due non si stanno davvero affrontando: il loro duello è ritardato fino all’XI libro e, come tutti sappiamo, si concluderà in modo insolito e improbabile per il paragone proposto, ossia con la morte di entrambi i contendenti. Protagonista della similitudine è Polinice lontano da Tebe, che ad Argo si sta sposando con la figlia di Adrasto, il re della città:
veluti dux taurus amata
valle carens, pulsum solito quem gramine victor
iussit ab erepta longe mugire iuvenca,
cum profugo placuere tori cervixque recepto
sanguine magna redit fractaeque in pectora quercus,
bella cupit pastusque et capta armenta reposcit
iam pede, iam cornu melior (pavet ipse reversum
victor, et attoniti vix agnovere magistri):
non alias tacita iuvenis Teumesius iras
mente acuit…
Anche qui quella che originariamente era un’immagine di Natura diviene una similitudine, con lo stesso procedimento adottato prima da Virgilio nell’Eneide, poi da Lucano. Come in quest’ultimo, tutti i dettagli del racconto georgico sono introdotti nella similitudine, a partire dall’esercizio preparatorio per arrivare alla vittoria conseguita dall’animale inizialmente sconfitto, il cui ritorno incute spavento perfino al momentaneo vincitore – due dettagli che, applicati alla situazione contingente di Polinice, il iuvenis Teumesius del testo, esprimono ancora una volta più una proiezione delle sue speranze future che l’attualità del racconto (Polinice si sta sposando, non esercitando; il ritorno a Tebe è stato deciso, ma deve ancora avere inizio). Rispetto ai poeti che l’hanno preceduto, in Stazio evidenzierei la maggiore insistenza sui dettagli violenti della scena, che riprendono ed enfatizzano dei tratti presenti solo in nuce in Virgilio, ora invece esposti alla vista di tutti. Da ultimo, segnalerei la progressiva risemantizzazione della similitudine: “scena d’amore” nelle Georgiche, essa diviene similitudine entro una lotta per la conquista della mano della figlia del re (e dunque, con un tratto amoroso non disgiunto però da uno politico) nell’Eneide; per farsi poi similitudine di valore puramente politico in Lucano e nella Tebaide. Come a dire che la passione reale, di Pompeo, ma soprattutto di Polinice (che pure si starebbe sposando), quella per cui ognuno di loro vive e lotta, è il potere, non l’amore. In fondo, è una cosa che sapevamo già; ma che la similitudine, con il suo carico di storia, ci dice con una chiarezza assoluta.
© Massimo Gioseffi, 2017
Gioseffi – Similitudini animali nell’In Eutropium di Claudiano, 2008