Et in Arcadia ego è il titolo di una costante iconografica diffusa soprattutto nella pittura del XVII secolo. Da quel titolo, divenuto proverbiale, nel 1936 il critico e letterato Emilio Cecchi trasse lo spunto per le proprie memorie relative a un viaggio compiuto in Grecia due anni prima, nel 1934; il libro, tuttora reperibile in commercio, descrive la visita di Corfù, Creta e in particolare Cnosso, Delfi, Micene, Corinto e parte del Peloponneso, e infine Atene, in cerca delle più importanti tracce artistiche e archeologiche. E’ un’interessante testimonianza sulla Grecia dei tempi andati, nella quale – va sottolineato – il gusto del pittoresco, dello stereotipo folclorico e folcloristico, si mescola in continuazione con folgoranti intuizioni delle tracce lasciate dalla storia più moderna. Quanto all’iconografia propriamente detta di Et in Arcadia ego, essa è stata fatta oggetto di studio nel bel volume di Petra Maisak, Arkadien. Genese und Typologie einer idyllischen Wunschwelt, Frankfurt a.M./Bern 1981. Qui mi occuperò solo delle due attestazioni più comuni del tema: il dipinto di Poussin conservato al Louvre di Parigi, e datato 1639; il dipinto di Guercino, oggi facente parte della collezione di Palazzo Barberini a Roma, datato 1618-1622 (la datazione precisa è incerta, ma oscilla fra questi due estremi). Si tratta di due riletture dello stesso tema: a indicare la propria presenza in Arcadia, supposta come un’isola felice secondo una vulgata che non è di Virgilio, ma che risale a un certo modo tipicamente rinascimentale di interpretare e semplificare le egloghe di Virgilio, è la morte. Per quanto piacevolmente si possa vivere in Arcadia, i pastori scoprono, con curiosità e sgomento, che anche in quella sorte di paradiso terrestre ha spazio la morte. Erwin Panofsky nel 1939 scrisse un celebre saggio per mettere in evidenza l’ambiguità dell’espressione, che può riferirsi sia a un generico e generale Memento mori, sia alla persona specifica della quale si scopre la tomba (e che in questo caso si immagina essere l’artista che ha realizzato il dipinto). Come a dire: anche in Arcadia si trova la morte; oppure, anch’io, benché arcade e quindi eccelso nelle mie capacità artistiche, ho trovato la morte. Poussin sintetizza tutto questo in una scena ariosa e monumentale, che descrive il rinvenimento di un sarcofago di dimensioni da mausoleo (che, se accettiamo la prima interpretazione del titolo, potrebbe essere il sepulchrum Bianoris citato da Virgilio nella nona egloga, v. 60; oppure, la tomba di Dafni, rievocata – ma con diverso epitaffio – nella quinta egloga, vv. 42-44). Come che sia, i pastori, incuriositi e stupefatti, misurano le dimensioni dell’ampia costruzione, ne leggono l’iscrizione, mettendo un dito nelle lettere incise, così da seguirne più agevolmente la struttura; indicano la tomba a una figura femminile enigmatica (secondo alcuni una pastorella; secondo altri, una dea, o forse la Sibilla abitatrice anch’essa, in Virgilio, di antiquae silvae), e per suo tramite a noi. Una precedente versione dell’opera, più piccola di dimensioni e più raccolta nell’iconografia, mostra invece una tomba seminascosta, e non en plein air, e un atteggiamento più vivo e meno teatrale nei diversi pastori. Questo secondo (ma cronologicamente primo) dipinto, oggi conservato a Chatsworth House, nel Derbyshire, è fatto comunemente risalire al 1627, e sembra quindi una reazione abbastanza immediata e vicina al dipinto di Guercino, specie ricordando che Poussin, trentenne, nel 1624 era venuto a Roma, ospite proprio di quel cardinale Antonio Barberini nei cui appartamenti il dipinto di Guercino probabilmente già si conservava, sebbene Panofsky abbia individuato il committente dell’opera in Giulio Respigliosi, futuro papa Clemente IX, amico e collaboratore del Barberini (e anche sebbene il dipinto non sia citato nei cataloghi di Palazzo Barberini prima del 1644).
Quanto al dipinto di Guercino, la scena lì è più cupa. Due pastori rinvengono un teschio, sotto il quale appare l’iscrizione che conosciamo. L’ambiente è poco propizio: le selve incombono scure, tenebrose; non c’è affabilità di paesaggio, e solo sullo sfondo si apre un’immagine di luce, in un chiarore che ha però qualcosa di pretemporalesco. Anche i due pastori, perfettamente vestiti, senza figure femminili di accompagnamento (come invece avveniva nell’uno e nell’altro dipinto di Poussin), senza pose monumentali o teatrali, drappeggi pesanti e neoclassici, atteggiamenti da numi olimpici più che da pastori reali o realistici, mostrano una serietà e una seriosità che ben si adatta al messaggio complessivo del quadro, qui sicuramente da interpretare nella direzione di una presenza della morte perfino nei territori dell’Arcadia. Il teschio è elemento ricorrente nelle nature morte del XVII secolo e nel programma iconografico che va sotto il titolo di Vanitas vanitatum, del quale si conservano in tutti i musei numerose attestazioni; sul teschio di Yorick, lo ricordiamo, pochi anni prima, nel 1602, William Shakespeare aveva fatto pronunciare ad Amleto il suo Alas, poor Yorick ! I knew him, Horatio!.
Esiste però anche un’altra interpretazione dell’Arcadia, più in linea con la visione tradizionale dell’Arcadia come terra felice, di canti, amori, luminosi paesaggi, contrasti sanati. Ne offro due esempi. Il primo è un quadro del pittore russo Konstantin Makovsky, realizzato nel 1890, e oggi parte di una collezione privata. Nato a Mosca nel 1839, Makovsky è il tipico pittore ottocentesco (leggermente attardato, magari, rispetto alla tradizione dell’Europa occidentale), che si concentra prima su temi storici della Grande Patria Russa, poi su cartoline di genere, che dovrebbero cogliere l’anima folclorica e il vero spirito della suddetta Grande Patria. Arcadia felix, il quadro che ci interessa, fa un po’ eccezione nella sua produzione. L’Arcadia è vista come terra di pastori che suonano e cantano (sono ben in evidenza gli strumenti musicali: nei dipinti di Guercino e Poussin, se mancavano le greggi, mancavano però anche i ferri del mestiere di musici), che ballano e danzano, fra ninfe compiacenti e discinte, corpi giovani ed allettanti, elementi della tradizione dionisiaca (la tigre/pantera sulla destra del quadro), declinata in chiave erotico-sentimentale (a reggere le briglia dell’animale selvatico non è Bacco, ma un Amorino). Siamo davanti a una raffigurazione sincretica e simbolica dell’età dell’oro, con tanto di contrasti di Natura ormai felicemente appianati, più che a una rappresentazione dell’Arcadia, o anche solo del mondo virgiliano, o di ciò che del mondo virgiliano si poteva banalmente pensare.
L’ultimo quadro che presento è opera del pittore americano Thomas Eakins. Nato nel 1840, Eakins, a parte un viaggio di studio in Europa, visse pressoché sempre nella nativa Filadelfia, della quale ritrasse scene e personaggi famosi (incluso il padre, insegnante di materie classiche). Arcadia, il dipinto che qui ci interessa, esiste anch’esso in due versioni. Nella prima, risalente al 1883 e oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, la futura moglie del pittore, Susan Macdowell, il piccolo nipote Ben Crowell (figlio di una sorella) e un giovane allievo, James Laurie Wallace, tutti e tre piuttosto discinti, abitano, perdendosi in esso, un immenso paesaggio bucolico. I due giovani suonano uno strumento (rispettivamente, il flauto di Pan e la zampogna), mentre la donna, estasiata, di spalle allo spettatore, ma rivolta verso i due suonatori, ascolta, ninfa beata, il concerto a lei riservato. Nella seconda versione, ritenuto in genere un bozzetto preparatorio del quadro maggiore, appare invece solo la donna, drappeggiata in abito antico. Il quadro oggi fa parte di una collezione privata, e si data ovviamente agli stessi anni del dipinto maggiore. In vari musei americani si conservano anche diverse fotografie preparatorie, realizzate da Eakins per poter disporre nello studio di modelli adeguati, secondo una tecnica di cui proprio lui è considerato il principale inventore. Dell’Arcadia, anche qui più tradizionale che realmente virgiliana, viene sottolineato, nei dipinti, la capacità di realizzare una perfetta sintonia uomo/Natura, al punto che l’elemento umano, pur al centro del quadro, si perde nella complessità del paesaggio, che lo assume e quasi lo assorbe in sé.
© Massimo Gioseffi, 2019